Le prove sui benefici della cannabis a uso terapeutico sono ancora poche

Un'ampia revisione degli studi pubblicati finora ha fatto il punto, trovando indizi convincenti solo per il trattamento di alcune condizioni con farmaci a base di cannabinoidi

(Uriel Sinai/Getty Images)
(Uriel Sinai/Getty Images)
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Un’ampia analisi delle ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi quindici anni sull’uso della cannabis per scopi terapeutici mostra quanto la percezione degli eventuali benefici sia più alta rispetto a cosa può per ora dire la scienza. Per la maggior parte degli impieghi terapeutici mancano infatti prove solide, con un’efficacia dimostrata solo per un numero limitato di condizioni che vengono trattate con farmaci derivati da sostanze contenute nella cannabis, e non attraverso il suo consumo diretto. Lo studio, molto ampio e documentato, è stato accolto con interesse, ma alcuni esperti hanno criticato le modalità con cui sono state scelte le ricerche per l’analisi.

Ogni giorno in tutto il mondo milioni di persone fanno ricorso alla cannabis per scopi terapeutici, con l’obiettivo di trattare condizioni come il dolore cronico, l’ansia e l’insonnia. Il settore è in piena espansione, specialmente nel Nord America dove sono state adottate regole meno stringenti per utilizzare una sostanza fino a qualche tempo fa definita solo come stupefacente, e per questo vietata. Seppure con maggiori cautele, anche in alcuni paesi europei le limitazioni sono state ridotte e l’uso terapeutico della cannabis è consentito a certe condizioni. Si stima che tutto questo abbia portato a un mercato globale di svariate decine di miliardi di euro, con prospettive di ulteriori crescite nei prossimi anni.

L’uso della cannabis per trattare condizioni di salute molto diverse tra loro ha portato negli ultimi anni diversi gruppi di ricerca a interessarsi alla questione, con studi orientati a provare a misurare gli effetti dei trattamenti che vengono prescritti o – dove consentito – intrapresi autonomamente dai pazienti. Come in altri ambiti della medicina, valutare il fenomeno non è però semplice a causa dell’alta variabilità dei trattamenti e del modo in cui vengono applicati. Nel tempo sono state prodotte migliaia di ricerche, spesso basate su piccole quantità di pazienti, e con dati difficili da confrontare.

Un gruppo di ricerca guidato da Michael Hsu dell’Università della California (Los Angeles), ha provato a fare ordine tra le tante ricerche, prendendone in considerazione oltre 2.500 pubblicate tra il 2010 e il 2025, concentrandosi poi su un centinaio di studi recenti e di grandi dimensioni. Insieme al proprio gruppo di ricerca, Hsu ha fatto una revisione, cioè una sintesi della letteratura scientifica su quell’argomento per riassumere gli indizi trovati, i limiti degli studi esistenti e fare il punto sulle raccomandazioni attuali per le pratiche mediche, senza eseguire nuove analisi statistiche di combinazione dei dati (come avviene nelle meta-analisi quantitative).

La revisione è stata pubblicata su JAMA, una delle riviste mediche più importanti al mondo, e ha fatto una distinzione tra uso della cannabis di per sé e l’impiego dei cannabinoidi, cioè dei principali composti attivi nella pianta della cannabis o imitati in laboratorio (come il CBD e il THC, la sostanza psicoattiva). Sugli effetti della prima usata a scopi terapeutici non sono state trovate prove convincenti, mentre sui cannabinoidi di grado farmaceutico sono stati identificati benefici specifici.

I prodotti farmaceutici a base di cannabinoidi hanno per esempio mostrato di avere una buona efficacia nel ridurre nausea e vomito indotti dalla chemioterapia, rispetto ad altri tipi di farmaci o alla somministrazione nei test di sostanze che non fanno nulla (placebo). Altri si sono rivelati utili per ridurre la frequenza delle convulsioni in alcune sindromi pediatriche, mentre una ricerca ha segnalato un effetto moderato nel favorire l’aumento del peso corporeo nelle persone con anoressia correlata alla presenza dell’HIV (il virus che può comportare l’AIDS).

I farmaci a base di cannabinoidi sono diffusi da tempo e il loro impiego è valutato e autorizzato dalle autorità di controllo e sanitarie come tutti gli altri medicinali, con modalità di accesso che variano a seconda dei paesi. In Italia possono essere utilizzati sotto prescrizione medica e sono generalmente coperti dal Servizio sanitario nazionale.

Per gli usi della cannabis terapeutica, quindi l’impiego della pianta in diverse formulazioni (infiorescenze essiccate, oli, capsule, infusi, preparazioni galeniche), le prove di efficacia sono state giudicate insufficienti, deboli o inconcludenti a seconda dei casi. Uno dei maggiori impieghi, quello per trattare il dolore cronico, è sostenuto da prove limitate ed è sconsigliato da diverse associazioni di medici come primo intervento, perché possono essercene di più efficaci tra i trattamenti farmacologici sviluppati negli anni (e spesso specifici per le tipologie di dolore). Non sono state inoltre trovate prove convincenti sul fatto che la cannabis possa alleviare il dolore acuto, così come nell’alleviare alcuni sintomi come quelli dovuti al Parkinson, a forme reumatiche e di demenza.

L’analisi pubblicata su JAMA ha preso in considerazione anche il trattamento dell’ansia, per il quale viene spesso consigliata la cannabis terapeutica in particolare nel Nord America. Uno studio compreso nella ricerca, svolto sui reduci di guerra con disturbo da stress post-traumatico (PTSD), non ha trovato differenze significative rispetto ai trattamenti con il placebo. L’impiego della cannabis per trattare disturbi psichiatrici è del resto ancora discusso, perché in alcune circostanze sembra possa aumentare il rischio di far emergere o peggiorare psicosi e tendenze suicide.

Sull’insonnia gli studi condotti finora hanno portato a risultati poco affidabili, tanto che al momento le principali organizzazioni che si occupano dei disturbi del sonno non raccomandano in modo netto l’uso della cannabis terapeutica. Alcune persone che l’hanno usata per trattare l’insonnia hanno detto di avere riscontrato un ritorno del disturbo dopo la sospensione della cannabis, ma c’è il sospetto che potesse trattarsi di un sintomo di astinenza dalle sue sostanze più che una prova dell’efficacia del trattamento.

In alcuni casi sono stati invece trovati indizi di efficacia, per quanto sfumati, per esempio nelle preparazioni con un rapporto più alto di THC rispetto al CBD, usate per trattare il dolore causato da particolari disfunzioni del sistema nervoso (dolore neuropatico). È stato anche riscontrato un miglioramento, per quanto non semplice da quantificare, nei casi di spasticità dovuta ad alcune forme di sclerosi multipla che non risponde ad altri tipi di trattamenti.

Il gruppo di ricerca di Hsu ha anche fatto una valutazione della letteratura scientifica sui rischi e benefici dell’utilizzo della cannabis terapeutica. Una ricerca del 2024 ha segnalato che quasi un terzo di chi usa la cannabis a scopi medici sviluppa un disturbo da uso di cannabis, cioè ne fa un impiego problematico e ricorrente tale da poter compromettere la propria vita sociale e la salute. È stato rilevato anche un lieve aumento del rischio di avere problemi cardiaci e psichiatrici, specialmente tra chi fa uso di cannabis con un alto contenuto di THC.

Secondo gli autori dell’analisi pubblicata su JAMA, i rischi più grandi sono comunque legati alla mancanza di standard chiari sulla produzione e la preparazione delle formulazioni. A seconda di come vengono coltivate e trattate, le piante di cannabis hanno diversi livelli di cannabinoidi e altre sostanze ed è difficile fare un controllo della qualità. La medesima terapia prescritta può quindi poi variare per uno stesso paziente, a seconda dei modi in cui si procura le formulazioni e il modo in cui queste vengono preparate. Il problema è maggiormente sentito negli Stati Uniti dove il mercato è più libero che altrove, come in Italia.

Le regole per l’uso della cannabis a scopo terapeutico nel nostro paese sono molto rigide. Le preparazioni, in forma di prodotto essiccato od oli, ufficialmente prescrivibili e rimborsabili sono principalmente prodotte in uno stabilimento militare di Firenze (SCFM), seguendo certi standard legati al dosaggio e alla quantità di THC e delle altre sostanze. È prevista l’importazione dall’estero quando la produzione nazionale non copre tutta la domanda, o se ci sono varietà specifiche che non vengono prodotte in Italia.

La nuova revisione è stata accolta con interesse perché fa il punto sulle attuali conoscenze, cercando di mettere ordine tra le ricerche prodotte finora, ma ha anche suscitato qualche critica da chi lavora e ha interessi nel settore. Sono stati espressi dubbi sulle modalità di scelta degli studi per l’analisi, che ne hanno esclusi alcuni meno negativi sull’efficacia di alcuni trattamenti. Nelle revisioni ci si concentra solitamente sugli studi più completi e affidabili, ma in questo caso era difficile farlo proprio a causa della qualità di molti degli studi condotti finora.

A oggi non ci sono studi a lungo termine per molte delle indicazioni per cui viene prescritta o utilizzata la cannabis, in parte perché non ci sono molti incentivi per le aziende del settore a finanziarli. I loro prodotti sono già venduti, spesso con un largo successo commerciale, e non c’è quindi la necessità di approfondire più di tanto o come si fa in altri ambiti, come quelli farmaceutici più regolamentati. Ai pazienti dovrebbero però essere esposte le grandi incertezze sui trattamenti che vengono loro consigliati, per lo meno per attenuare le aspettative o il divario emerso dall’analisi sugli effetti percepiti e quelli che si possono ottenere nei fatti.