A cosa servono le misure inutili nella legge di bilancio
Due proposte molto discusse sull'oro e sui contanti mostrano bene il tentativo di nascondere che ci sono pochi soldi per fare cose ambiziose

Era ampiamente risaputo che la legge di bilancio per il prossimo anno non si sarebbe distinta per ambizione: non ci sono soldi per misure costose, e quei pochi che ci sono il governo ha deciso di destinarli perlopiù a rimettere a posto i conti e alle spese per la difesa. La legge di bilancio attualmente in discussione per il 2026 vale 18,5 miliardi di euro, una delle più limitate degli ultimi dieci anni, e finanzierà misure per famiglie e imprese che non spiccano particolarmente e non stimolano il dibattito.
Fatto salvo questo impianto generale, durante la discussione parlamentare i partiti di maggioranza hanno inserito o tentato di inserire emendamenti con misure piccole, poco costose e dallo scarso rilievo pratico, ma comunque molto simboliche e ideologiche, che quindi in un modo o nell’altro fanno discutere e danno l’impressione che la legge di bilancio sia ricca di contenuti, quando in realtà non lo è. Ce ne sono due di cui si è parlato molto nelle ultime settimane: una sull’oro della Banca d’Italia, forse la più discussa in assoluto quest’anno, e un’altra sul limite all’uso del contante.
Sono entrambe proposte che cambiano ben poco, ma in grado di polarizzare molto il dibattito. Questo meccanismo di distrazione non è ovviamente una novità recente, ma stavolta è risultato particolarmente evidente proprio per la modestia generale del resto della legge di bilancio.
La legge di bilancio è uno dei provvedimenti più importanti dell’anno, perché stabilisce come varierà il bilancio dello stato nell’anno successivo, cioè come cambieranno la spesa pubblica e le tasse. La presenta il governo in parlamento, che poi la discute e la deve approvare ogni anno entro il 31 dicembre. Durante questo procedimento i parlamentari cercano di posizionarsi politicamente sui temi di cui si occupano di più, presentando proposte di modifica: lo fanno un po’ tutti, anche quelli dei partiti di maggioranza.
In certi casi sono proposte concordate col governo stesso, che magari nel frattempo si è accorto di poter migliorare alcune cose, o che decide per opportunità politica di lasciare ai parlamentari la possibilità di intestarsi alcune battaglie condivise. La maggior parte delle proposte minori però alla fine è il risultato dell’iniziativa dei singoli, che si fanno portatori di interessi particolari dei loro territori o delle loro categorie di riferimento.
Questa pratica è nota nel gergo politico come «assalto alla diligenza»: da qualche anno il governo tende a concedere sempre meno soldi per queste iniziative, che dunque hanno scarsissima possibilità di essere approvate. I parlamentari ci provano lo stesso, così da poterlo rivendicare pubblicamente davanti al proprio elettorato, ed è anche per questo che le proposte sono più simboliche che altro.
Quest’anno sono stati depositati quasi 6.000 emendamenti. Il solo centrodestra ne ha presentati 1.600. Nelle scorse settimane la commissione Bilancio del Senato ha fatto la consueta opera di scrematura per arrivare a qualche centinaio al massimo, considerando solo i cosiddetti “segnalati”, cioè gli emendamenti che i vari partiti ritengono effettivamente importanti e che segnalano, appunto. Nel corso delle settimane per arrivare a una lista ancora più breve ci sono stati anche i “super-segnalati”.
Tra quelli giudicati ammissibili c’erano appunto i due molto discussi di recente.

Il testo del disegno di legge di bilancio (Roberto Monaldo/LaPresse)
Il primo è quello depositato dal senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan sulle riserve d’oro della Banca d’Italia, un patrimonio di oltre 200 miliardi che serve in caso di crisi finanziarie o valutarie. Nella sua prima versione diceva: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Era evidentemente un emendamento dal significato esclusivamente simbolico e politico, perché di fatto l’oro è già dello Stato italiano e a disposizione per gli interessi della popolazione italiana: la Banca d’Italia è a tutti gli effetti un’istituzione pubblica, benché formalmente indipendente dalla politica.
Da tempo la destra italiana sostiene però che le riserve d’oro italiane debbano essere nelle disponibilità del governo, e non della Banca d’Italia, perché a suo dire in estrema sintesi il governo di un paese rappresenta in maniera più compiuta il «popolo italiano» rispetto a un organismo non eletto. Se potesse davvero spendere le riserve auree dello Stato italiano, il governo potrebbe teoricamente impiegarle per abbassare le tasse, o per costruire il ponte sullo Stretto, oppure per approvare misure specifiche contro la povertà. Gran parte degli economisti la considera una pessima idea, non solo perché uno Stato che vende il suo patrimonio per racimolare i fondi per misure ordinarie trasmette un senso di disperazione, ma anche perché le riserve auree, insieme a quelle di valuta estera, hanno un fine preciso: sono da usare in caso di emergenze, come una crisi finanziaria.
L’emendamento proposto da Malan non si spinge evidentemente fino a spostare la competenza delle riserve al governo, ma ribadire in questo modo che è del «popolo italiano» suggerisce velatamente che questa sia la posizione del principale partito della maggioranza di governo.
La gestione dell’oro è però di esclusiva competenza della Banca d’Italia e in ultima istanza della Banca Centrale Europea, dato che l’Italia aderisce al sistema dell’euro. I trattati europei vietano ovviamente non solo tutto quello che sottende l’emendamento di Malan, ma anche la procedura con cui è stato presentato: Malan non ha consultato preventivamente la BCE, che poi ha espresso un parere negativo sulla prima e anche sulla seconda versione, che pure esplicitava il fatto che l’emendamento non prevalesse sulle norme europee, che tutelano l’indipendenza delle banche centrali. La BCE ha detto entrambe le volte che non era chiara la finalità concreta della misura, ed è proprio questo il punto: una finalità concreta non c’era.
Era una battaglia di principio che richiama le posizioni antieuro di Fratelli d’Italia e Lega di qualche anno fa (e quindi fa contenta una parte del loro elettorato), mentre ora i partiti al governo sono molto più accomodanti verso le istituzioni europee. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, dopo giorni di discussione su questo, ha detto che risolverà la questione: è possibile che il governo imponga un’ulteriore riformulazione o che lo tolga del tutto dalla lista degli emendamenti che raggiungeranno la discussione finale.

Al centro il ministro Giorgetti in commissione Bilancio, a inizio novembre (Mauro Scrobogna/LaPresse)
L’altro emendamento riguarda il limite all’uso del denaro contante, cioè quella soglia sopra la quale è vietato per legge usare i contanti. È un altro tema molto caro ai partiti al governo e di scarsa rilevanza pratica, ma su cui la discussione è sempre stata molto polarizzata: secondo i partiti di sinistra toglierlo favorirebbe l’evasione fiscale e la criminalità, mentre per quelli di destra è una costrizione della libertà personale e un freno ai consumi italiani.
Per queste ragioni quando cambia un governo viene spesso rimaneggiato il tetto all’uso del contante, non tanto perché ci siano effetti concreti dimostrati da un limite di spesa in contanti più alto o più basso, quanto per dare un segnale politico al proprio elettorato. Il governo attuale ha già alzato questa soglia con la legge di bilancio per il 2023, la prima del governo di Giorgia Meloni, quando lo ha spostato da mille a 5mila euro.
Un emendamento proposto sempre da Fratelli d’Italia prevederebbe che questo limite possa essere superato pagando una tassa: se si vuole pagare in contanti una somma tra 5.001 e 10mila euro lo si può fare, ma bisogna versare un’imposta di bollo di 500 euro, a prescindere dall’importo. La misura insomma da una parte aumenta la soglia entro cui è legale pagare in contanti, ammiccando agli elettori di destra, ma dall’altra ne disincentiva sensibilmente l’uso con una tassa molto alta.
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