Cosa succede quando un bene immateriale diventa patrimonio dell’UNESCO

Concretamente, adesso che lo è diventato anche la "cucina italiana"

L'illuminazione al Colosseo per celebrare la cucina italiana patrimonio dell'UNESCO, Roma 10 dicembre 2025 (ANSA/Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi)
L'illuminazione al Colosseo per celebrare la cucina italiana patrimonio dell'UNESCO, Roma 10 dicembre 2025 (ANSA/Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi)
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Mercoledì la cucina italiana è stata inserita all’interno della lista dei beni considerati patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la cooperazione tra gli stati in ambito culturale e scientifico. La notizia è stata ripresa in Italia e all’estero dai giornali, celebrata dalle istituzioni politiche italiane e condivisa da moltissime persone sui social, con messaggi più o meno scherzosi sul proverbiale orgoglio nazionale degli italiani per il cibo.

Quando un bene materiale – come un sito architettonico o naturale – viene dichiarato patrimonio dell’UNESCO, l’impatto è spesso evidente: questo posto riceve maggiore visibilità, comincia a essere più promosso dalle agenzie turistiche e dall’amministrazione locale, i turisti aumentano e così anche i guadagni delle attività collegate, a volte con una trasformazione del posto stesso. Meno immediato invece è capire cosa questo riconoscimento significhi concretamente per un bene immateriale e dai contorni vaghi come “la cucina italiana”.

L’UNESCO ha detto che ciò che è stato incluso nella lista non è la tradizione culinaria italiana intesa come i suoi prodotti o le sue ricette, ma la cucina italiana come «attività collettiva» che valorizza la socialità e i momenti conviviali, la trasmissione del sapere attraverso le generazioni e l’attenzione alla stagionalità, cosa che la rende sostenibile da un punto di vista ambientale. La più ampia tradizione della cucina mediterranea era peraltro già stata inserita nella lista dell’UNESCO nel 2013.

La lista dei beni immateriali dell’UNESCO esiste dal 2007. Considera tali le tradizioni culturali «trasmesse dai nostri antenati». Oggi nella lista ci sono 788 di queste tradizioni, da 150 paesi del mondo: tra i più recenti ci sono per esempio “l’arte di costruire e suonare il kobyz”, uno strumento musicale uzbeko, una musica da ballo originaria di Córdoba, in Argentina, e il “Diwali”, una ricorrenza induista molto sentita. All’interno di questa lista c’erano già altri 20 beni immateriali italiani, tra cui la pratica del canto lirico, la cavatura del tartufo e l’arte del “pizzaiuolo” napoletano.

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L’obiettivo dell’UNESCO è sottolineare l’importanza di salvaguardare «dalla globalizzazione» e attraverso le generazioni le tradizioni tipiche di certe parti anche piccole del mondo. Per i paesi che presentano le candidature l’interesse è invece soprattutto legato al prestigio, alla visibilità internazionale e possibilmente ai ritorni economici e turistici che l’associazione alla lista dell’UNESCO porta. Sono infatti i singoli paesi a individuare e candidare i propri beni, materiali o immateriali, compilando un formulario e inviando la proposta alla commissione internazionale per l’UNESCO. È un processo che può durare anche diversi anni: il governo italiano aveva presentato la candidatura all’inizio del 2023.

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Non è facile però quantificare il ritorno effettivo di un riconoscimento del genere. Nel 2023 Pier Luigi Petrillo, professore e presidente dell’Organo degli Esperti Mondiali della Convenzione UNESCO per il Patrimonio Culturale Immateriale, ha avviato all’università La Sapienza di Roma una ricerca interdisciplinare – cioè insieme a economisti, antropologi, sociologi, giuristi e storici – per misurare l’impatto economico dei riconoscimenti da parte dell’UNESCO, sia per i siti culturali e naturali, sia per i beni immateriali, in otto paesi tra cui l’Italia. Essendo Petrillo membro dell’UNESCO non va considerata come una ricerca imparziale e indipendente, ma contiene comunque dei dati interessanti.

Per esempio i dati mostrano che da quando l’arte dei “pizzaiuoli” napoletani è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale, nel 2017, l’offerta di corsi professionali per diventare pizzaioli sia in Italia che all’estero è aumentata continuamente e sono aumentate anche le scuole in Italia e all’estero che hanno ottenuto l’accredito per formare i pizzaioli: oggi i corsi professionali per pizzaioli sono in totale 246 (tra Italia e estero) mentre nel 2017 erano 64.

«Premesso che una candidatura UNESCO non si fa per la sua resa economica, è innegabile che un patrimonio abbia un impatto economico», aveva detto Petrillo in un’intervista dell’anno scorso, parlando dei risultati della sua ricerca. Ma se l’arte dei “pizzaiouli” è una tradizione abbastanza specifica da poter essere commercializzata, è più difficile immaginarsi come questo possa essere fatto con la cucina italiana in generale.

Per quanto riguarda i beni materiali, come dicevamo, sfruttare questo riconoscimento e poi misurarne l’impatto è più facile. A Pantelleria, dove la pratica agricola della coltivazione della vite ad alberello è diventata patrimonio immateriale nel 2014, il grosso aumento di visitatori si è visto a partire dal 2022, quando è stato istituito il parco nazionale e sono state fatte campagne di comunicazione basate proprio sul riconoscimento UNESCO. Anche in Veneto, dice Petrillo, «dove “le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene” sono patrimonio mondiale, sono triplicate le aziende connesse a quel riconoscimento».

Nella stessa intervista, Petrillo aveva spiegato anche che «l’Italia è una potenza all’UNESCO: qui siamo come gli Stati Uniti d’America nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Pur se piccolo, siamo un paese ricco di patrimoni».