Lettera di un detenuto sul suicidio e sulla vita

«Avete mai osservato una mosca, attaccata al vetro della finestra, mentre ronzando spreca inutilmente tutte le sue energie per attraversarlo?»

Veduta aerea del carcere di San Vittore -
Casa circondariale Francesco Di Cataldo, a Milano (via Google Maps)
Veduta aerea del carcere di San Vittore - Casa circondariale Francesco Di Cataldo, a Milano (via Google Maps)
Milan Mazic
Milan Mazic

È nato a Zemun in Serbia il 20 settembre 1953. Nel 2015 con l'Associazione Anemos di Reggio Emilia ha pubblicato il romanzo Anche questo è un uomo. Attualmente è detenuto nel carcere di San Vittore a Milano.

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Non è facile stabilire con precisione quante volte il pensiero del suicidio sfiori un detenuto durante la sua detenzione.

Dal momento che incomincia a considerare una tale ipotesi, quello che più lo attrae in quel gesto è la certezza dell’immediata liberazione da una situazione resasi ormai insopportabile. Sulla sua decisione non poco influisce anche la consapevolezza di poter finalmente, da solo, porre fine a quel tormento. Una facoltà che gli è stata preclusa e che la sola idea del suicidio riesce a restituirgli.

I pensieri di un detenuto, soprattutto nella notte successiva a una richiesta di scarcerazione respinta, trovano pochi appigli a cui aggrapparsi. La notte è la maschera: sotto, sei libero.

Sdraiato sopra la branda di ferro, osserva con disgusto tutto quello che lo circonda. Ogni cosa su cui posa lo sguardo gli pare ostile ed estranea. Le luci che provengono dal cortile, e che riflettono sulle mura della cella le forme dilatate delle sbarre, gli appaiono foriere di un delirio senza fine. Il respiro degli altri compagni che dormono, spesso interrotto da un tossicchio o da qualche parola incomprensibile che si dice nel sonno, fungono da colonna sonora di quel delirio. Dal corridoio, attraverso le inferriate della porta sopra cui pende un piccolo crocefisso di legno, fa il suo ingresso un odore di minestra che gli occupanti della cella di fianco stanno cucinando. Dalla lieve fragranza che emana, il detenuto capisce che è povera di condimenti.

Si alza dalla branda e si avvia verso il bagno.

Vuole fumare una sigaretta.

Chiude la porta dietro di sé e, accostatosi al lavandino, inizia a fissare lo specchio che gli sta di fronte. Osserva il proprio viso per un po’ e poi, con insolita lentezza, infila la sigaretta tra le labbra.

Neanche tre passi dalla porta di quel bagno, coricato sopra la branda, dormivo io. Mi ero svegliato come scosso da qualcosa. L’orologio segnava le 5 e 20 del mattino, un orario inconsueto per il mio risveglio.

Mentre cercavo di capire quale insolito rumore avesse interrotto il mio sonno, la mia attenzione venne catturata da una mosca che tentava ostinatamente di oltrepassare il vetro della finestra. Avete mai osservato una mosca, attaccata al vetro della finestra, mentre ronzando spreca inutilmente tutte le sue energie per attraversarlo? Vede l’obiettivo, è là, distante appena qualche battito di ali e ciononostante non riesce a raggiungerlo.

A volte anche gli esseri umani, come le mosche, puntano un obiettivo che pare loro a portata di mano e nel tentativo di raggiungerlo sprecano i migliori anni della loro vita, senza accorgersi che tale strada non è percorribile. Ma, a differenza della mosca, l’uomo non si lascia indirizzare nella giusta direzione da un semplice movimento della mano. È per questo che le luci delle carceri sono sempre accese.

Volevo rigirarmi dall’altra parte e riprendere nuovamente sonno, ma non lo feci. Cominciai a pensare. E venni improvvisamente interrotto dal leggero fruscio della porta del bagno che qualcuno stava aprendo dall’interno. Entrò il mio compagno di detenzione. Il fatto che la cella fosse discretamente illuminata gli permise di accorgersi che ero sveglio. Avevo l’impressione che si vergognasse di qualcosa. Stava ritto in piedi, indossava il pigiama e dalla mano sinistra, leggermente sollevata, pendeva una corda bianca. Si avvicinò all’unico tavolo della cella e, seduto con i gomiti appoggiati, immerse le mani nei capelli, senza allentare la presa sulla corda. Subito dopo emise un sospiro.

«Carcere giudiziario San Vittore. Prospetto planimetrico eseguito dal detenuto M.R. offerto al Sig. Direttore Superiore Comm. Dott. Gino Borgioli. Milano – Ferragosto 1950». (Foto Giacomo Papi)

Ho condiviso la cella con tante persone che finivano dentro per svariati reati. Per lo più mi trovavo con dei ladri, quelli occasionali e quelli che lo sono per mestiere; poi tanti rapinatori e scippatori e soprattutto moltissimi spacciatori e picchiatori di donne e via così fino a quelli che per un motivo o per l’altro hanno tolto la vita a qualcuno, gli assassini.

Ho ascoltato i loro racconti e di molti ho letto anche le carte processuali. Non c’è conforto più grande di raccontare agli altri la propria pena.

Tante storie diverse eppure tanto simili che s’intrecciavano dentro quello spazio di pochi metri quadrati. Quanto a me, nel corso della mia detenzione, non potendo fare altrimenti, ho abbandonato molti vizi e ho placato, per così dire, quel collerico sentimento che nutrivo verso la mia sorte.

È da stupidi imprecare contro la sorte, ma che uno vada a finire in galera per molti è un indice di stupidità. Invece tanti miei compagni di sventura sono più intelligenti di coloro che gli puntano l’indice contro. Se poi mi si chiede come mai gli stessi compagni, una volta scarcerati, fanno di tutto per tornare in carcere, rispondo che l’intelligenza da sola non basta per farci agire intelligentemente. Spesso riusciamo a vivere e a sopravvivere solo grazie alle menzogne con cui, volutamente o no, copriamo ciò che non vogliamo vedere. Essere franchi con sé stessi può sembrare facile, ma in realtà non lo è mai. E infine ci sono le cose che proteggiamo con il silenzio.

Prima ho parlato della somiglianza tra storie tanto diverse perché, curiosamente, con il passare dei giorni a tutti noi diventava chiaro che le nostre azioni criminose, le stesse che appena pochi giorni prima erano riportate sulle pagine di cronaca dei giornali, lentamente perdevano il loro peso e la loro gravità.

È incredibile come il peso morale dei nostri delitti con il passare dei giorni svaniva quasi del tutto: il reato commesso diventava soltanto una scomoda causa che comportava la pena. Mi sono accorto, insomma, che la vita in carcere riesce ad assopire la coscienza anche alle persone avvezze a una vita regolare: a coloro che hanno compiuto delitti in un momento di debolezza, di smarrimento, delitti a volte molto gravi, ma pur sempre non premeditati, casuali, inspiegabili.

È molto raro imbattersi in un recluso con sensi di colpa a causa del reato compiuto.

Per lo meno io non l’ho mai incontrato.

Di fronte alla terribile sventura della perdita totale della libertà, anche il più spietato omicida si sente una vittima.

Dal momento dell’arresto la tua vita non ti appartiene più; essa diventa proprietà dello Stato, più esattamente è alla mercé degli uomini che servono lo Stato. Da quel momento vieni considerato alla stregua di una macchina guasta da riparare, ma sull’esito delle riparazioni ci sono forti dubbi, vieni numerato e catalogato come un prodotto guasto e rinchiuso in una cella con le sbarre alle finestre e la porta blindata per essere sottoposto a un regime unico e particolare.

Dico unico e particolare perché la durata della “riparazione” viene stabilita ancora prima che la “riparazione” cominci. Ma cosa si può riparare con una pressoché costante permanenza dentro uno stanzino umido e poco aerato, fornito solo dello stretto necessario per mantenerti in vita?

Eh, sì, la vita!

Lo Stato ci tiene alla tua vita, altrimenti come potresti soffrire?

Tenerci lontani dal mondo libero per evitare di continuare a fare male a qualcuno ha in sé una sua logica ed è un fatto dal quale non si può prescindere, ma accanirsi contro gli istinti essenziali e naturali di un reo con delle innaturali privazioni ha in sé qualcosa di virulento, qualche cosa che si scontra con il buon senso di tutti coloro che nutrono ancora fiducia in questa complessa e meravigliosa struttura biologica e chimica che è l’uomo e che, in virtù della sua originaria tendenza, è destinato a un continuo cambiamento e, si spera, miglioramento.

Prima o poi le carceri moriranno. Annientano la dignità. Si dovrebbero abolire, mettere i carcerati su un’isola: isolare ma non umiliare. Mi rendo conto che prima o poi dovrò essere scarcerato anch’io, ma purtroppo per me dalla galera non mi libererò mai. Quando tornerò nella società sarò un marziano. Gli effetti di una prolungata prigionia sono duri da cancellare.

L’insano riflesso della pena ha fortificato la propria nidiata dentro la mia mente. Non appena mi nasce un qualche ragionevole intento che riguarda il mio futuro, il riflesso malefico spunta dal suo giaciglio e innalza fulmineamente un potente steccato che mi impedisce non soltanto di continuare la realizzazione del mio nobile disegno, ma anche l’idea di volerlo coltivare. Temo seriamente di trovarmi di fronte a una grave alterazione delle normali condizioni psicosomatiche di un essere umano.

In fondo vorrei soltanto recuperare, almeno in parte, la mia salute spirituale, o se preferite vorrei raggiungere uno stato di salute, quanto necessita onde poter gustare quel poco della vita che ancora mi rimane.

Non cerco di raggiungere la cosiddetta felicità, a cui aspira ogni ben intenzionato uomo libero mentre girovaga per le vie cittadine alla ricerca della vetrina attrezzata e capace di soddisfare i suoi desideri.

Nella situazione in cui mi trovo, l’unica cosa alla quale aspiro con tutte le mie forze è la quiete, una certa pacatezza dell’animo. Nel mio piccolo, mi sforzo di edificare nella mia mente una specie di zattera, con la quale lasciarmi portare sopra quelle fasce di fibre, avvolte da una guaina, che partono dal centro del mio cervello.

È un viaggio assai rischioso, di cui non si conosce l’esito, ma ha molte probabilità di essere negativo, ovvero di porre fine alla mia esistenza.

Una cosa, però, è certa: alla notizia della mia eventuale dipartita, la mia ex-suocera esclamerebbe: «Finalmente è crepato quel farabutto!!!».

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Questo testo nasce dalla seconda edizione del laboratorio di scrittura e teatro Ma mi che Fondazione Mondadori, Piccolo Teatro e Biblioteche in rete hanno tenuto nel carcere San Vittore di Milano tra il maggio e il luglio 2025.

Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 tutti i giorni dalle 9 alle 24, oppure via WhatsApp dalle 18 alle 21 al 324 0117252.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22. 

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