C’è un museo dei gattini semiclandestino
«Così una mattina di settembre ci siamo trovate ad attraversare un campo, schivando camion carichi di terra che sfrecciavano su un sentiero, per raggiungere l’edificio indicato»

Siamo finite sul sito del “Museo del Gatto” in un giorno qualunque, ma ci è bastato un clic per capire che non ne saremmo più uscite. Il design era essenziale, colorato, modulare, ci riportava con la mente a tutti quei pomeriggi trascorsi a esplorare internet con lo sfrigolio del modem 56k in sottofondo. In homepage ci accoglieva una presentazione precisa e, in un certo senso, rassegnata al proprio destino: «Ormai dagli anni Novanta collezioniamo statuine, francobolli, cartoline e in genere oggetti curiosi che riguardano il mondo felino». Amanti dei gatti e delle storie curiose, siamo state subito catturate: dovevamo visitare questo museo.
Ma come farlo, e dove andare di preciso, era un mistero. Non era indicato un indirizzo fisico. Avrebbe potuto essere ovunque, probabilmente in Italia. Dopo qualche tentativo fallito (la mail indicata sul sito non sembrava attiva) abbiamo rintracciato al telefono la proprietaria, che, fumosa, ci ha spiegato che gli oggetti sono distribuiti tra il suo appartamento e una misteriosa casa di montagna in Piemonte. Una specie di museo diffuso privato, pensiamo.
Potevamo vedere almeno una parte della sua collezione?
Sembrava ci fossero dei margini di trattativa. Dopo aver chiuso la telefonata, ci siamo accorte che la signora non ci aveva ancora detto come si chiamava. La comunicazione fluiva lentamente, come se la signora fosse un gatto che tra una risposta e l’altra deve farsi dei lunghi pisolini. Dopo un paio di mesi abbiamo ottenuto un nome, un indirizzo e un appuntamento. La signora Anna Maria ci aspettava, insieme a suo marito, a un gatto siamese e un cane, menzionati tutti insieme in un messaggio WhatsApp, a formare uno zoo affettivo. Così una mattina di settembre ci siamo trovate ad attraversare un campo, schivando camion carichi di terra che sfrecciavano su un sentiero, per raggiungere l’edificio indicato.
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Per persone che per Museo del Gatto intendono qualcosa di simile al KattenKabinet di Amsterdam, con i suoi tappeti, i camini istoriati e i manufatti antichi, entrare nello spazio di Anna Maria e Antonio è un’esperienza nuova. Soprattutto perché il museo diffuso che immaginavamo non c’è. È una casa. Pochi metri quadrati dove i proprietari vivono così stretti fra gli oggetti a tema felino che quasi non hanno più spazio per la vita quotidiana.
Un guazzabuglio di statuine di ogni materiale: gatti di Lego, accendini, fanzine (di cui una dal titolo Gatti e fumo), faldoni zeppi di francobolli, schede telefoniche e cartoline, indumenti, e un aggeggio di ferro di cui non si conosce la funzione sul quale Anna Maria si interroga da anni. Cose interessanti e cose banali. Esaminare tutte le statuine accumulate nell’enorme credenza in sala avrebbe richiesto giorni, quindi ci siamo limitate a fotografarle senza fare troppe ipotesi, dentro le loro vetrine, per poi guardare le foto con calma a casa. Per trovare le perle che avevamo visto sul sito avremmo dovuto cercare meticolosamente e alcune dovevano essere nella casa in montagna che non avremmo mai visitato: Anna Maria vi accennava con circospezione facendola apparire irraggiungibile, come se fosse la casetta della Baba Jaga e potesse scappare sulle sue zampe di gallina appena ci avesse visto.

(foto Francesca Mastruzzo / Livia Satriano)
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Ci siamo dette bisbigliando che Anna Maria non avrebbe sfigurato nel curioso volume Collezione di collezionisti milanesi, che Elena Pelizzoni pubblicò nel 1969 per mappare i collezionisti di oggetti comuni, non preziosi, ma raccolti con una dedizione quasi ossessiva. Dentro si trovano profili di ogni tipo: chi collezionava cavatappi, chi antichi utensili d’orologeria, chi – come il designer Bruno Munari – raccoglieva richiami per uccellini.
C’è qualcosa di affascinante nel collezionismo, in quella spinta a raccogliere, che è insieme estetica e psicologica. Un desiderio che parla tanto di forma quanto di mancanza. Perché ogni oggetto collezionato è simbolo, riflesso di un mondo interiore. È un amore necessariamente poligamo, fatto di infinite variazioni sullo stesso tema, una spinta infantile al possesso seriale unita al piacere della ricerca seriale, un piacere che sa di non poter essere mai appagato del tutto, e che proprio per questo diventa inesauribile, e rassicurante. Qualcosa di pulsionale, quasi indecifrabile, persino per chi lo vive.
«Scusi, ma perché fa questa collezione?» è la domanda da non fare mai a un collezionista. La risposta, qualunque sia, sarà sempre un po’ al di sotto delle aspettative.
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Da Anna Maria abbiamo saputo che la collezione è partita da quello che è forse l’oggetto più classicamente collezionato: i francobolli. Man mano però si è allargata a tutte le incarnazioni del mondo felino.
Rovistando in casa sua, abbiamo trovato bustine di zucchero, banconote di fantasia, persino una carta d’identità (rilasciata dal Comune di Felinolandia, naturalmente) e una patente felina, trovate promozionali di un negozio milanese per animali, Qua la Zampa.
Certe cose sono spaccati di epoche, come i miniassegni, piccoli assegni circolari che, tra il 1975 e il 1978, sostituirono temporaneamente le monete vere e proprie in Italia. Alla fine del 1975, infatti, in piena crisi economica mondiale e con un’inflazione galoppante in tutta Europa, la Zecca dello Stato faticava a coniare abbastanza monete metalliche. La penuria di spiccioli creò situazioni paradossali, quasi da economia di guerra: nei negozi il resto veniva dato sotto forma di caramelle, cioccolatini, francobolli o gettoni telefonici. Per rimediare, le banche italiane, con il consenso del ministero del Tesoro, iniziarono a emettere miniassegni: piccoli titoli di credito di diversi tagli, da 50 a 350 lire, equivalenti alle monete mancanti, che circolarono come denaro contante. Fra le tante serie figurate, alcune sono diventate veri oggetti da collezione. Una, oggi rarissima, è quella della Cassa Rurale di Caldes, in Trentino, che raffigura dei gatti e che ovviamente Anna Maria possiede.
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Qua e là nella collezione spuntano anche gatti celebri, veri o immaginari: Felix, Garfield, Silvestro, ma anche Larry, il gatto di Downing Street, e Socks, il gatto di Bill Clinton, immortalato su un francobollo della Repubblica Centrafricana, o ancora i tre gatti di Taylor Swift, protagonisti di un libro uscito quest’anno. Scopriamo dell’esistenza di Catmopolitan, parodia degli anni Ottanta di Cosmopolitan, dove i mici ricreano le campagne di bellezza dell’epoca, da Clinique a L’Oréal. Negli anni Novanta, invece, qualcuno in Spagna inventò Cham-Cat, un’elegante bottiglia da brindisi felino, confezionata come champagne ma in realtà con croccantini al pollo. In anticamera, una disordinata pila di libri contiene una serie di gialli Mondadori degli anni Settanta con titoli come Il gatto che leggeva alla rovescia, Il gatto che vedeva rosso, Il gatto che mangiava i mobili, tutti di Lilian Jackson Braun (1913-2011), autrice della longeva serie The Cat Who… (“Il gatto che”, appunto).

(foto Museo del Gatto)

(foto Francesca Mastruzzo / Livia Satriano)
A vegliare sulla collezione c’è Eliot («come Eliot Thomas Stearns, lo scrittore»), uno dei gatti più amati, ancora presente nel ricordo dei suoi proprietari e nel ritratto a olio che lo raffigura. Dall’altro lato della stanza, Chérie, la prima gatta di Anna Maria e suo marito, fa da contraltare: la sua sagoma vive in uno specchietto a forma di gatto, con il nome inciso sopra. La collezione di Anna Maria è anche, a guardarla bene, un piccolo museo della memoria analogica: un archivio di cose amate o semplicemente necessarie che, come scriveva Borges nella sua poesia dedicata a Las cosas, «dureranno più in là del nostro oblio». I telefoni a filo, le schede telefoniche e gli altri oggetti che un tempo parevano eterni ma non lo sono più non testimoniano solo la storia dei gatti, ma anche quella delle tecnologie dismesse, delle abitudini cambiate, di un mondo analogico vissuto che non tornerà più. È la storia di prima che arrivassero le foto dei gattini su internet.
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Ma anche allora, nel mondo analogico, c’era una costante: la capacità dei gatti di vendere. E così gli oggetti della collezione non solo raccontano decenni di rappresentazione felina, ma ci trascinano nell’universo dei consumi e della pubblicità, cioè del capitalismo nell’ultimo secolo e passa. Con le loro doti persuasive e quell’immagine di sprezzatura e seduzione che li accompagna da sempre, i gatti pare riescano a rendere irresistibile qualsiasi prodotto.
La loro carriera pubblicitaria nasce tra Otto e Novecento, insieme all’esplosione della produzione industriale e della pubblicità moderna. Impossibile non pensare al celebre manifesto di Théophile Steinlen per il cabaret parigino Le Chat Noir, che da decenni infesta calamite, tote bag e tazze da souvenir, contendendosi lo scettro con il Moulin Rouge di Toulouse-Lautrec. O alle misteriose Black Cat Cigarettes inglesi che, nei primi decenni del Novecento, proprio come in un noir d’altri tempi, promettevano nuvole di fumo eleganti e maliziose. In Italia, intanto, la Filatura di Tollegno lanciava la sua Lana Gatto che, già nei primissimi anni del secolo, sfoggiava il bel muso di un gattone bianco come testimonial.
Insomma, già allora i gatti sembravano fatti apposta per vendere tutto: biscotti, sigarette, insegne di sale da ballo o trattorie, sempre con quell’aria di chi ti osserva sornione dall’alto in basso.
Un altro mistero riguarda le ragioni per cui chi ama i gatti sente il bisogno di circondarsi di loro simulacri, anche quando un gatto ce l’ha già, in carne e ossa. E perché per i cani non avviene lo stesso? Forse perché, a differenza dei cani, che passeggiano per strada, fanno amicizia e si sono evoluti per ricambiare lo sguardo degli animali umani, possedere davvero un gatto è impossibile e l’unica cosa che possiamo fare per avvicinarci al suo mistero è creare o comprare oggetti che lo rappresentano, e portarlo a spasso sotto forma di stampa su una maglietta (e così segnalare agli altri la nostra passione), o cercare di catturarne l’espressione spesso indecifrabile in un disegno o in una statuetta. I video e i meme con i gatti non sono forse il modo per far uscire dalla dimensione domestica questi animali così nascosti e condividerli con un pubblico che non ne ha mai abbastanza?
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Alla fine della nostra visita abbiamo chiesto ad Antonio, che fino a quel momento aveva coccolato il siamese e accennato appena al suo contributo al sito anacronistico, se possedeva cravatte a tema gatto. Ci ha risposto di no, salvo poi tirarne fuori sei. Ce le ha mostrate tenendole appese al braccio perché le sedie erano già occupate da altri indumenti con immagini feline e il tavolo era ingombro di scatole di latta che traboccavano di accendini con i gatti (gattini, per lo più, praticamente l’esatto contrario delle truculente immagini antifumo presenti sui pacchetti di sigarette).
Qual era il suo rapporto con la collezione?, gli abbiamo chiesto.
Li amava davvero i gatti?
«Sì», ci ha risposto, «ma non li voglio avere intorno».
E abbiamo pensato che forse era come la faccenda delle cravatte, che alla fine c’erano. Che come lui anche tutti noi, con le foto dei gattini su internet e tutte le cianfrusaglie feline di cui abbiamo parlato, di gatti intorno ne abbiamo sempre migliaia.
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