L’uomo che per decenni illuminò Venezia
Dal Dopoguerra agli anni Novanta Andrea Comoretto ebbe l'arduo compito di gestire la rete elettrica di una città costruita sull'acqua
di Ivan Carozzi

Il 6 ottobre scorso il quotidiano Il Gazzettino ha dato la notizia della morte di Andrea Comoretto, un signore di 94 anni, identificato fin dal titolo come “l’uomo della luce”. Nonostante il soprannome, non era un profeta e neppure un mistico. Quando iniziarono a chiamarlo così Comoretto non aveva ancora compiuto trent’anni, e si trovava per lavoro dalle parti di Lio Piccolo, una minuscola località nella parte settentrionale della laguna veneziana, circondata da un frastagliato insieme di isolette filiformi, paludi, valli da pesca (aree dedicate all’itticoltura e delimitate da argini e recinzioni) e barene (terreni piatti periodicamente sommersi dalle maree). A seguito di un graduale spopolamento, la popolazione attuale si è ridotta a una ventina di abitanti.
Alla fine degli anni Cinquanta, mentre l’Italia entrava in un eccezionale ciclo di espansione economica, Lio Piccolo non era ancora stato raggiunto dalla rete elettrica. Come una specie di essere mitico, Comoretto ci arrivò in motocicletta, investito del compito di dirigere i primi lavori di elettrificazione e portare per la prima volta la luce nelle case. Fu così che i bambini del posto, vedendolo sopraggiungere giorno dopo giorno, lo ribattezzarono “l’uomo della luce”.
Fino all’avvento dell’elettricità, la vita quotidiana delle persone era stata scandita per secoli dalle albe e dai tramonti. La sera del 10 marzo 1957 le due frazioni di Lio Piccolo e del vicino Le Mesole si illuminarono per la prima volta, modificando per sempre le abitudini degli abitanti, a partire dall’orario dei pasti. Non fu semplice convincere i proprietari a vendere i minuscoli appezzamenti di terra necessari alla palificazione e al montaggio delle cabine. Fra di loro c’era chi temeva che l’arrivo della corrente avrebbe portato la televisione e che con la televisione, quindi con programmi come Carosello e Il Musichiere, le persone avrebbero smesso di lavorare la terra e di pescare nelle valli. Così racconterà Comoretto, molti anni dopo.
Nato nel 1931 ad Artegna, paesino di origini longobarde alle pendici delle Alpi Giulie, nella provincia di Udine, Comoretto da ragazzo aveva studiato come perito elettrotecnico. Nel 1952, dopo un corso di perfezionamento svolto all’interno di alcune centrali idroelettriche e termoelettriche, aveva trovato il suo primo posto di lavoro a Venezia, presso l’Azienda Cellina, che gli garantiva una paga mensile di 14.500 lire e una camera con uso di cucina nel sestiere Cannaregio.
Per Comoretto fu l’inizio di un’esperienza umana e professionale che si svolgerà interamente tra campi e calli, tra fondachi, canali, fondamenta e sottoporteghi, i caratteristici toponimi usati a Venezia. Fu una carriera cominciata negli anni Cinquanta, quando Venezia era molto povera e le conseguenze della guerra evidenti, e conclusa con il pensionamento nel 1991.
La sua storia Comoretto la raccontò qualche anno fa in Una vita di lavoro per Venezia, un volumetto di 135 pagine pubblicato dall’editore veneziano el squero (squero in dialetto è sia il cantiere che la rimessa delle barche). Se intorno alla storia di Venezia e al suo patrimonio artistico ci sono migliaia di pubblicazioni, la testimonianza di Comoretto è invece qualcosa di diverso. È un documento insolito su un argomento meno noto e frequentato: l’infrastruttura elettrica veneziana, con le sue tante fragilità dovute alla convivenza con l’acqua di mare.
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Al suo arrivo nel 1952, il ventunenne perito industriale si divideva tra la sede operativa di Palazzo Scalfurotto (o Scalfarotto) e la sede commerciale di Palazzo San Luca, dove gli uffici dell’azienda erano dislocati in spazi ristretti, promiscui e spesso rumorosi. «Si sentivano le conversazioni a voce altissima dei Direttori con i colleghi delle centrali», racconta Comoretto. Negli uffici il neoassunto trovò un contesto ancora segnato dall’esperienza della guerra. I vinti se ne stavano in disparte, i vincitori prendevano volentieri parola. Tra chi aveva fatto la Resistenza, scrive, era vivissimo il ricordo della “Beffa del teatro Goldoni”. Il 12 marzo 1945 un gruppo di partigiani, durante la recita di una commedia di Pirandello, aveva fatto irruzione sul palcoscenico. Dopo la lettura di un proclama, il capotecnico dell’Azienda Cellina, nascosto all’interno di una cabina elettrica, aveva staccato la corrente a tutto il teatro, lasciando al buio la platea gremita di gerarchi e ufficiali nazisti.
I problemi da risolvere erano tanti e soprattutto erano quelli di una città fondata sul mare e circondata dal mare. Pali, cavi e cabine venivano giorno dopo giorno spruzzati dall’acqua marina, frizionati dal moto perpetuo delle maree e corrosi dall’azione costante della salsedine. La progettazione della rete elettrica risaliva alla fine dell’Ottocento. Dai pali in legno si passò nel corso del tempo ai più solidi pali in cemento armato, salvo scoprire che la penetrazione della salsedine arrivava a squarciare e fessurare il cemento fino a raggiungere l’anima in ferro. Comoretto si scontrò continuamente con gli ostacoli creati dalla burocrazia. La selezione dei materiali, infatti, avveniva secondo i rigidi criteri fissati dalla cosiddetta “unificazione” aziendale, che stabiliva quali tipi di cavi utilizzare, le sezioni dei conduttori, il genere di materiali isolanti, i ricambi e le minuterie, senza prendere in considerazione le specificità dell’ambiente lagunare.

Andrea Comoretto, al centro, al lavoro (per gentile concessione della Casa Editrice el squero)
In quegli anni l’azienda disponeva di appena tre motoscafi e un mototopo (un’imbarcazione tipica veneziana usata per il trasporto delle merci). Niente autogrù, niente autoscale, niente escavatori o elicotteri. Per quanto riguarda l’area del Lido, si poteva contare solamente su una Vespa e un carro da lavoro a tre ruote. Le cabine elettriche spesso erano collocate all’interno di palazzi monumentali, mentre le linee erano tutte aeree, fissate alle pareti degli edifici ad altezza variabile. A volte arrivavano fin sotto i cornicioni. In caso di guasti bisognava arrampicarsi con la scala all’italiana – la scala innestabile usata dai vigili del fuoco, costituita da più tronchi di salita – che a causa delle ridotte dimensioni delle calli veniva appoggiata alle facciate dei palazzi in posizione quasi verticale.
Il vestiario era razionato, mentre i contatori elettrici avevano le provenienze più disparate. Per scongiurare le frodi, scrive Comoretto, venivano coperti da una custodia metallica nera con un vetrino in corrispondenza dei dati per la lettura. Ma soprattutto venivano sistemati nei luoghi più impensabili. Nelle soffitte, nelle camere da letto e perfino dentro i servizi igienici. Alcuni di questi contatori, ricorda Comoretto, per quanto obsoleti erano piccoli prodigi di elettrotecnica.
A rendere ancora più complicata la situazione contribuiva la carente formazione del personale in azienda. La generazione di tanti professionisti nati tra gli anni Venti e Trenta scontava infatti i traumi e gli sconvolgimenti provocati dal periodo bellico. I tecnici e gli ingegneri non avevano avuto il tempo e la possibilità di maturare una specifica preparazione nel ramo elettrotecnico e a volte, racconta Comoretto, non erano neppure in grado di distinguere tra kilowatt e kilowattora, unità di misura che indicano rispettivamente la potenza e l’energia.
Il problema dell’inquinamento salino negli impianti si faceva ancora più acuto nel caso delle tante isole e isolotti che compongono la laguna. A cinquant’anni di distanza, si legge in Una vita di lavoro per Venezia, la memoria corporea di Comoretto non aveva dimenticato il passaggio di corrente percepito all’altezza del tendine di Achille, quando gli capitava di entrare all’interno delle cabine elettriche disperse negli anfratti più umidi del bacino lagunare e perciò particolarmente infiltrate dalla salsedine. Inoltre in diverse località della laguna, come le già citate Lio Piccolo e Le Mesole, la luce elettrica non era proprio mai arrivata.
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Nel 1962, con la nazionalizzazione dell’energia, nacque ENEL. Nel 1964 Comoretto venne promosso capotecnico principale, mansione che conservò fino al pensionamento nel 1991. Due anni più tardi, nei giorni del 4, 5 e 6 novembre del 1966, gestì la crisi più drammatica di tutta la sua vita professionale. Un’ondata straordinaria di maltempo investì l’Italia. A Firenze il fiume Arno tracimò dagli argini e un torrente di fango giallognolo circondò il Duomo, il battistero e il campanile di Giotto, sommergendo il centro storico e provocando devastazioni e ingenti danni al patrimonio artistico.
Nelle stesse ore in tutta la laguna e a Venezia il mare si gonfiò a dismisura, ingrossato dalle piene dei fiumi Adige, Piave e Tagliamento e dalle folate di vento di scirocco che da sud soffiava in direzione nord ovest. L’acqua alta raggiunse un livello impressionante, mai registrato: 1 metro e 94 centimetri. I trasformatori finirono fuori uso. La città e le isole, ospedali compresi, restarono al buio per giorni. A Venezia abitavano nel 1964 circa 150.000 persone, tre volte i residenti di oggi. Comoretto descrive prima il caos negli uffici tempestati di telefonate e richieste di pronto intervento – soprattutto da parte dei commercianti, che vedevano i locali a piano terra progressivamente invasi dall’acqua – e infine il blackout della rete telefonica e l’improvviso silenzio. Nelle case si accesero le candele.
Nella sede dell’ENEL, Comoretto e gli altri si muovevano muniti di torce a batteria, ingegnandosi per trovare soluzioni di fronte a un’emergenza mai vista e cercando di dare risposta allo sgomento dei veneziani, infreddoliti e al buio. Il 95% della rete era fuori uso. La situazione cominciò a sbloccarsi molte ore dopo, quando un tecnico dell’ENEL entrò all’Ospedale civile, s’introdusse nella cabina, ripulì gli impianti e provvedette pazientemente ad asciugarli, fino al sospirato e parziale ripristino della corrente.
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Il Gazzettino di domenica 6 novembre titolava “Un tragico bilancio”. Quando la marea si ritirò, Venezia riapparve ricoperta di melma e detriti, resti di fasciame, pezzi di gondola, parti di mobilio e oggetti di varia natura fuoriusciti dalle case e lordi di fango. Per due settimane Comoretto e i colleghi dormirono su materassini da campeggio e lavorarono senza orario alla sostituzione delle centinaia di trasformatori danneggiati (macchinari di un peso tra i 12 e i 15 quintali) e alla ripulitura delle cabine, spesso nascoste nei meandri dei palazzi monumentali.
Davide Livieri è il fondatore della Casa Editrice el squero. Per Andrea Comoretto, vecchio amico dei genitori, nutre un affetto speciale. Comoretto gli fece perfino da testimone di nozze. «Di Andrea mi ha colpito fino all’ultimo la lucidità. Fino a novant’anni, durante le presentazioni del libro o in occasione di un incontro che ci fu in consiglio comunale a Venezia, è stato capace di parlare con passione, precisione e a braccio, di divagare, di aggiungere sempre nuovi dettagli ai suoi racconti, elencando fatti, nomi e circostanze, anche quando risalivano a epoche molto lontane».
Livieri è cresciuto insieme ai quattro figli di Comoretto, uno dei quali è diventato maestro, un altro prete, mentre gli altri due lavorano nel settore bancario. Comoretto è stato insignito del titolo onorifico di Maestro del Lavoro. Dopo la pensione ha continuato a seguire i problemi concreti della città. Scriveva spesso al Gazzettino per segnalare questo o quel problema, questo o quel disservizio e per suggerire una soluzione. Abitava nei pressi della chiesa di San Giobbe, dove in ottobre si sono celebrati i funerali, davanti a una folla di qualche centinaio di persone, tra cui moltissimi ex colleghi. Il libro Una vita di lavoro per Venezia, a cui Comoretto teneva molto, è dedicato alla moglie: «A mia moglie, che ha vissuto in silenzio tutti i disagi, diurni e notturni, dell’impianto elettrico di Venezia».



