Piacere e disagio di una casalinga femminista

«Mentre scaldo il biberon, parte di me scalpita per tornare nel flusso della città, un’altra sussurra di restare, di licenziarmi, di lasciarmi cullare dal calore della vita domestica»

Casalinga americana con pistola. Dearborn, Michigan, 1967. (Express Newspapers/Getty Images)
Casalinga americana con pistola. Dearborn, Michigan, 1967. (Express Newspapers/Getty Images)
Marta Balzi
Marta Balzi

Dottoressa di ricerca alla University of Bristol, ha curato per Medium Aevum una raccolta sulle traduzioni medievali e rinascimentali delle Metamorfosi di Ovidio. Scrive di maternità e femminismo su diverse testate e cura il blog personale Madri, mostri e miti.

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C’è un angolo di casa mia dove le vetrate offrono una comoda prospettiva sulla strada. Da quando sono in maternità, passo lì buona parte del tempo: allatto, cammino avanti e indietro per far addormentare il bambino, osservo. Mi lascio intrattenere dal mondo fuori, adagiata in una posa che mi fa sentire sorprendentemente vicina alle mie antenate. Entrambe le mie nonne tenevano una sedia davanti alla finestra che dava sulla strada. Nel loro universo domestico, quella era la porta sul mondo. Ora che sono a casa con un neonato, è diventata anche la mia.

Mi sono bastate poche settimane per registrare i movimenti dei vicini: so a che ora escono, quante volte fanno passeggiare il cane, che macchina guidano. Parte di me scalpita per tornare nel flusso della città, un’altra sussurra di restare, di licenziarmi, di lasciarmi cullare dal calore della vita domestica.

Questo desiderio improvviso mi spaventa. A dargli forma è la mia vicina, l’apparizione quotidiana più attesa: la vedo passare con un bambino nel passeggino e una bambina nel marsupio. Così composta, mi pare una chimera: due gambe, quattro ruote, tre volti. Nei suoi gesti riconosco la monotonia di giornate sempre uguali. Faceva la traduttrice, ma ora è rimasta a casa dal lavoro. Non so se per scelta o per necessità.

Finestra sulla strada con sbarre (foto Marta Balzi)

Mentre attendo che finisca la lavatrice, cerco risposte nei libri, l’altra finestra sul mondo. Mi imbatto in un passaggio che mi colpisce: «Una delle caratteristiche delle storie lavorative femminili in Italia è la propensione all’abbandono del lavoro alla nascita dei figli», scrive la demografa Alessandra Minello dell’Università di Padova in Non è un paese per madri.

Finisco di stendere i panni e scorro le note: nel 2019, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha registrato 42mila dimissioni di genitori con figli sotto i tre anni. Il 77% sono donne. Chiudo il libro. I numeri mi preoccupano, ma non quanto la vicina. Osservandola, mi pare di contemplare una possibile versione di me stessa: una donna in cui la traduzione con il mondo esterno si è inceppata. Di scatto mi allontano dalla finestra, come se incrociare il suo sguardo potesse contagiarmi, risucchiarmi nel ruolo che è stato di mia madre, e di sua madre prima di lei.

In questi mesi la mia identità di donna femminista vacilla. È come se, diventando madre, avessi completato un compito, smorzato ogni spinta rivoluzionaria. E il desiderio di domesticità che mi invade mi allontana ancora di più dall’immagine di me stessa come donna libera e indipendente. A peggiorare le cose ci sono gli sguardi compiaciuti dei boomer – i vicini anziani, le amiche di mia madre – nostalgici dei tempi in cui le donne stavano a casa “senza polemica”. Mi guardano come se avessi finalmente trovato il mio posto naturale. E io piombo in un disagio senza pari, come se fossi finita nel campo di gioco sbagliato, in squadra con le casalinghe di provincia da cui provengo, schiacciata nella più assoluta irrilevanza.

L’algoritmo, intanto, amplifica i miei timori. Il mio feed è popolato da casalinghe intrappolate in una narrazione solo al femminile: l’ex attrice che insegna a portare i bambini in fascia, l’ex architetta che fa collane del parto, l’ex impiegata che organizza passeggiate con i passeggini, l’ex antropologa che scrive di gravidanza.

Su Instagram ho trovato anche Neha Ruch, americana, teorica di questo movimento di “casalinghe moderne”. Ha pubblicato un libro per ridare dignità alla vita domestica.  Secondo lei, una madre dovrebbe potersi dedicare senza colpa alla casa: l’importante è spartire equamente il salario del marito, mantenere tempo per sé e per i propri interessi, riconoscere il valore del proprio contributo. Le casalinghe, sostiene, hanno diritto di sedersi al tavolo delle femministe: il femminismo deve assicurarsi che le donne ottengano ciò che desiderano – anche una vita domestica.

Leggendola mi sento momentaneamente sollevata, riconciliata con la mia vicina e con me stessa. In fondo, Ruch non parla di resa, ma di rinnovamento: restituire autorevolezza alla figura della casalinga, indipendenza, ambizione. Penso alle donne della mia infanzia – le casalinghe di provincia che preparavano tortellini per beneficenza o pulivano l’oratorio – e mi scopro a chiedermi se non sia stata troppo severa con loro.

Ma la pace dura poco. Mentre cucino, finisco spesso su Instagram a guardare l’account Ballerina Farm, dell’influencer Hannah Neeleman, che vive in una fattoria da fiaba nello Utah. I suoi otto figli, il grembiule di lino, i pani fatti in casa: tutto emana una serenità ipnotica. Più mi seduce quell’estetica, più rovinosa è la caduta quando devo constatare che all’immagine rétro corrisponde un’ideologia conservatrice.

Le tradwives, le mogli tradizionali dei social, esistono sul web solo grazie a quell’immagine costruita. Prima ancora che casalinghe, sono imprenditrici: guadagnano vendendo un’estetica accattivante e un pensiero deliberatamente provocatorio. Sono un generatore automatico di click, e io sono la loro preda.

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Stiro le camicie e mi chiedo se la “casalinga femminista” di Ruch non sia una versione mascherata della stessa ideologia. Una donna che ha lasciato il lavoro, che non ha più accesso diretto a uno stipendio, mentre il compagno continua a lavorare. Dov’è l’emancipazione?

Appoggio il ferro. Mi trovo in un gioco di specchi: e se il modello di moderna massaia femminista fosse in realtà l’archetipo originale della moglie tradizionale, mentre le influencer tradwives, con i loro milioni di follower e marchi biologici, fossero le vere emancipate?

Forse, penso, l’inganno in cui le tradwives non cadono è quello di pensarsi libere in una società in cui la cura domestica è decentrata, fuori da ciò che conta. Loro sanno che il loro posto è ai margini, tanto della casa, quanto della vita politica.

Mentre pulisco i vetri, mi viene in mente Trick Mirror di Jia Tolentino:

«When you are a woman, the things you like get used against you. Or alternatively, the things that get used against you have all been prefigured as things you should like».

«Quando sei una donna, le cose che ti piacciono vengono usate contro di te. O in alternativa, le cose che vengono usate contro di te sono state prefigurate come cose che dovrebbero piacerti».

Tolentino ci ricorda che il desiderio è preconfezionato. Ciò che ci piace non è naturale, ma politico. La società ha bisogno del mio lavoro di cura gratuito e me lo restituisce come desiderio, come piacere, spesso sotto sembianze tanto innocenti quanto quelle di una bambola scartata a Natale. Il piacere diventa la mia prigione, la gabbia che continuo a desiderare. E forse il mio disagio nasce proprio da qui: dal volerla ancora, quella gabbia. Sexy, come le influencer casalinghe del mio feed.

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Mentre sterilizzo i biberon, mi chiedo cosa sceglierebbero le donne, se fossero davvero libere. Cosa sceglierei io?

Negli ultimi giorni ho smesso di nascondermi dalla mia vicina. Lascio che la sua apparizione mi terrorizzi: la sua natura chimerica è lo specchio dell’artificialità dei miei desideri. Osservandola, contemplo la possibilità di smarginarmi, di ripercorrere la mia linea matrilineare fino a Penelope, che sulla spiaggia guarda un mare che non può navigare. Le chiamo tutte, le mie antenate, e chiedo consiglio: tornare al lavoro o restare? Fare un altro figlio? Che chimera sarebbe, una casalinga femminista?

Ora mio figlio dorme. Sono seduta al mio solito posto, accanto alla vetrata. Le mie nonne, accanto alla finestra, tenevano il cesto del rammendo. Io, nello stesso punto, ho messo una scrivania. Faccio come consiglia Elena Ferrante: scendo nella caverna delle mie antenate, ma mi tengo aggrappata alla tastiera del computer. Le ascolto, cerco di non perdere il filo della traduzione, e scrivo.

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