Il nuovo “registro degli influencer” sta generando molta confusione tra i content creator
Dovrebbe regolamentare le attività dei più "rilevanti", ma le soglie stabilite includono anche quelli che non lo sono poi così tanto

Da qualche giorno sul sito dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) è stato pubblicato il modulo per iscriversi all’“Elenco degli influencer rilevanti”, che molti stanno informalmente chiamando “registro degli influencer”. Sostanzialmente, l’Agcom chiede a tutti i content creator di una certa rilevanza, e che guadagnano dalla propria attività, di fornire le proprie informazioni anagrafiche – nome, cognome, nickname con cui sono conosciuti online, numero di follower e di visualizzazioni mensili sulle varie piattaforme – in modo da essere inclusi in un apposito albo pubblico ufficiale.
Le persone iscritte a questo albo dovranno attenersi a un codice di condotta che li equipara, almeno parzialmente, ai fornitori di servizi di media audiovisivi tradizionali. Tra gli obblighi inclusi in questo regolamento c’è quello di usare hashtag come #adv, #pubblicità o #sponsorizzato sotto ogni contenuto a pagamento svolto in collaborazione con un brand, quello di segnalare ogni volta che si realizza un contenuto con l’intelligenza artificiale generativa e quello di prevenire la diffusione di notizie false. Inoltre, gli influencer dovranno evitare di diffondere contenuti “non adatti ai minori”, discriminatori o lesivi della dignità umana.
Gli influencer presenti nell’albo che violino queste disposizioni possono essere multati con sanzioni che vanno dai 250mila euro per la pubblicità occulta non dichiarata ai 600mila euro per le infrazioni legate alla tutela dei minori. Anche gli influencer che pur avendo i requisiti non si iscriveranno al registro potranno essere multati.
La notizia ha suscitato reazioni allarmate tra molti content creator di piccola e media notorietà, che temono di essere equiparati a quelli con pubblici enormi come Chiara Ferragni o Khaby Lame anche se guadagnano molto poco dalle loro attività online, e non hanno la disponibilità economica per pagare multe di quel tipo. La delibera dell’Agcom, infatti, dice che va considerato “influencer rilevante” chiunque abbia più di 500mila follower su una delle principali piattaforme di social network, da Instagram a YouTube, che è una soglia molto alta. Ma anche chiunque abbia ottenuto negli ultimi sei mesi una media di più di un milione di visualizzazioni mensili totali: una soglia invece molto più bassa, oltrepassata facilmente anche da creator con qualche decina di migliaia di follower.
Il discrimine per iscriversi o no, ha chiarito l’Agcom, è se il creator guadagna o meno dalla sua attività. Un portavoce dell’Autorità ha confermato al Post che deve farlo solo «chi ha un ritorno economico» dalle proprie attività, e in particolare chi svolge attività di influencer marketing, e quindi viene pagato dai brand per promuovere specifici prodotti. Ci sono però ancora delle cose poco chiare: se debba iscriversi anche chi, ad esempio, non fa l’influencer ma saltuariamente ha delle entrate legate ai contenuti sui social; e chi fa tutt’altra professione, per esempio lo sportivo o la conduttrice televisiva, ma guadagna anche dalle sponsorizzazioni sui social.
– Leggi anche: I teatri sono pieni di content creator
«Io ne ho parlato con quasi ogni content creator che conosco e posso dirti che c’è stato il panico, perché la norma è veramente poco comprensibile», dice Domenico Emanuele Spagnuolo, che gestisce la pagina di meme Cyaomamma, che su Instagram ha poco più di 41mila follower. Spagnuolo crea ogni mese decine di post che raggiungono regolarmente decine se non centinaia di migliaia di utenti, e quindi raggiunge agevolmente il milione di visualizzazioni ogni mese. Hanno espresso preoccupazioni simili altre pagine di meme di discreta grandezza, come Monica Magnani, autrice della pagina di meme @vaberagaa, seguita su Instagram da poco meno di 140mila persone, e Giulio Armeni, che sulla pagina di vignette satiriche @filosofia_coatta è seguito da quasi 200mila persone.
Spagnuolo, che ha deciso da tempo di usare Cyaomamma come piattaforma creativa e non collabora con alcun brand da anni, non avrebbe l’obbligo di iscriversi. Non è chiaro se ce lo avrebbero, invece, persone come Armeni, il cui lavoro non ruota attorno all’influencer marketing, ma che di tanto in tanto pubblicano post in collaborazione con brand per promuovere, per esempio, film o serie tv in uscita su piattaforme di streaming.
Al momento la delibera dell’Agcom non include un limite minimo di soldi che un content creator deve aver guadagnato dalle collaborazioni con i brand prima di essere considerato un influencer. Nel testo, però, si legge che l’Autorità si riserva di rivedere i criteri in base a cui definisce un “influencer rilevante” dopo aver osservato come va la prima fase di implementazione del registro degli influencer, «al fine di attuare i correttivi che possano eventualmente rivelarsi necessari». In particolare, ha detto che considererà la possibilità di introdurre «un criterio in termini di ricavi, anche in considerazione della recente introduzione di un codice ATECO ad hoc per la categoria degli influencer e dei content creator».
C’è poi un dibattito sulla soglia di ingresso fissata. «Se un influencer con 500mila follower può plausibilmente essere considerato “rilevante”, la soglia del milione di visualizzazioni mensili non tiene per nulla conto di come funzionino oggi gli algoritmi», spiega Auroro Borealo, content creator e fondatore dell’agenzia di talent managing Talento. Lui stesso, dice, potrebbe rientrare nella categoria di “influencer rilevanti” nonostante abbia meno di 70mila follower. «Per come funziona l’algoritmo, soprattutto su TikTok, può essere che anche un utente che ha meno di mille follower si trovi ad avere video che superano il milione di visualizzazioni. E quindi, se tu hai un singolo video virale al mese, pure se sei un perfetto sconosciuto, dovresti essere considerato un influencer rilevante?».
A questo si aggiunge anche il fatto che, negli ultimi dieci anni, il modo in cui le piattaforme calcolano la metrica delle visualizzazioni è stata distorta al punto che è davvero complesso determinare se un contenuto con milioni di visualizzazioni abbia un effettivo impatto culturale. Su TikTok, per esempio, ogni volta che un video viene guardato, anche soltanto per una frazione di secondo, raccoglie una visualizzazione. Se una persona guarda lo stesso video più volte di seguito, ogni singola riproduzione viene calcolata come una visualizzazione extra.
– Leggi anche: “Virale” vuol dire ancora qualcosa?



