Il Veneto, prima di “Le città di pianura”

«È da quando ho visto il film che, da veneta, rifletto su come la trasformazione del paesaggio sia stata raccontata nell’immaginario letterario e (più raramente) cinematografico»

La Statua della Libertà in provincia di Treviso (foto Camilla Burelli)
La Statua della Libertà in provincia di Treviso (foto Camilla Burelli)
Camilla Burelli
Camilla Burelli

Nata in Veneto, vive a Milano dal 2011. È ricercatrice di Diritto dell'Unione europea presso l'Università degli Studi di Milano.

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Percorrendo la Strada Provinciale 667 in provincia di Treviso, non lontano da Bella Venezia – che, a dispetto di quanto potrebbe suggerire il nome, non è una pizzeria, ma una frazione di Castelfranco Veneto – anche il più distratto tra gli automobilisti noterà una minuta e tuttavia appariscente Statua della Libertà, eretta per accogliere con aria quasi rassegnata gli avventori di un ristorante con porticato vista cemento.

Quella Statua della Libertà in scala ridotta, che sorprendentemente non compare nell’ormai classico Padania Classics, fa una fugace apparizione in una scena di Le città di pianura. L’acclamato film di Francesco Sossai, che è certo un encomio all’amicizia e un desolato racconto dell’alcolismo, è innegabilmente anche un film sulla terra veneta.

Nella poesia Progetto rotonde (I fiaschi), lo scrittore e poeta trevigiano Francesco Targhetta scrive:

«Se poi penso a che cosa c’era prima
tra quella sfilza di villette a schiera,
i capannoni, le viti e i cartelli,
non mi viene proprio in mente.

Magari non c’era niente».

E il film di Sossai, che descrive la provincia di Belluno e il complesso triangolo Venezia-Padova-Treviso, parla in effetti (anche) di questo: delle rotonde, delle villette a schiera, dei capannoni, delle viti e dei cartelli (pure quello «Provincia di Treviso – Se la vedi… ti innamori!», che immancabilmente compare).

È da quando ho visto il film che, da veneta, rifletto su cosa c’è e su cosa ci sia stato in Veneto e come quest’ultimo, da un lato, sia eventualmente presente nello spirito dei veneti e, dall’altro lato, su come la trasformazione della regione nel corso degli ultimi decenni sia stata raccontata nell’immaginario letterario e (più raramente) cinematografico.

È un’operazione strana, come se la mia appartenenza a quel territorio – geografico, urbano, umano – renda troppo sincero parlarne e troppo complesso, troppo ambiguo rivendicare quella stessa appartenenza.

Di contro, non ho potuto non notare una certa banalizzazione del territorio da parte di persone ad esso estranee, come se avessero sentito l’urgenza di testimoniare il proprio passaggio-trofeo in Veneto, avendo forse vissuto la visione del film come una sorta di safari culturale.

In fondo, nel momento stesso in cui un’opera o un luogo assurgono allo status di “successo”, l’insorgere dell’effetto-cartolina è forse inevitabile.

E il film, da questo punto di vista, gioca bene sia con il particolare sia con l’universale, toccando certamente alcune corde della sensibilità foresta, ma riuscendo al contempo a far risuonare potentissimi nei veneti alcuni dettagli probabilmente impercettibili ai più. La singola, effimera menzione di Jesolo, che per la generalità degli spettatori è, per l’appunto, un mero accenno a una brutta località di mare, per me, per noi, è una vita intera.

Dopotutto, non è vero che ogni città di provincia è intercambiabile, che ogni pianura è identica all’altra e credo che questo sia alla base del diverso sentire e percepire dello spettatore del Nordest.

Chi è nato e cresciuto in provincia sa che tutto può cambiare nel giro di pochi chilometri: il dialetto che si parla a Conegliano non è lo stesso che si parla a Casier; lo spiedo si mangia a Vittorio Veneto e a Mirano manco sanno cosa sia; il Piave è uno stato dell’anima che si insinua negli abitati di Spresiano e non riguarda chi vive a Portogruaro. Un errore comune, quando si tenta di descrivere la provincia, è trattarla come un blocco unico, come se la provincia fosse nebbia. E invece la nebbia si alza e ciò che trovi non è già un paese, una città sola, ma un caleidoscopio di esistenze eterogenee. Luigi Meneghello, in quel capolavoro di rigore e umorismo che è Libera nos a malo, descrive questa circostanza quando rileva gli a volte diversissimi modi di parlare tra paesi confinanti: «uno dalla Val di Là parla già diverso da noi».

E anche la pianura non è mai uguale a sé stessa: quella vicino a casa mia, a Silea, è dolce, opaca; quella verso il mare più rustica e allegra; quella verso le colline ruvida e vivida.

Campi e capannoni tra Vicenza e Padova, dal treno Milano-Venezia. (foto Camilla Burelli)   

Nicolò Porcelluzzi, in un articolo intitolato Fare letteratura nel Nordest, rievocando una poesia di Igor De Marchi, «poet[a] dell’A27», scrive in effetti che Vittorio Veneto, trovandosi a poco più di mezz’ora d’auto dalla campagna sotto Mestre, è già esotica. È semplicemente diversa.

E tuttavia, soprattutto negli ultimi venti trent’anni, non mi pare ci sia stato spazio per un (racconto del) Veneto che non fosse ridotto a un uniforme «paesaggio fantomatico, fossile di società ormai trascorse» (Vitaliano Trevisan in Tristissimi giardini citando Paul Virilio). Come se non fosse concesso evadere da una visione statica della regione come industriale, periferica, cementificata e bècera (al pari dei personaggi del film, eternamente in movimento, ma perennemente perseguitati dallo stesso, apparentemente identico scenario).

Allargando lo sguardo anche al Novecento, mi sembra che, con una coazione a ripetere forse unica nel panorama delle regioni italiane, la narrazione del Veneto sia stata sistematicamente veicolata attraverso una sorta di ossessione per la terra, per il paesaggio e per la loro risonanza interiore e numinosa.

Guido Piovene, in Viaggio in Italia, si chiedeva cosa fosse il Veneto (pre-industrializzato) per i veneti. Rispondeva che «la loro terra per i veneti è una verità. […] Esiste nel cuore dei veneti una persuasione fantastica che la loro terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di sé stessi, che non hanno l’eguale nelle altre regioni d’Italia […]. Il venetismo è una potente realtà della fantasia».

Nel libricino di racconti di Goffredo Parise Veneto barbaro di muschi e nebbie, il Veneto è tutto tranne che barbaro, e barbara è piuttosto la malinconia primordiale che lega lo scrittore al suo territorio. Parise vive la regione come la «[sua] patria» e cioè un luogo di radici profonde, fisicamente rappresentato dalla terra.

In Giovanni Comisso il rapporto con la terra (veneta) è radicale, viscerale, totalizzante. Non si contano le sedi dove Comisso ha idealizzato la regione o forse solo «il metro quadrato» in cui viveva (penso, naturalmente, a La mia casa di campagna, ma anche alla raccolta di articoli, curata da Nico Naldini, Veneto felice, il cui titolo è già da solo un manifesto). «L’arte mi importa e non mi importa. Mi premono i miei campi, per quel poco che rendono, ma che giova, tutto il mondo è in un metro quadrato, basta saperlo godere. E io godo profondamente tutto quanto è attorno a me», scriveva nei suoi diari (Diario 1951-1964) e tutto quanto era attorno a lui era Zero Branco, il comune in provincia di Treviso dove lo scrittore aveva deciso di ritirarsi.

Dino Buzzati, in I misteri d’Italia, dopo aver magnificato il Veneto della pianura come terra fertile, di temperamento sereno e lieto, dove la «gente è cortese, le notti tranquille, il cielo luminoso», dove «le campane suonano spesso e contrariamente alla regola danno un suono piacevole», dove «l’accento dialettale riesce in genere gradito ai forestieri e favorevole ai rapporti amorosi», concludeva con un «[p]erò».

Però.

Un però che compendiava tutto il disagio e le contraddizioni e le inquietudini che sarebbero emerse sotto forma di depressione (ma anche, appunto, di pompe di benzina, rotonde, capannoni, muri di cartongesso) negli autori successivi.

– Leggi anche: Dino Buzzati e la caramella “stregata”, di Giulia Depentor

Forse solo Giuseppe Berto in Il male oscuro, più di chiunque altro, aveva anticipato questa strana imperfezione nel rapporto con la «campagna bassa intorno alla laguna di Venezia», piena «di influssi depressivi». A differenza di Comisso, che idealizzava la vita di campagna, Berto viveva il Veneto come un elemento di oppressione. Il protagonista del libro cerca disperatamente di sfuggire al legame con le sue origini e con la provincia veneta, sentita come limitante (al pari di Berto stesso e al pari di molti veneti oggi).

Il crollo dell’idillio – che non è un crollo unicamente personale, come in Berto, ma collettivo – si sublima con Andrea Zanzotto, che è testimone diretto del violento «progresso scorsoio» veneto (per dirla con Targhetta, intervistato da Pietro Minto in Il suo buio speciale, con fotografie di Mattia Balsamini). In Il Veneto se ne va, titolo piuttosto eloquente di un saggio contenuto in Luoghi e paesaggi, Zanzotto scriveva: «Quanta soave terra veneta, dalle lagune alle Dolomiti, mangiata dalla lebbra. […] Sembrano cadere a pezzi, nel grande scoppio, la regione veneta, il vecchio mondo veneto mitizzatosi come quiete rosea e un po’ tabaccosa, il delicato tono nervoso veneto, residuo incerto di una costellazione di certezze che si era formata nei secoli d’oro […]; e cade a pezzi anche tutto un insieme di spazi e di prospettive umane che da quei secoli si potevano ancora ricavare».

Anche Meneghello, in Libera nos a malo, con minor dramma, osservava la nascita di «nuove forme di intraprendenza, in cui tutto è svelto, pratico. C’è un’enorme confusione, alcune raffinatezze dell’ultima ora sono mescolate coi vecchi modi plebei: la trasformazione del paese non avviene come ci saremmo immaginati, ma a modo suo».

Il Tronchetto e Porto Marghera visti da piazzale Roma, Venezia. (foto Camilla Burelli)

In un reportage di Giacomo Papi proprio su Zanzotto e sul Veneto, la scissione tra il pregresso idealizzato e il progresso demitizzato è spiegata piuttosto chiaramente: oggi «molto si gioca sul confronto con il passato, sul confronto tra il paesaggio di oggi e quello del ricordo».

Fa dunque sorridere, leggendo le poesie e i saggi di Zanzotto, l’illusione pre-industrializzata di Piovene, che osservava come «nel Veneto il paesaggio è per metà natura e per metà quadro, vive e si guarda vivere, e si compiace di sé stesso».

Fa ancora più sorridere leggendo Cartongesso o I morticani di Francesco Maino; Works o Tristissimi giardini di Vitaliano Trevisan; Le vite potenziali di Francesco Targhetta, tutte opere che descrivono il Veneto non più come una terra, ma come un territorio, lo stesso mostrato in Le città di pianura.

Il «nebbioso e malsano Nordest» oggi è sempre (e solo) rappresentato come una «periferia diffusa» (per citare Trevisan) «della quale non val la pena di rammentare nulla, se non la pieve, la pompa dell’Esso, le Poste e un panificio parificato» (per citare Maino) e dove «la devastazione del paesaggio si misura con lo sguardo» (per dirla con Papi).

– Leggi anche: Andrea Zanzotto e il paesaggio a Nord-Est, di Giacomo Papi

La gioiosa et amorosa provincia veneta del primissimo boom economico, descritta nel gioioso et amoroso Signore & signori di Pietro Germi, è oggi la topografia della rovina esplorata in Il pianeta in mare di Andrea Segre. Il documentario racconta Marghera, un’area nata in funzione di un grande sogno di progresso industriale, gradualmente trasformatasi in un cimitero animato da immigrati bengalesi che vivono il loro sogno di progresso personale.

E tuttavia, pur nella verità di queste narrazioni, continuo a chiedermi se non vi sia spazio, oggi, per un immaginario diverso del Veneto di pianura. Davvero oggi il Veneto è solo questo? C’è qualcosa, non tanto prima, ma oltre quella sfilza di villette a schiera, capannoni, viti e cartelli?

Una risposta si insinua in un dettaglio: la borsetta di tela rossa della libreria Marco Polo di Venezia che accompagna Giulio, il giovane studente dello IUAV “rimorchiato” da Doriano e Carlobianchi, lungo l’intero film. Quell’oggetto reca in sé l’emblema di un Veneto diverso: è il Veneto di una Venezia frequentata dai cittadini delle grandi metropoli (inesistenti in Veneto), quegli stessi cittadini che conoscono e fotografano la Tomba Brion, quando Doriano e Carlobianchi no i saveva manco che esistexe. Insomma, il Veneto per come in fondo desiderato da uno sguardo foresto educato alla grande città: certo più colto, indiscutibilmente più attraente, persino più “instagrammabile”, ma forse insincero, artefatto.

E nemmeno la Tomba Brion riesce a distaccarsi del tutto dal Veneto reale, dal quale è del resto circondata: visitata dagli studenti IUAV fuori sede e dai giapponesi, rimane un mausoleo istrionico voluto dal parón arricchito.

Un’altra possibile risposta potrebbe risiedere nel lirismo veneziano di Tiziano Scarpa. Peraltro – pur tralasciando che la laguna non concorre, se non in senso lato, alla rovina della terraferma pianeggiante, essendo afflitta da problematiche sue proprie, sintetizzabili nell’alternativa tra «diventare una fetida palude o una baia marina» – mi pare che, in fondo, si tratti solo di potenziali narrazioni alternative che nascondono un’altra forma di idealizzazione da cartolina.

Forse è per questo, o forse per una distanza generazionale che non mi ha fatto vivere il «progresso scorsoio» come un trauma zanzottiano, che la mia preferenza si rivolge altrove. Lì dove il poeta di Pieve di Soligo vedeva la «lebbra» che mangiava la terra e Giuseppe Berto percepiva l’oppressione della provincia, lì dove Trevisan sentiva un senso di soffocamento e Maino vede «un paese delle cose che stanno morendo», io posso trovare un mio strano senso di pace.

«Il paesaggio, a ben vedere, ovvero quello che noi chiamiamo paesaggio, irrompe nell’animo umano fin dalla prima infanzia con tutta la sua forza dirompente; da questo “stupore” iniziale ha origine la serie interminabile dei tentativi (tattili, gestuali, visivi, olfattivi, fonatori…) compiuti dal piccolo d’uomo per giungere a esperire le cose come si verificano», scriveva sempre Zanzotto nel saggio Il paesaggio come eros della terra.

E a me hanno irrotto nell’animo fin dalla prima infanzia proprio i capannoni, le villette anni Sessanta a un piano, le palme, le rotonde. E dunque vivo uno strano senso di benessere psicofisico all’atto del ritorno in Veneto e nella tacita accettazione di ciò che conosco e che ho sempre conosciuto, di ciò che c’è e che c’è sempre stato. O forse è solo malinconia.

E allora forse, di fronte alla ineluttabile rinuncia a (e all’ignoranza di) quel che c’era prima, la mia preferenza si rivolge al (dignitoso) niente che c’è adesso: alla bruttura endemica di Jesolo, dove si consumavano cocktail di gamberi affogati nella “salsa rosa” (perché si scrivono saggi sulle moeche e non si indaga la salsa rosa e l’universo che essa compendia per la cultura veneta?). Alle palme importate e ai pub che ostentano una finta atmosfera texana; alle gelaterie tristi disposte lungo le statali; alle pompe di benzina, al cemento indifferenziato e ai muri di cartongesso.

Esiste dopotutto nel mio cuore di veneta la persuasione che il senso del Veneto sia per noi veneti per l’appunto una verità, di quelle che non si possono spiegare né trasmettere, ma solo osservare o interiorizzare.

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