La giustizia riparativa sta faticosamente prendendo forma in Italia
Quattro anni fa la riforma Cartabia istituzionalizzò il percorso per favorire la mediazione tra autori e vittime di reato: ora ci sono un po' di novità

Nelle ultime settimane ci sono stati un po’ di sviluppi sulla realizzazione di un sistema di giustizia riparativa in Italia: è un tipo di percorso previsto per chi ha compiuto un reato, complementare alla pena da scontare, che prevede di incontrare la vittima del reato o le persone a lei vicine e avviare un dialogo per superare il conflitto, trovando una forma di compensazione concreta o simbolica.
La giustizia riparativa è ritenuta molto importante per il reinserimento sociale della persona condannata e più in generale per un tipo di giustizia orientato al recupero e alla rieducazione più che alla punizione: in Italia è stata istituzionalizzata dalla riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia nel 2021, con l’intento di rafforzare e uniformare un sistema che in Italia in parte esisteva già, ma in maniera disomogenea.
Il 22 ottobre il ministero della Giustizia ha stipulato accordi con diverse regioni, province e comuni per avviare 36 centri di giustizia riparativa su tutto il territorio nazionale: cioè strutture pubbliche dotate di personale specializzato e risorse finanziarie per portare avanti i programmi. Il 30 ottobre, poi, la Corte di Cassazione ha stabilito che una persona condannata può fare ricorso contro la sentenza di un giudice che le abbia negato un percorso di giustizia riparativa.
È una sentenza importante, sia perché ha risolto un contrasto interpretativo che esisteva fin dall’approvazione della riforma, sia perché ha chiarito che la giustizia riparativa deve essere considerata una parte integrante di qualsiasi processo penale, e non un elemento marginale o accessorio.
La giustizia riparativa (restorative justice, in inglese) è stata teorizzata a partire dagli anni Settanta, prima tra Stati Uniti e Canada e poi, nel corso degli anni Ottanta, anche in Europa, soprattutto tra Francia e Regno Unito. Oggi esistono programmi di giustizia riparativa anche in paesi come il Belgio, la Germania o la Finlandia. È un approccio che si basa anzitutto sull’idea che al centro del processo penale non debba esserci tanto il reato, quanto le persone coinvolte: con i loro danni subiti e inferti, le loro responsabilità e le loro relazioni.
L’idea è che il procedimento giudiziario non debba servire a punire, ma a favorire il senso di responsabilità individuale di chi ha compiuto il reato, e che in questo processo debba avere un ruolo attivo la vittima, quindi chi quel reato lo ha subìto (che non si limita a essere una parte passiva e offesa, portatrice o tramite di un desiderio di vendetta punitiva). La giustizia riparativa punta a ricostruire le relazioni danneggiate da un reato, con soluzioni che possono essere materiali o simboliche. Proprio per lo spirito di questo strumento c’è molta discussione sul fatto che sia difficilmente conciliabile con alcuni tipi di reato, e in particolare con quelli legati alla violenza di genere.
Concretamente, un percorso di giustizia riparativa può iniziare su base volontaria, su richiesta della stessa persona che ha compiuto il reato, della vittima o per decisione del giudice. Consiste in una serie di incontri: tra l’autore del reato e la vittima, oppure la sua famiglia, oppure la sua comunità di riferimento, oppure una persona che ha subìto un reato analogo, per esempio. Gli incontri sono accompagnati e gestiti da mediatori esperti. Il percorso ha una durata variabile e finisce quando le parti raggiungono un cosiddetto “esito riparativo”, cioè quando le due parti arrivano a un qualsiasi accordo per cui l’offesa sia percepita come riparata e si sia ricostruita una relazione tra le due parti.
In Italia la riforma Cartabia ha inserito la possibilità di fare un percorso di giustizia riparativa nel sistema penale nazionale, definendo in maniera chiara e omogenea i metodi: prima della riforma esistevano esperimenti di giustizia riparativa, ma in maniera non omogenea e soprattutto nell’ambito della giustizia minorile (che in Italia è considerata un’eccellenza proprio perché orientata al recupero più che alla punizione).
– Leggi anche: In Italia la giustizia minorile non è fatta per punire
La norma prevede che tutti possano accedere ai percorsi di giustizia riparativa (con limitazioni giustificate solo da pericoli concreti per i partecipanti), che la partecipazione avvenga su base volontaria e che agli incontri partecipino interpreti e mediatori culturali, se necessario. La riforma ha anche chiarito come si diventa mediatori esperti di giustizia riparativa (ci vuole almeno una laurea, un percorso formativo di 240 ore tra teoria e pratica e almeno 100 ore di tirocinio in un centro). La riforma vieta di fare intercettazioni nei luoghi in cui si svolgono gli incontri, e non obbliga i mediatori a denunciare reati di cui vengono a conoscenza durante il percorso. La riforma ha istituito un fondo specifico per finanziare le attività di giustizia riparativa.
Il ministero della Giustizia ha fatto accordi specifici per aprire centri per la giustizia riparativa con quattro regioni (Marche, Calabria, Lazio e Trentino-Alto Adige), con la provincia di Latina e con 29 comuni: Bari, Bologna, Reggio Emilia, Brescia, Bergamo, Cagliari, Caltanissetta, Catania, Firenze, L’Aquila, Genova, Taranto, Messina, Milano (per due centri), Monza, San Fermo della Battaglia, Lecco, Napoli, Palermo, Terni, Matera, Velletri, Roma, Salerno, Novara, Torino, Venezia, Verona e Padova.
Non ci sono ancora informazioni su quando apriranno i centri né i luoghi specifici: il prossimo passaggio, dice il ministero della Giustizia, sarà distribuire i fondi (8,9 milioni di euro all’anno). I centri, comunque, verranno istituiti all’interno di enti già esistenti stabiliti come idonei dai singoli comuni, province o regioni in collaborazione col ministero.
La sentenza della Corte di Cassazione sulla possibilità di fare ricorso contro le sentenze che negano di accedere alla giustizia riparativa invece è importante perché la riforma Cartabia non conteneva indicazioni chiare su questo punto, e dopo la sua approvazione si erano formati orientamenti diversi al riguardo. La Corte ha stabilito che si può fare ricorso contro un rifiuto sia in appello che in Cassazione.



