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  • Venerdì 7 novembre 2025

Pochi proprietari per tante squadre di calcio

Le cosiddette "multiproprietà" convengono a chi ne fa parte, ma fino a un certo punto, soprattutto per le squadre più piccole

di Valerio Moggia

I giocatori del Palermo e del Manchester City, entrambe appartenenti al City Football Group, durante un torneo amichevole giocato la scorsa estate (Maurizio Lagana/Getty Images)
I giocatori del Palermo e del Manchester City, entrambe appartenenti al City Football Group, durante un torneo amichevole giocato la scorsa estate (Maurizio Lagana/Getty Images)
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Il calciatore francese Eli Junior Kroupi ha 19 anni e sta giocando molto bene nel Bournemouth, una squadra a sorpresa terza a pari merito nel campionato inglese. Di recente tuttavia tifosi e commentatori stanno contestando il suo trasferimento dal Lorient al Bournemouth: lo reputano emblematico delle storture delle cosiddette multi-club ownership (MCO), cioè società che possiedono più di una squadra di calcio. Sono quelle che in italiano vengono definite, con un termine improprio che ha assunto un significato quasi opposto a quello che aveva sempre avuto in italiano, multiproprietà, e sono sempre più diffuse.

Kroupi fu acquistato lo scorso febbraio dalla squadra francese del Lorient per 13 milioni di euro, una cifra tutto sommato bassa, considerando quanto sono ricche le squadre inglesi e quanto spendono per acquistare i calciatori, soprattutto giovani. Secondo diversi esperti di calciomercato il Lorient aveva ricevuto un’offerta da 40 milioni di euro per Kroupi da parte del West Ham, ma aveva deciso di rifiutarla e di venderlo al Bournemouth per molti meno soldi. La società che possiede il Bournemouth, Black Knight Football and Entertainment, ha anche un terzo delle quote del Lorient, e per molti l’associazione è stata abbastanza ovvia.

Un report del CIES, il Centro internazionale per gli studi sullo sport, svolto nel 2024 considerando i 5 anni precedenti, ha rilevato che alla fine del 2023 quasi il 40 per cento dei 341 club iscritti alle principali leghe europee aveva connessioni dirette con altre società calcistiche. Ci sono insomma molte squadre che hanno, del tutto o in parte, un proprietario in comune. Oltre al Bournemouth e a un pezzo del Lorient, Black Knight Football and Entertainment possiede la squadra neozelandese dell’Auckland FC e quote di minoranza nell’Hibernian di Edimburgo e dei portoghesi del Moreirense.

Il caso più noto di multiproprietà è il City Football Group, una società controllata dal governo degli Emirati Arabi Uniti che possiede 13 club in cinque continenti, tra cui il più conosciuto è il Manchester City (del gruppo fa parte anche il Palermo, che gioca in Serie B).

Il fenomeno delle MCO è nato negli anni Novanta, un periodo in cui il settore dei diritti tv era in rapida espansione e il calcio stava diventando un settore in cui giravano molti soldi. Tra il 1995 e il 1997 la società inglese ENIC (English National Investment Company) fu proprietaria di Slavia Praga e Vicenza, ed ebbe quote di minoranza nell’AEK Atene, nel Tottenham, nei Rangers di Glasgow e metà del Basilea. Il progetto non ebbe però risultati economici e sportivi soddisfacenti, e alla fine ENIC vendette quasi tutto e scelse di concentrarsi sull’acquisizione della maggioranza del Tottenham.

Ci fu poi il caso della Red Bull, che nel 2005 acquistò il Salisburgo, l’anno dopo i New York MetroStars e oggi possiede 6 squadre in 4 continenti (e in altre due è azionista di minoranza). Quella della Red Bull può essere considerata la prima vera e propria multiproprietà, e anche quella con metodi più radicali e discussi. Ogni volta che ha rilevato un club, ne ha cambiato il nome, il logo e i colori sociali, facendoli coincidere con quelli del proprio brand (e creando non poche proteste tra i tifosi). Nel 2009 acquistò una piccola squadra delle serie minori tedesche, il Markranstädt, e la trasferì nella città di Lipsia rinominandola RB Lipsia. Pur con le controversie legate ai modi e allo sradicamento di tifosi e tradizioni, è anche un modello di successo, per risultati sportivi ed economici: in sette anni il Lipsia passò dalla quinta alla prima divisione, e oggi compete nelle coppe europee e ha vinto due Coppe di Germania.

Negli ultimi dieci anni le multiproprietà si sono diffuse, grazie soprattutto allo sviluppo del mercato dei calciatori. L’aumento del costo dei cartellini, cioè della spesa necessaria per acquistare un calciatore, ha convinto molte aziende a investire nel calcio assumendo il controllo di varie squadre, inserite all’interno di una sorta di gerarchia. In questo modo è possibile controllare alcuni mercati strategici (quelli di paesi meno competitivi, ma che investono molto nel calcio giovanile) in cui far crescere i propri talenti. Da lì i più promettenti possono passare alle società più in alto nella gerarchia, mentre altri possono essere venduti, ottenendo guadagni a volte notevoli, le cosiddette plusvalenze. Le MCO sono molto diffuse in Belgio, in Danimarca e in Francia, oltre ovviamente all’Inghilterra, dove di solito hanno sede i club gerarchicamente più importanti.

Di recente stanno aumentando anche in Italia. Oltre al Palermo, ne sono coinvolte il Bologna, il cui proprietario Joey Saputo possiede anche il Montreal; il Genoa, controllato da Dan Șucu, azionista di maggioranza del Rapid Bucarest; e l’Udinese della famiglia Pozzo, che da anni possiede pure il Watford (e in passato il Granada). Il Milan è di proprietà del fondo RedBird Capital Partners, che ha anche un quota di minoranza nel Liverpool e una di maggioranza nel Toulouse. Più particolare il caso del Napoli di Aurelio De Laurentiis, che controlla anche un altro club ma in Italia: il Bari, oggi in Serie B (il presidente è Luigi De Laurentiis, figlio di Aurelio).

Non sempre le cose vanno bene: tra il 2018 e il 2023 il fondo statunitense 777 Partners è arrivato a investire in sette club (tra cui anche il Genoa, in Italia), prima di essere travolto da accuse di frode e dai debiti.

Uno striscione di protesta dei tifosi del Bari contro Aurelio De Laurentiis, dopo che aveva definito il Bari la sua «seconda squadra» (ANSA)

Il caso di Eli Junior Kroupi non è il primo né l’ultimo. Nel luglio del 2024 il Manchester City acquistò l’attaccante brasiliano Savinho dal Girona per 25 milioni di euro: una cifra, secondo il sito Transfermarkt, parecchio inferiore al suo valore di mercato effettivo. In precedenza Savinho aveva giocato pure nel Troyes, che come il Girona fa parte del City Football Group. Il centrocampista ungherese Dominik Szoboszlai giocò addirittura in tre diverse squadre del gruppo Red Bull: Liefering (nella seconda divisione austriaca), Salisburgo e Lipsia, che nell’estate del 2023 lo cedette infine al Liverpool per 70 milioni.

Da operazioni come queste nascono anche le principali critiche al sistema delle MCO. Da un lato garantisce stabilità economica ai piccoli club e costante afflusso di talento a basso costo verso le squadre più importanti, ma dall’altro crea un contesto in cui le squadre più in basso nella gerarchia non possono crescere oltre un certo punto, e sono relegate a essere solo “serbatoi” per le società più prestigiose.

Proprio il caso del Girona è esemplificativo. Grazie al sostegno del City Football Group, nel 2022 ottenne la sua seconda promozione nella Liga spagnola, e due anni dopo addirittura arrivò terzo. I giocatori migliori furono ceduti al Manchester City, mentre altri giudicati non utili per la squadra inglese furono venduti altrove. La stagione successiva il Girona arrivò sedicesimo, e dopo la cessione di altri giocatori importanti adesso è ultimo nella Liga spagnola. Ci sono molti altri casi simili: lo Strasburgo si è qualificato per una competizione europea dopo oltre cinquant’anni, ma i suoi tifosi continuano a protestare accusando i proprietari (la società BlueCo) di trattare la squadra come “un club satellite” del Chelsea, in cui la squadra inglese manda i suoi giocatori a fare esperienza e poi se li riprende più forti.

C’è inoltre chi ritiene che queste squadre facciano una sorta di “concorrenza sleale” (ma per il momento non illegale) alle squadre che non appartengono a multiproprietà e che devono arrangiarsi con mezzi propri per cercare calciatori da acquistare e rivenderli generando profitti.

Il “derby della Red Bull” tra Salisburgo e Lipsia giocato in Europa League nel 2018 (Koji Watanabe/Getty Images)

Le MCO generano potenziali conflitti d’interessi non solo nel calciomercato, ma pure nelle competizioni. In passato era proibito a squadre con la stessa proprietà di giocare nelle competizioni europee. Dopo una modifica decisa nel marzo del 2024 dalla UEFA (la federazione europea), oggi le squadre con un proprietario comune possono giocare entrambe in Europa, purché facciano competizioni diverse, per esempio la Champions League e l’Europa League.

Per il momento invece le regole impediscono la partecipazione nella medesima competizione. Per questo motivo la scorsa estate il Crystal Palace è stato escluso dall’Europa League e “retrocesso” in Conference League (terza competizione europea per club) perché un suo azionista di minoranza, John Textor, è anche il proprietario del Lione, che gioca in Europa League.

Ciononostante, già nel 2017 Salisburgo e Lipsia poterono partecipare entrambe alla Champions League, e nel 2018 addirittura si affrontarono in Europa League. Ci riuscirono perché alcuni cambi nella dirigenza del Salisburgo portarono la UEFA a concludere che la Red Bull non esercitasse «un’influenza decisiva» sulle due squadre. In generale, il calcio europeo non sembra avere grossi interessi (e nemmeno i mezzi, visto quanto sono ormai diffuse) ad affrontare la situazione: in un sistema che ha sempre più bisogno di investitori facoltosi, le MCO sono fastidiose ma accettabili, come dimostra il cambio di regolamento dello scorso anno che le agevola, di fatto.