Gli insetti provano dolore?

È una possibilità sempre più indagata dalla ricerca e che potrebbe cambiare in modo fondamentale il nostro rapporto con loro

(Getty Images)
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All’inizio degli anni Novanta Lars Chittka stava studiando la capacità delle api di riconoscere i colori per il suo dottorato in neuroscienze all’Università libera di Berlino. Per farlo doveva sottoporre le api a esperimenti invasivi e quando chiese a un docente di botanica se volesse aiutarlo con i suoi studi ricevette una risposta indignata: il professore non voleva avere niente a che fare con un torturatore di insetti.

All’epoca quell’indignazione sembrava assurda: gli insetti erano ritenuti semplici automi, privi di emozioni e consapevolezza. Oggi, dopo decenni di studi sul loro comportamento e sulla loro intelligenza, quel rifiuto appare molto diverso perfino a Chittka, che negli anni è diventato uno dei più grandi esperti sul modo in cui gli insetti percepiscono il mondo che hanno intorno. Le ricerche più recenti suggeriscono infatti che gli insetti possano provare stati mentali complessi, forse perfino sofferenza, aprendo un dibattito articolato sulle implicazioni etiche del nostro rapporto con loro, dagli esperimenti di laboratorio all’agricoltura intensiva.

Tra le incertezze c’è un dato scientifico ormai acquisito: molti insetti possiedono e dimostrano chiaramente di avere la nocicezione, cioè la capacità di rilevare stimoli potenzialmente o effettivamente dannosi. È il meccanismo di base che porta ad avere una rapida risposta per proteggersi da una minaccia, qualcosa di paragonabile alla reazione che abbiamo quando sfioriamo una padella rovente e allontaniamo all’istante la mano per evitare un’ustione. Avere la nocicezione non significa però provare dolore.

Il dolore è infatti una condizione molto più elaborata, che viene definita dall’Associazione internazionale per lo studio del dolore (IASP) come «un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata, o somigliante a quella associata, a un danno ai tessuti effettivo o potenziale». La caratteristica principale del dolore è quindi la presenza di una componente emotiva e soggettiva: la nocicezione deve essere elaborata e se ne deve avere consapevolezza. Stabilire se questa elaborazione avvenga negli insetti non è semplice ed è ciò su cui si confrontano da anni i gruppi di ricerca.

Insetti disegnati nel diciassettesimo secolo da Jan van Kessel (Art/Heritage Images via Getty Images) Heritage Art/Heritage Images via Getty Images)

Gli umani non solo percepiscono il dolore, ma sono in grado di manifestare la loro condizione, spesso verbalmente per quanto con una forte componente di soggettività. Per un insetto è ovviamente diverso e non si può chiedere a una mosca che ha appena sbattuto contro il vetro della finestra se abbia sentito dolore. È stato quindi proposto un sistema per valutare la plausibilità del dolore negli insetti, derivato dall’analisi di centinaia di ricerche. Il “quadro di valutazione” è basato su otto punti, e più se ne ottengono più è probabile che l’insetto interessato riesca a provare dolore in modi quasi comparabili ai nostri.

Il criterio di base è naturalmente la presenza di recettori che rendano possibile la nocicezione, senza la quale non si innescherebbe il meccanismo che porta poi a percepire dolore. Si valuta poi se l’insetto sia dotato di neuroni o aree cerebrali per integrare informazioni sensoriali che arrivano da fonti diverse, e se ci siano collegamenti tra queste regioni. Altri punti riguardano la capacità di bilanciare uno stimolo nocivo con la motivazione per una ricompensa, la presenza di comportamenti di autoprotezione come prendersi cura di una ferita, e la capacità di associare un certo stimolo a un risultato nocivo.

Nel caso dei ditteri (come mosche e zanzare) e dei blattoidei (che comprendono scarafaggi e termiti) i gruppi di ricerca hanno notato che vengono soddisfatti sei criteri su otto, con forti indizi sulla capacità di percepire il dolore. Per gli imenotteri (come vespe, api e formiche) i criteri soddisfatti sono stati 4 su 8, con indizi sostanziali sulla capacità di percepire il dolore. Per altri insetti sono stati ottenuti punteggi più bassi, ma non si sono verificati casi in cui non soddisfacessero almeno uno dei criteri.

Identificare e analizzare fenomeni e comportamenti che rimandano ai singoli criteri non è sempre semplice, ma ci sono alcuni esperimenti che possono aiutare soprattutto a determinare la presenza di un “compromesso motivazionale”. Se un insetto, o un animale in generale, regola la sua risposta a uno stimolo dannoso in base a una motivazione (come nutrirsi o accoppiarsi), allora il comportamento non può essere spiegato come un semplice riflesso, una risposta automatica fissa e senza una certa elaborazione. Per verificare la presenza del compromesso, a volte i gruppi di ricerca devono essere creativi.

Un test è consistito nell’offrire ai bombi (stretti parenti delle api) una sostanza zuccherina in due vaschette, una a temperatura ambiente e l’altra riscaldata a 55 °C. Dopo aver provato entrambe, i bombi attingevano da quella a temperatura ambiente, perché l’altra era troppo calda e poteva danneggiarli. La preferenza poteva essere indotta da un semplice riflesso, quindi per escluderlo il gruppo di ricerca provò a ridurre la concentrazione di zucchero nella vaschetta a temperatura ambiente, lasciandola invariata in quella riscaldata.

Dopo un po’ di tempo, i bombi iniziarono a preferire il recipiente riscaldato nonostante il rischio, pur di ottenere la ricompensa più vantaggiosa. Secondo il gruppo di ricerca, questo comportamento non poteva essere spiegato come un semplice riflesso automatico: la modifica della risposta a seconda delle circostanze suggerisce che ci fosse una decisione frutto di un’elaborazione complessa. In un certo senso, i bombi “sopportavano il disagio” per ottenere una ricompensa ritenuta più vantaggiosa.

Un bombo su un fiore (Wikimedia)

Nella sfinge del tabacco (Manduca sexta), una specie di farfalla, le larve ferite rivolgono la loro testa verso la lesione e la toccano ripetutamente mostrando di saper localizzare il punto in cui hanno subìto un danno, anche quando la parte viene sollecitata senza causare altri danni. Le larve mostrerebbero quindi di rispondere in modo articolato e complesso, non tramite un banale automatismo.

Nelle formiche della specie Megaponera analis è stato invece notato che le operaie ferite emettono sostanze (feromoni) che attirano l’attenzione delle altre, in modo da avere assistenza nel ritorno al sicuro nel formicaio dove vengono accudite. È un’azione sociale, che coinvolge molti individui, e non è quindi autogestita, ma la complessità ha comunque portato a chiedersi se ci sia un certo grado di consapevolezza degli stimoli e dei loro effetti nocivi.

In altri test, alcuni scarafaggi sono stati privati della testa, rimuovendo in questo modo il ganglio cerebrale, il loro “cervello”. Il gruppo di ricerca ha poi prodotto uno stimolo sulle loro zampe, osservando che queste venivano ritratte, ma senza che a questo seguisse una fuga completa per allontanarsi dal pericolo. L’ipotesi è che le strutture nervose locali inducano una reazione immediata, mentre altre più elaborate siano gestite centralmente dal ganglio cerebrale.

L’osservazione di questi comportamenti ha portato indizi rilevanti, che si scontrano però con le attuali conoscenze su come sono fatti gli apparati nervosi degli insetti rispetto a quelli dei vertebrati. I più scettici ritengono che la mancanza di reti elaborate e integrate non renda possibile una percezione e una gestione del dolore paragonabile alla nostra, o a quella di altri animali.

Gli insetti hanno mediamente un buon corredo di neuroni che si occupano di raccogliere, confrontare e memorizzare i dati (come quelli sensoriali), mentre in proporzione hanno pochi neuroni che permettono di dialogare con altre strutture nervose. È un po’ come disporre di moltissimi libri, ma di pochi bibliotecari che ti aiutano a trovare i volumi che ti interessano e a metterli in relazione tra loro. Varie attività neuronali negli insetti avvengono quindi in parallelo, con le strutture che lavorano in modo indipendente. In queste condizioni, dice un filone della ricerca, è improbabile che un insetto possa sviluppare il senso del dolore per come lo intendiamo noi o lo osserviamo in altri vertebrati.

Formiche di Megaponera analis attaccano un termitaio (Wikimedia)

Nei casi in cui l’osservazione dei comportamenti e l’analisi della biologia che li rende possibili non sono sufficienti, la si può prendere un po’ più alla larga rivolgendo la propria attenzione verso l’evoluzione. In linea generale, i processi evolutivi tendono a favorire soluzioni efficienti e che richiedono meno risorse rispetto ad altri. Se comportamenti complessi possono emergere da strutture neuronali semplici e a basso consumo energetico, come accade negli insetti, allora lo sviluppo di reti più costose e sofisticate per generare l’esperienza del dolore rappresenterebbe un investimento evolutivo difficile da giustificare.

Le ricerche e le valutazioni sul ruolo del dolore tra gli insetti negli ultimi anni sta portando a un’estensione delle riflessioni etiche già in corso da tempo sul nostro rapporto con gli altri esseri viventi. Alcuni studiosi sostengono che l’onere della prova dovrebbe essere invertito e cioè che non si dovrebbe attendere la dimostrazione definitiva della capacità degli insetti di provare dolore, ma chiedere prove solide della sua assenza prima di infliggere eventuali sofferenze. Ciò porterebbe a una estensione notevole del principio di precauzione che già oggi si usa nella ricerca, specialmente nella sperimentazione sugli animali.

Un simile approccio potrebbe condizionare profondamente non solo la ricerca scientifica, ma anche l’allevamento e l’agricoltura. Nei laboratori vengono effettuati di continuo esperimenti invasivi su moscerini, api e altri insetti, basandosi sull’assunto che questi non sentano nulla. Miliardi di insetti sono uccisi ogni anno a scopo alimentare e in agricoltura l’uso dei pesticidi implica l’uccisione di una grande quantità di insetti, spesso senza distinzione tra specie che possono essere nocive per un certo raccolto e tutte le altre.

Sono passati circa trent’anni da quando Lars Chittka fu rimproverato da un docente della sua università per i suoi studi sulle api. Quell’episodio cambiò profondamente il suo modo di vedere la questione, spingendolo a farsi domande che non hanno ancora trovato risposta, come ha raccontato al New Yorker: «Non c’è modo, in nessuna creatura, di quantificare o provare formalmente la presenza del dolore. Quello che stiamo cercando di fare, invece, è mettere insieme quanti più indizi possibili da diversi fronti di indagini per rispondere alla domanda: qual è la probabilità?». Proiettare qualcosa di noi stessi nella ricerca della risposta è forse il rischio più grande.