Tutti i problemi dell’industria italiana sono sempre lì
E quindi non è sorprendente che la produzione sia tornata a calare, dopo alcuni tiepidi aumenti che avevano fatto un po' sperare

Venerdì l’Istat ha pubblicato i dati sulla produzione industriale per il mese di agosto, che mostrano l’andamento dell’attività economica dell’industria nazionale: ad agosto è scesa del 2,4 per cento rispetto a luglio e del 2,7 per cento rispetto ad agosto del 2024. È un pessimo risultato, e interrompe in modo deciso un breve periodo di timidi rialzi che al contrario avevano fatto ben sperare sulla fine di una crisi molto grave che dura da più di due anni.
Del resto i problemi che l’hanno causata sono ancora tutti lì: la crisi dell’auto e il difficile contesto internazionale, aggravato ora dai dazi di Trump che penalizzano l’industria di tutto il mondo; e sono lì anche i tipici problemi italiani, come l’esagerato costo dell’energia che penalizza le aziende. Tutto questo è un rischio serio per l’economia mondiale e a maggior ragione per quella italiana: dall’andamento dell’industria dipende ogni anno circa un quinto di tutto il Prodotto Interno Lordo italiano, e per questo c’è sempre molta attenzione sui dati sulla produzione industriale.
Ad agosto l’indice della produzione industriale italiana è stato pari a 91,6: ha come base di riferimento il livello medio del 2021, fissato a 100. Significa che la produzione industriale è attualmente dell’8,4 per cento più bassa rispetto ad allora, quando era ancora in vigore parte delle restrizioni della pandemia da coronavirus. Oggi quelle restrizioni non ci sono più, eppure nelle industrie italiane si produce meno di allora. Dal grafico si vede peraltro che ad agosto il livello della produzione è tornato agli stessi livelli dell’estate del 2020, nel pieno del primo anno di pandemia.
Per capire ancora meglio la portata di questa crisi serve guardare anche da quanto dura: da febbraio 2023 la produzione industriale è calata per 26 mesi consecutivi, prendendo in considerazione la sua variazione tendenziale, che misura cioè quanto è cambiata rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (quindi agosto 2025 su agosto 2024, luglio 2025 su luglio 2024, e via così). Dallo scorso aprile questo dato aveva mostrato qualche timido segnale positivo, ora smentito.
Un altro dato utile a dare maggiore contesto è il cosiddetto indice PMI (Purchasing Managers Index): si basa sulle indagini che le aziende che lo elaborano fanno presso le industrie, intervistando i responsabili degli acquisti di materie prime e semilavorati necessari per la produzione. Queste persone hanno un’idea piuttosto attendibile delle prospettive di produzione delle imprese perché devono ordinare tutto quanto è necessario ai processi: se il fabbisogno di materiali aumenta, vuol dire che le prospettive di produzione sono buone; se avviene il contrario, vuol dire che le stime per la produzione futura sono in calo, così come anche le prospettive per l’economia.
Queste indagini vengono poi condensate nell’indice PMI, che tra gli analisti è usato per capire un po’ che aria tira tra le industrie e come sono le condizioni di mercato. Per convenzione, se è sopra 50 l’economia si prevede in espansione; se è sotto, le prospettive sono di recessione. In Italia per il settore manifatturiero l’indice è sotto la soglia dei 50 punti da tre anni, tranne qualche piccolo accenno in positivo, l’ultimo ad agosto, quando è stato a 50,4. Già a settembre è tornato a 49.
Le origini di questa crisi che non accenna a risolversi sono varie. Dall’inizio del 2023 l’industria italiana risente di un calo generalizzato di consumi ed esportazioni per via del difficile contesto internazionale, prima con la pandemia, poi con la guerra in Ucraina e la crisi energetica, la guerra a Gaza, Donald Trump, il suo atteggiamento poco accomodante verso l’Unione Europea, e la conseguente necessità del riarmo: tutti elementi che aumentano l’incertezza e fanno male agli affari.
A questo vanno aggiunti i dazi statunitensi del 15 per cento sulle merci europee, e quindi italiane, che rischiano di ridurre il giro d’affari delle aziende che vendono negli Stati Uniti. Probabilmente il tiepido aumento della produzione da aprile in poi si doveva proprio a un aumento improvviso degli ordini dagli Stati Uniti in vista dei dazi, un fenomeno chiamato front loading. Da agosto i dazi sono effettivamente in vigore.
Ci sono poi la crisi dell’industria tedesca, che a catena si riversa su quella italiana, e la grande crisi del settore automobilistico, che non riguarda solo l’Italia ma anche il resto dei paesi dell’Unione Europea, che stanno facendo fatica nella transizione dai motori termici a quelli elettrici e che risentono della concorrenza della Cina.
Ovviamente questa crisi ha un impatto molto forte sull’industria italiana per il ruolo di Stellantis, il gruppo automobilistico nato nel 2021 dalla fusione tra l’azienda francese PSA (ex Peugeot-Citröen) e quella italostatunitense FCA (a sua volta nata dalla fusione tra Fiat e Chrysler): l’azienda è in crisi, vende sempre meno auto e di conseguenza continua a ridurre la produzione in tutti i suoi stabilimenti europei, compresi quelli italiani.
Infine c’è un problema tutto italiano, noto da tempo ma mai davvero risolto: l’Italia ha uno dei costi dell’energia più alti di tutta Europa, con la conseguenza che per le industrie nazionali produrre è di base molto più costoso che per quelle degli altri paesi.
Secondo uno studio di Confindustria nel 2024 le imprese italiane hanno pagato l’elettricità l’87 per cento in più rispetto alla Francia, il 72 per cento in più della Spagna e quasi il 40 per cento in più della Germania. È un problema che dipende da una maggiore tassazione, ma anche da un più scarso ricorso alle energie rinnovabili e da un’ancora elevata dipendenza dal gas. Ha una grave conseguenza: le industrie italiane sono svantaggiate in partenza rispetto ai concorrenti degli altri paesi, perché hanno costi di produzione più alti.
Negli ultimi anni il governo italiano ha fatto molto poco per tentare di risolvere alcuni di questi problemi, compreso quello dell’energia. Anche nella prossima legge di bilancio, quella con cui il governo italiano decide come spendere e incassare i soldi dello Stato per l’anno successivo, non sono previste al momento misure in favore delle aziende, sia piccole sia grandi. È il terzo anno consecutivo in cui mancano del tutto, e non sono stati ancora risolti i grossi problemi che hanno reso sostanzialmente inutilizzabile la misura che il governo aveva pensato di usare in questo senso (Transizione 5.0).
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