È già chiaro che la prossima legge di bilancio sarà molto modesta
Non ci sono soldi, e il governo ha riconosciuto che non farà crescere l'economia

La costruzione della prossima legge di bilancio – il cosiddetto “cantiere manovra”, come lo chiamano spesso i giornali – è appena iniziata con l’approvazione giovedì da parte del governo del primo documento ufficiale, che per quanto vago ha già fatto capire una cosa importante: sarà una legge di bilancio molto, molto modesta.
Da un lato perché non ci sono soldi, come ha detto più volte il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ribadendo che i pochi margini di spesa saranno usati per mettere i conti in ordine e per sostenere le spese straordinarie, come quelle per far fronte ai dazi statunitensi e per aumentare la spesa nella difesa. Dall’altra, per ammissione dello stesso governo, i soldi che la legge movimenta – circa 16 miliardi di euro, per la prima volta da tempo una cifra sotto i 20 miliardi – non daranno alcun impulso alla crescita dell’economia.
La legge di bilancio stabilisce come saranno incassati e spesi i soldi dello Stato il prossimo anno. Il governo ha in programma di “manovrare” per 16 miliardi di euro le voci del bilancio rispetto allo status quo (da qui l’espressione giornalistica “manovra”). Queste cifre serviranno al governo per confermare alcuni provvedimenti già in vigore e per introdurne di nuovi. I dettagli delle cifre sono contenuti nel Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP) approvato giovedì dal governo (nel contesto della più ampia riforma europea sui conti pubblici, da quest’anno il documento sostituisce la vecchia Nadef, la Nota di Aggiornamento al DEF, che ogni settembre avviava il ciclo di bilancio con i primi numeri della manovra).
Il DPFP replica molto la vecchia impostazione, fornendo i cosiddetti saldi di finanza pubblica: in sostanza le previsioni su quanto il governo crede che crescerà l’economia nel 2025, quanto incasserà con le tasse, quanto spenderà, quanti soldi prenderà a prestito e come andrà il debito pubblico. Sono numeri importanti, che ci dicono su quante risorse il governo potrà effettivamente contare. I dettagli su come le userà arriveranno nelle prossime settimane, con il Documento programmatico di bilancio e il disegno di legge di bilancio che sarà trasmesso al parlamento.
La questione dell’impatto nullo sulla crescita dell’economia si desume dai numeri esposti nel DPFP, che come avveniva in passato vengono suddivisi in dati tendenziali e programmatici. I dati tendenziali sono quelli che si otterrebbero se non si facesse nulla, quindi se non si modificasse in alcun modo il bilancio dello Stato; i dati programmatici invece sono gli obiettivi che vuole perseguire il governo con le sue politiche. La differenza tra i due rappresenta quindi quanto vale, per le diverse voci, l’azione del governo.
Per la crescita del Prodotto Interno Lordo, che in teoria rappresenta l’obiettivo prioritario della legge di bilancio, si vede chiaramente che quest’azione non avrà alcun risultato. Per il 2026 la differenza tra la crescita prevista con e senza le nuove politiche del governo è nulla: il DPFP dice che il prossimo anno il PIL crescerà dello 0,7 per cento, con o senza questa legge di bilancio. Un piccolo risultato è previsto per il 2027 e il 2028, quando gli effetti della legge di bilancio dovrebbero aumentare la crescita del PIL di 0,1 punti percentuali, quindi da 0,7 a 0,8 nel 2027, e da 0,8 a 0,9 nel 2028.
Sono valori molto modesti se si pensa che il principale obiettivo delle politiche economiche (ma non l’unico) è quello di far crescere l’economia. Le ragioni della crescita ridotta sono varie: il contesto internazionale molto difficile che azzoppa l’economia, i dazi di Trump, le guerre in corso, alcune rigidità delle regole europee sui conti pubblici, e così via. Ma soprattutto è la conseguenza di una precisa scelta politica del governo, che ha deciso di usare alcuni margini che aveva accumulato quest’anno per mettere a posto i conti. È una scelta pienamente comprensibile se si segue qualche essenziale passaggio tecnico.
Rispetto alle stime di aprile il governo ha calcolato che nel 2025 è riuscito a spendere 2,6 miliardi di euro in meno del previsto e a incassare 2,7 miliardi in più con le tasse. Da una parte da qualche anno Giorgetti ha imposto un severo piano di risparmio ai diversi ministeri. Dall’altro l’aumento delle entrate è il risultato di un meccanismo perverso del nostro sistema fiscale che si chiama fiscal drag, o drenaggio fiscale: succede quando l’aumento dei redditi innescato dall’aumento generale del costo della vita finisce anche per far pagare imposte più alte ai lavoratori. È quello che è successo negli ultimi anni, ed è anche quello che ha permesso al governo di rimettere in ordine i conti senza particolari sforzi.
Ad ogni modo il governo ha deciso di usare questi circa 5 miliardi di euro complessivi per ridurre il deficit: è la differenza tra quanto incassa lo Stato con le tasse e quanto spende, e se spende più di quanto incassa quella differenza va finanziata con debito pubblico, contribuendo ad alimentare quello già esistente. Il deficit per quest’anno era previsto al 3,3 per cento del PIL, già in calo rispetto all’anno scorso, e ora il governo ha detto che riuscirà a ridurlo ancora di più, proprio usando il migliore andamento di entrate e spese: al 3 per cento, un valore non casuale.
È una buona notizia perché il 3 per cento è proprio la soglia consentita dalle regole europee sui conti pubblici, e l’Italia insieme ad altri paesi si trova dall’anno scorso in una procedura per deficit eccessivo perché fino al 2024 lo aveva più alto. È una procedura europea che costringe a un rientro abbastanza severo nei parametri. Con un deficit al 3 per cento già da quest’anno l’Italia può sperare di uscirne l’anno prossimo, con un anno di anticipo rispetto a quanto aveva preventivato. Questo le consentirebbe, a dire del governo, di liberare margini extra in spesa per la difesa.
Una lettura un po’ più maliziosa è che questo consentirebbe anche al governo di attirarsi un certo favore da parte della Commissione Europea e magari un atteggiamento più morbido nei prossimi anni, nei quali i partiti al governo vorranno probabilmente spendere qualcosa in più per guadagnare un po’ di consenso in vista delle elezioni politiche del 2027.
È anche possibile che il ministero dell’Economia si sia tenuto molto prudente nella definizione delle stime, un atteggiamento che aveva avuto anche negli anni scorsi e che poi era stato “premiato” con stime di crescita del PIL superiori alle aspettative: non è solo per far vedere all’opinione pubblica che le cose sono andate meglio del previsto, ma è pure una questione contabile.
Dai valori del PIL dipendono infatti tutti i valori di finanza pubblica, poiché tutti vengono messi a rapporto con la dimensione dell’economia, quindi il PIL. È così per lo stesso deficit e il debito pubblico: se quindi il PIL dovesse crescere più del previsto, il valore al denominatore di questi rapporti aumenterebbe e il risultato complessivo sarebbe più basso e migliore della aspettative, liberando per i prossimi anni risorse inattese che potranno essere spese. Questo però è tutto da vedere: intanto l’apporto delle politiche pubbliche sull’economia nei prossimi anni sarà con ogni probabilità nullo, o al massimo marginale.
Bisognerà poi vedere come il governo strutturerà la legge di bilancio, cioè quali interventi davvero introdurrà. Il DPFP mostra che i 16 miliardi della legge di bilancio saranno finanziati per circa 10 miliardi attraverso riduzioni di spesa, per poco più di 2 miliardi in deficit, e il resto con un aumento delle entrate, quindi delle tasse. Il documento però non ha alcun dettaglio su come il governo vuole arrivare a questo risultato, per esempio quali tasse vuole ridurre o aumentare, quali spese far crescere e quali calare, e così via.
Il DPFP ha un po’ tradito le aspettative che c’erano sui dettagli delle misure. La risoluzione con cui è stato introdotto questo nuovo documento, approvata a metà settembre dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato, prevedeva infatti che sarebbe stata inserita «l’articolazione delle misure di prossima adozione nell’ambito della manovra di finanza pubblica e dei relativi effetti finanziari». Non c’è quasi niente, se non qualche frase generica.
Secondo gran parte delle indiscrezioni la misura principale sarà una nuova riduzione dell’IRPEF, cioè dell’imposta sui redditi: si dovrebbe ridurre dal 35 al 33 per cento l’aliquota del secondo scaglione, cioè la tassazione applicata per la parte di redditi tra i 28 e i 50mila euro annui (ma il governo non ha nascosto la volontà di tentare di arrivare a 60mila euro, vedremo). Questo provvedimento compenserebbe in parte il fiscal drag, e sarebbe dunque positivo per i lavoratori che in questi anni non solo si sono impoveriti con l’inflazione ma hanno anche iniziato a pagare più tasse.
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