I turbolenti anni di “Vice”

Un documentario racconta le traversie editoriali di una testata che seppe farsi notare moltissimo dai millennial, ma che oggi è diventata irrilevante

Un incontro con la redazione americana di Vice  a Austin, in Texas, nel 2013 (Hutton Supancic/Getty Images)
Un incontro con la redazione americana di Vice a Austin, in Texas, nel 2013 (Hutton Supancic/Getty Images)
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Nel 2010 David Carr, giornalista del New York Times esperto di media e internet, visitò la sede della media company statunitense Vice per intervistare Shane Smith, il suo fondatore. All’epoca Vice aveva un accordo con la CNN, che trasmetteva in esclusiva alcuni suoi video, orientati all’intrattenimento più che all’informazione.

Carr fu colpito da un reportage in cui Smith girava per le paludi della Liberia con il capo di un gruppo militare locale, che si faceva chiamare “Butt Naked” (qualcosa come “Sedere scoperto”), e raccontava aneddoti sull’addestramento dei suoi uomini. Secondo uno di questi, prima di andare in battaglia i soldati bevevano il sangue di un «bambino innocente». Durante l’intervista, Smith parlò con toni supponenti dei reportage del New York Times in Africa. Carr gli rispose: «Prima che a te venisse in mente di andare in Africa, noi eravamo già lì a raccontare genocidio dopo genocidio. Metterti un elmetto da safari e filmare un po’ di merda per terra non ti dà il diritto di insultarci».

È uno degli aneddoti raccontati in Vice Is Broke, documentario distribuito da Mubi che racconta come una fanzine distribuita gratuitamente a Montreal riuscì a diventare un colosso mediatico con una valutazione superiore ai 5 miliardi di dollari. Vice Is Broke è scritto e diretto dallo chef statunitense Eddie Huang, uno degli storici collaboratori di Vice, per cui condusse la rubrica culinaria Huang’s World. Huang ha finanziato il documentario personalmente, in parte per analizzare i motivi del declino di Vice, e in parte per denunciare le molte inadempienze dell’azienda, da cui deve ancora ricevere centinaia di migliaia di dollari.

Nel 2023 Vice aveva presentato istanza di fallimento dopo un lungo periodo di crisi, poi è stata rilevata per circa 350 milioni di dollari da un consorzio di fondi d’investimento. Nello stesso anno chiuse anche l’edizione italiana di Vice, pubblicata a partire dal 2005 e che era diventata come quella americana un riferimento per la cultura giovanile in Italia.

Per realizzare Vice Is Broke Huang ha intervistato diverse figure rappresentative della testata, tra cui l’ex direttore Jesse Pearson, il reporter Simon Ostrovsky e Gavin McInnes, uno dei fondatori della testata, che oggi è il leader del gruppo suprematista Proud Boys ed è considerato una delle principali figure della cosiddetta alt right, l’estrema destra statunitense.

McInnes fondò Vice insieme a Smith e Suroosh Alvi nel 1994 a Montreal, in Canada, rilevando una rivista non profit chiamata Voice of Montreal, con l’idea di creare una rivista indipendente incentrata sui consumi culturali che andavano per la maggiore tra i giovani. Gli articoli, scritti con un linguaggio volutamente eccessivo e provocatorio, parlavano soprattutto di feste, sesso, droghe, e generavano una certa attenzione anche per il modo in cui venivano titolati, irriverente e spesso beffardo nei confronti delle generazioni più anziane.

Fin dall’inizio, Smith si distinse per i suoi metodi imprenditoriali poco ortodossi. Nel 1998 per esempio disse a un giornalista che Richard Szalwinski, un noto imprenditore nel settore dei media di Montreal, aveva investito in Vice. Non era vero, ma quando Szalwinski lo venne a sapere rimase abbastanza impressionato da decidere di investire per davvero: grazie alle nuove risorse finanziarie, Vice poté trasferire la sua sede a New York e accrescere il suo organico.

I primi anni Duemila furono forse i più difficili della storia di Vice, soprattutto quando, a seguito dello scoppio della bolla delle dot-com, Szalwinski smise di finanziare la testata. La società si ritrovò indebitata e fu costretta a trasferirsi in un vecchio loft a Brooklyn. Malgrado le difficoltà del periodo riuscì comunque a sopravvivere, anche grazie alla disponibilità di contenuti prodotti gratuitamente o a costi molto ridotti da persone entusiaste di entrare a far parte del mondo di Vice.

Con l’arrivo dei primi social network, Vice diventò uno dei consumi culturali maggiormente associati alle sottoculture delle città costiere statunitensi. Alcune tra le persone che ci scrivevano riuscirono ad acquisire una loro piccola notorietà in quegli ambienti: tra queste c’erano Amy Kellner, che si occupava soprattutto di sesso e questioni di genere, e Dave 1 (David Macklovitch), che scriveva di hip hop e musica alternativa e che oggi è un membro del duo di musica elettronica canadese Chromeo.

Dalla seconda metà degli anni Duemila, per migliorare le condizioni finanziarie di Vice, Smith decise di dedicare minore attenzione alla rivista e puntare sul formato video, che di lì a poco sarebbe diventato estremamente diffuso su tutte le principali testate online. Nel 2008 fondò un proprio sito dedicato ai contenuti video, vbs.com. Collaborò col regista Spike Jonze, che diede ai reportage di Vice uno stile ricercato e talvolta spericolato, che li rendeva molto distanti dal giornalismo tradizionale.

I video erano riconoscibili, avevano un approccio molto diretto e un ritmo serrato, seguendo una regola di montaggio tanto semplice quando efficace: tagliare tutte le cose noiose e lasciare il resto. In quel contesto, Vice diede molte opportunità a giovani desiderosi di sperimentare cose nuove, anche a costo di mettere a rischio la loro stessa incolumità.

La svolta non fu apprezzata dalla parte di redazione che curava la rivista. L’ex direttore Pearson ha raccontato di essersi licenziato nel 2010, quando si rese conto che Smith voleva trasformare il magazine in un «catalogo dei contenuti video». «Facevano questi tentativi di giornalismo di cronaca in cui mandavano il ragazzino di turno in un paese in cui non era mai stato, e il succo di questi reportage era sempre “questo posto è davvero pericoloso”», dice Pearson in una scena del documentario.

In Italia Vice iniziò a circolare in formato cartaceo nel 2005, ma fu soprattutto con il lancio del sito nel 2011 che divenne davvero rilevante, intercettando soprattutto l’interesse dei millennial. L’idea che guidava la redazione era di parlare delle cose serie in modo stupido, e di quelle stupide in modo serio, divertendosi nel frattempo.

L’edizione italiana si distinse per alcune caratteristiche, come l’orientamento di sinistra e l’attenzione a temi come gli abusi della polizia, le droghe, la sessualità, le questioni di genere e la salute mentale. Diede spazio a una generazione di autori e autrici senza esperienze giornalistiche, che però riuscì a emergere grazie a un linguaggio sfrontato e alla tendenza a occuparsi di argomenti che i quotidiani tradizionali tendevano a ignorare. L’identità dell’edizione italiana era forte e riconoscibile, grazie a contenuti che non si trovavano altrove: a volte anche per ragioni più che sensate.

Vice ebbe un ruolo importante anche nella diffusione della musica hip hop in Italia. Ci riuscì soprattutto con Noisey, la sezione della testata dedicata alle musiche alternative. Debuttò nel 2013, quando il rap stava diventando un’industria culturale molto redditizia, e grazie a documentari e rubriche come “The People Vs”, in cui il rapper di turno veniva invitato a rispondere ai commenti piccati che riceveva sui social, contribuì a far conoscere a un pubblico più ampio i linguaggi e le pratiche del genere.

Oltre ai video, l’altra intuizione di Smith furono i contenuti cosiddetti brandizzati, in cui lo sponsor diventava cioè una parte integrante degli articoli e dei servizi, che a un certo punto diventarono una quota fondamentale delle entrate di Vice. Smith seguiva criteri piuttosto laschi nella scelta delle aziende con cui collaborare: lavorò con produttori di sigarette elettroniche e persino con il governo saudita, e queste scelte minarono la credibilità di una testata che continuava a presentarsi come punk e irriverente.

In Vice is Broke il comico Fat Jew (Josh Ostrovsky), collaboratore agli inizi degli anni Dieci, racconta un aneddoto che riassume la distanza tra l’immagine anarchica e la realtà aziendale: un giorno, fumando davanti agli uffici, vide il magnate conservatore Rupert Murdoch alla reception.

Il documentario insiste anche sullo stile di vita sopra le righe di Smith e sui suoi deliri di onnipotenza. Un giorno disse a Huang di voler comprare la BBC, l’emittente pubblica britannica, insieme a Elon Musk. Huang gli rispose: «Ok, ma non dovresti prima comprare l’Inghilterra?».

Oltre alla crescente dipendenza da contenuti sponsorizzati che ne minarono immagine e credibilità, le ragioni del declino di Vice furono diverse. Le valutazioni miliardarie raggiunte nella seconda metà degli anni Dieci alimentarono aspettative impossibili da mantenere, e i ricavi non crebbero mai al ritmo che investitori e dirigenti si attendevano. Anche la scommessa sui video online non portò i risultati promessi, lasciando l’azienda con strutture e costi molto superiori alle entrate effettive.

A questo si aggiunsero una gestione interna caotica, alcune accuse di abusi e discriminazioni sul posto di lavoro e la crisi generale dell’editoria digitale, che vide gran parte delle entrate pubblicitarie spostarsi dalle testate giornalistiche verso colossi come Google e Facebook. Secondo l’ex direttore Pearson, il declino di Vice fu dovuto anche al suo linguaggio, che ha funzionato benissimo con i millennial ma non ha saputo intercettare le generazioni successive. «La coolness è una risorsa che puoi vendere una sola volta», dice in una delle scene del documentario.

Molti intervistati hanno riconosciuto di aver creduto di lavorare a qualcosa di utile, ma col senno di poi di aver fatto ben poco giornalismo. «Non eravamo giornalisti, anzi, abbiamo rovinato il giornalismo a chi è venuto dopo di noi», ha detto l’ex collaboratrice Lesley Arfin, ricordando la scarsa attenzione con cui gli articoli venivano scritti ed editati: «Non controllavamo le informazioni, ci mandavano in un posto e provavamo a raccontarlo. Avevamo pregiudizi, non c’era niente di giornalistico».

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