Ricominciare la scuola, diversi
«A settembre gli studenti tornano cambiati. Alcuni mi mostrano le foto delle vacanze, scattate in barca o in aereo tra due continenti o in qualche capitale europea. Ci vorrebbe una visione, semplice: che tutti i ragazzi possano provare cosa vuol dire vedere qualcosa di bello, perché è un loro diritto»

Dopo l’estate i ragazzi hanno cambiato pelle come i serpenti o come certi dinosauri che hanno fatto il salto evolutivo, dopo un’era geologica.
Entrano ghignando, mi salutano con sufficienza, gradassi, oppure cercano di evitare il mio sguardo. Alcuni mi sorridono a denti larghi, ma spendono poche parole, sgusciano via.
Non vogliono che io li riconosca.
Non vogliono farsi trovare.
Non si trovano più nemmeno tra di loro, perché d’estate le loro evoluzioni avvengono su pianeti diversi e adesso chissà se parlano ancora la stessa lingua dello scorso anno, chissà se si capiranno. Durante i mesi a scuola le differenze sociali e culturali si appianano e si stemperano nella vita condivisa, ma d’estate i conti in banca dei genitori ricominciano a determinare i destini, e allontanano i ricchi dai poveri.
Mi mostrano le slide con le foto delle vacanze: non sanno selezionare le immagini perché i loro scatti sono così tanti, sempre, che non riescono a capire quali sono venuti bene. Se li aiuto scopro che qualcuno ha foto scattate in barca e in aereo tra due continenti o in qualche capitale europea. Altri non hanno immagini di sé fuori dal bagno di casa. Qualcuno ha fatto settimane in barca a vela a Camogli, qualcun altro ha passato le serate al McDonald’s di Cinisello. Accanto alle foto delle pampas o degli skyline di New York vedo immagini in cui l’unico paesaggio è la rotonda davanti al bar del quartiere. In aula, accanto a chi ha fatto rafting e free climbing, siede chi ha passato l’estate a impennare bici elettriche truccate nel cortile del centro commerciale. Ma spesso gli stimoli proposti ai figli dalle famiglie più facoltose sono stati percepiti solo come un normale susseguirsi di attività. Chi ha passato l’estate davanti al computer invece lo riconosci perché ha le occhiaie, e speri che l’unica dipendenza nata d’estate, insieme agli amori sulle panchine del quartiere, sia quella da schermi.
Mi sembra che i ragazzi di queste generazioni affrontino settembre senza languori o speranze, che non abbiano quasi mai nostalgia e che mordano. Hanno ignorato i compiti o li hanno fatti perché costretti, hanno cancellato la scuola, dimenticato i compagni, la prof, quella moda che a giugno faceva impazzire e ora è tramontata, quel crush primaverile rimosso in agosto dal cuore e dai social. Hanno vissuto un tempo declinato all’infinito presente e hanno tutti scoperto la distanza siderale che c’è tra la struttura del quotidiano e la fluidità della noia, ma è così che si cresce.
In vacanza oppure al bar del centro commerciale, sono cambiati e noi non riusciamo a stargli dietro, forse perché non cresciamo più. È come quando cresce l’erba: non te ne accorgi finché non è diventata alta di colpo, e il prato è diverso. Tra noi e loro si è creata una distanza, anche perché l’unica cosa che facciamo è guardarla crescere ancora, l’erba, o tagliarla.
L’estate è un’occasione educativa sprecata. Non c’è un investimento abbastanza ampio da coprire il bisogno, di tutti i ragazzi, di vivere un tempo diverso da quello della didattica ma al riparo dal nulla, anzi, dal Nulla, che è come il lupo della Storia infinita che si mangia tutta la fantasia.
A dodici o tredici anni bastano tre mesi di Nulla per rovinare una vita, ma l’alternativa non può essere stare in aula a fare grammatica in agosto, con 38 gradi e le finestre rotte. Il tema non può essere liberare i genitori per lasciarli tranquilli al lavoro. Ci vorrebbe una visione, semplice: che tutti i ragazzi possano riposare quando fa caldo e provare cosa vuol dire vedere qualcosa di bello, perché è un loro diritto.
Non possono farlo da soli, servirebbe un senso condiviso dagli adulti, una spesa pubblica adeguata, un progetto che attraversi la società, la scuola, una visione, semplice: qualcosa di diverso dalle misure d’emergenza e dalle “pezze” che già esistono, ma che purtroppo non bastano a coprire i buchi. Qualcosa di diverso dalle trovate pubblicitarie o punitive, per fare parlare i giornali. Serve qualcosa di strutturale perché nessuna famiglia sia sola durante l’estate.
Ma adesso è settembre e siamo qui: voi davanti a me.
Cosa me ne faccio del vostro segreto, cosa vi serve, oggi?
Da dove le acciuffo, le vostre schiene appuntite da rettili, per riportarle dentro la carreggiata che dobbiamo percorrere per arrivare alla prossima, di estate?
Cos’ho, io, da dirvi?
Farò come fece una mia insegnante, intorno al 1995, quando le piccole ferie del ceto medio ci lasciavano una grande nostalgia e tornavi a scuola avendo in testa i Righeira.
Neanche noi volevamo tornare a scuola. Anche allora qualcuno aveva visto coste esotiche e altri erano rimasti a fumare le prime sigarette o canne sul muretto al parco. Tutti, nessuno escluso, avevamo il magone in gola, come diciamo a Milano quando ci viene da piangere. Perché tornare a scuola voleva dire indossare panni che non sentivi più tuoi, rientrare in dinamiche strette, ridurre l’orizzonte scoperto nel tempo strano e immenso dell’estate, e non poter ricominciare in modo diverso, dal punto in cui eri arrivato, ma essere trascinato dentro, schiacciato nel mondo di prima.
Anche la mia insegnante di allora entrò in aula, già stufa come me oggi, i capelli più gialli del solito e la sigaretta già accesa. Avrebbe potuto parcheggiarci davanti a un film, ma non lo fece. Avrebbe potuto iniziare a spiegare o a interrogare.
Invece ci lesse ad alta voce la poesia Arrivederci fratello mare di Nâzım Hikmet, con la sigaretta che si consumava da sola, accesa nella mano sinistra.
E io me lo ricordo il magone che mi si scioglieva in bocca, salato, perché finalmente stavo piangendo. Mi ricordo il risveglio della mente.
Siamo conchiglie sulla sabbia, esposte al caso che ci ha riservato una villa in Sardegna o un monolocale scassato in periferia, un padre medico o un padre disoccupato, ma dentro l’aula siamo solo noi stessi, e le cose belle possono battere per un attimo le voragini scavate dall’ingiustizia, dall’incuria, dall’inerzia del mondo. A questo servirebbe la scuola.
Chi non ha mai visto il mare può imparare a desiderarlo. E chi lo ha visto può imparare a non darlo per scontato.
È per questo che siamo tornati.












