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  • Giovedì 11 settembre 2025

La lunga strada dell’India verso un bagno per tutti

Negli ultimi vent'anni sono stati costruiti milioni di gabinetti e latrine, ma anche nelle città alcune case continuano a non averne uno

di Valerio Clari

Un bagno costruito nel 2015 a Hirmathla, nello stato di Haryana, India (AP Photo/Bernat Armangue)
Un bagno costruito nel 2015 a Hirmathla, nello stato di Haryana, India (AP Photo/Bernat Armangue)
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In una zona non lontana dall’aeroporto dell’enorme capitale indiana Delhi c’è l’International Museum of Toilets, un’esposizione commentata di water, bagni, latrine e soluzioni più o meno antiche o tecnologiche per permettere alle persone di defecare. Non è però uno dei tanti musei di stranezze che nascono un po’ ovunque: in India l’accesso della popolazione ai gabinetti è stato una questione rilevante di salute pubblica per molto tempo, e in parte lo è ancora.

Il museo è stato creato ed è gestito dalla Sulabh International, associazione fondata da Bindeshwar Pathak, sociologo e imprenditore indiano che ha passato la vita a portare bagni e latrine nelle zone più remote dell’India, guadagnandosi onorificenze dallo stato e premi internazionali (presentò anche la sua opera al Papa, negli anni Novanta).

L’esposizione di bagni e latrine della Sulabh International, a Delhi (Valerio Clari/il Post)

In India ancora nel 2000 solo il 14 per cento della popolazione aveva accesso a strutture igienico-sanitarie di base: era uno dei dati peggiori al mondo. E il problema era molto più grave nelle zone rurali, dove defecava all’aperto il 91 per cento degli indiani. Esiste una chiara relazione fra la defecazione all’aperto e la circolazione di malattie come diarrea, colera e tifo. Studi e statistiche hanno confermato che aumentando l’accesso alle strutture igieniche diminuisce il tasso di mortalità infantile.

A questo si aggiungono questioni di dignità personale, di sicurezza per donne e minori, nonché il problema della pulizia manuale delle latrine all’aperto, un compito che in passato in India era prerogativa delle caste più umili.

Le caste sono frutto di una rigida divisione sociale sviluppatasi gradualmente con l’induismo in quasi 3.000 anni: per secoli hanno condizionato ogni aspetto della vita religiosa e sociale indù, mentre oggi sono formalmente abolite, ma sopravvivono e restano rilevanti per una parte consistente della società indiana. Fino al 1993 la pulizia di latrine e fosse usate come tali era competenza dei “pulitori manuali”, appartenenti alla casta più umile, quella dei dalit, e che veniva fatta con secchi, scope, pale e nessuna protezione igienica. Dopo il 1993 questa pratica divenne illegale, ma vent’anni dopo, nel 2013, fu necessaria un’integrazione alla legge per evitare che fosse aggirata ed escludere ogni sorta di pulizia manuale.

Nel frattempo l’accesso alle strutture sanitarie vere e proprie è molto più diffuso, anche se non completo e ancora non adeguato per un paese che sta celebrando il sorpasso sul Giappone come quarta economia più grande al mondo (considerando il PIL complessivo, non certo quello pro capite). La defecazione all’aperto nel 2022 riguardava solo l’11 per cento della popolazione: sono comunque 157 milioni di persone, di cui 153 milioni vivono in campagna.

Il miglioramento è stato ottenuto con lunghe e molto finanziate campagne governative. Prima, però, c’è stato il dottor Pathak, morto nel 2020, che a partire dagli anni Settanta creò almeno una dozzina di modelli di bagni autosufficienti e a basso costo. Non avevano bisogno di essere allacciati a un sistema fognario (assente nelle zone rurali, ma anche in molte città indiane) e di fatto prevedevano due condotte che dal water portavano a un paio di buchi profondi e chiusi in modo ermetico: potevano durare alcuni anni prima di aver bisogno di essere ripuliti. Modelli successivi e più costosi producevano biogas dagli escrementi umani.

Il museo della Sulabh International che ripercorre l’evoluzione di water e gabinetti (Valerio Clari/il Post)

Nel museo ci sono i vari modelli, insieme a riproduzioni di gabinetti del passato, dai troni dei re francesi alle latrine dell’Inghilterra della rivoluzione industriale. In India viene chiamato “bagno all’indiana” quello che noi definiamo “alla turca” e “bagno occidentale” quello con il water: fino ad alcuni anni fa i primi erano preponderanti, oggi almeno nelle città si trovano entrambi. Gli indiani per pulirsi usano l’acqua piuttosto che la carta igienica.

La Sulabh International dice di aver installato gratuitamente e con fondi privati da donazioni (non statali) oltre 1 milione e trecentomila bagni.

Bindeshwar Pathak a un’inaugurazione di un bagno a Katra, nell’Uttar Pradesh, nel 2014 (EPA/HARISH TYAGI/ansa)

In questo campo gli investimenti del governo centrale indiano hanno poi fatto la differenza. L’attuale primo ministro Narendra Modi, che governa da oltre un decennio con tendenze sempre più autoritarie, nel 2014 lanciò un’enorme campagna per eliminare la defecazione all’aperto. Furono creati inizialmente 500mila bagni, che poi divennero oltre dieci milioni in fasi successive, grazie a iniziative pubbliche o finanziamenti per installazioni private.

Modi iniziò a pubblicizzare l’operazione in campagna elettorale, già prima di diventare primo ministro: si chiamava Swachh Bharat Mission (Missione India pulita): nei primi anni il governo del Bharatiya Janata Party (BJP) ci puntò molto e il successo dell’operazione fu uno strumento di consolidamento all’estero dell’immagine di Modi (che ricevette anche premi, elogi e riconoscimenti internazionali). Nei primi anni in realtà il piano sembrò incontrare una certa resistenza culturale, perché anche chi possedeva un gabinetto non sempre lo usava. Ma oggi, grazie anche ad alcune campagne di sensibilizzazione e al sostegno di testimonial famosi, questo problema sembra essere stato superato.

L’accesso alle strutture igieniche ha avuto anche l’effetto positivo di ridurre i casi di molestie e violenze sessuali nei confronti delle donne, per le quali la defecazione all’aperto era un momento particolarmente pericoloso. Fra il 2014 e il 2016, in corrispondenza della creazione dei bagni, uno studio dell’Ashoka University ha registrato un calo sensibile dei casi denunciati (una parte di quelli complessivi).

Donne con i contenitori d’acqua che usano per lavarsi dopo la defecazione all’aperto, a Jammu nel 2014 (AP Photo/Channi Anand)

Resta invece un problema di trattamento delle acque reflue. Secondo studi di settore, nel 2017 solo il 5 per cento delle 8.000 città indiane aveva adeguate strutture di trattamento, che sono molto più difficili da realizzare rispetto alle semplici connessioni al sistema degli acquedotti. Le città indiane producono complessivamente oltre 72 miliardi di litri di acque reflue ogni giorno e secondo dati del 2022 solo il 28 per cento è trattato e riutilizzato: il resto viene scaricato in fiumi, laghi e falde sotterranee.

Inoltre anche in città una parte delle case continua a non avere un bagno. Sono quelle degli slums, che in italiano chiamiamo baraccopoli, ma che sono spesso quartieri strutturati – e che possono avere la popolazione di una nostra città di medie dimensioni – seppur sorti in modo informale e illegale.

Sanjay Colony è uno slum della zona sud di Delhi, dove vivono circa 60mila persone in poco più di 100mila metri quadrati (10-15 campi da calcio) e dove ci sono decine di mini industrie di riciclaggio e confezione di vestiti. Circa il 30-40 per cento degli abitanti vive in affitto in case che prevedono una sola stanza, quella dove si vive e si dorme. Non ci sono bagni e per ricavarli esistono due soluzioni: pagare il collegamento alla rete fognaria, con un investimento intorno ai 100 euro, una cifra che pochi si possono permettere; oppure costruire dei buchi come quelli del dottor Pathak, che durano 4-5 anni e per cui la somma da spendere inizialmente è molto minore. La pulizia ora è compiuta da imprese, non più dagli appartenenti alle caste più basse: costa una decina di euro.

C’è una terza via, piuttosto praticata, che è rimanere senza bagno e utilizzare quelli pubblici che dalla fine degli anni Novanta governi locali e statali hanno iniziato a creare vicino agli slums. Sono strutture enormi, hanno centinaia di lavandini, docce, zone per lavare i vestiti e, appunto, gabinetti. Vengono puliti due volte al giorno e l’uso è gratuito. Nel quasi 90 per cento di indiani che oggi ha accesso a strutture igieniche è conteggiato anche chi usa questi.