È il cinema italiano che si adatta a Franco Maresco e non il contrario
In “Un film fatto per Bene”, il regista siciliano noto e amato per fare tutto di testa sua racconta a cosa si deve questa sua fama

Tutti i film in concorso alla Mostra di Venezia sono accompagnati dai loro registi e attori che sono solitamente impegnati in una conferenza stampa. Quella di Un film fatto per Bene però non c’è stata perché non c’era nemmeno il suo autore, Franco Maresco. Non ha svolto attività stampa, non ha fatto promozione e proprio non era al Lido di Venezia. Come ha spiegato nell’unica intervista che ha concesso, per il Venerdì di Repubblica al critico Emiliano Morreale, che con lui ha un rapporto stretto, Maresco non ha documenti, non intende farli e non si vuole spostare da Palermo. Per la copertina di quel numero del Venerdì è stata usata una foto scattata informalmente sul set da un amico, perché non esistono foto in posa di Maresco, né è pensabile concordare con lui un servizio fotografico.
Franco Maresco è considerato la personalità più ingestibile del cinema italiano. È un regista e sceneggiatore che non lavora con un pubblico in mente, non fa film simili agli altri né di generi paragonabili a quelli frequentati degli altri. Eppure lavora e gode di ampia stima in un sistema industriale, quello del cinema, che non è pensato per valorizzare personalità come la sua ma anzi funziona al contrario, promuovendo meglio ciò che è conosciuto e familiare. È un caso unico, molto apprezzato da critica e festival ma poco conosciuto al pubblico.
Proprio questa fatica a muoversi nel cinema italiano e a fare film è al centro del suo ultimo lavoro, Un film fatto per Bene, presentato a Venezia con buone recensioni e ottime reazioni al festival e ora nei cinema. Questo è anche dovuto al fatto che Maresco, per la sua personalità, la sua coerenza e la qualità dei film che ha realizzato, è generalmente benvoluto e trattato come una specie di patrimonio nazionale, e questo a dispetto del suo carattere difficile e del disprezzo che manifesta per l’Italia, per il sistema culturale italiano e addirittura per sé stesso.
Un film fatto per Bene racconta anche questo. Mescolando finzione e documentario, parte dal fallimento di un progetto sul grande attore di teatro Carmelo Bene, causato dalla tendenza di Maresco a spendere più del budget a disposizione, ripetendo molte volte le scene e inseguendo un perfezionismo esagerato in rapporto alle disponibilità economiche e alle condizioni di lavoro. In totale la sola fase di riprese del film su Bene durò tre anni, quando di solito bastano meno di tre mesi. Più volte in Un film fatto per Bene si ascoltano messaggi vocali o telefonate di Andrea Occhipinti, produttore e distributore del film con la sua società Lucky Red, che chiede informazioni spazientito e intima di terminare le riprese. I vocali sono autentici, le telefonate invece, non essendo state registrate all’epoca, sono state rifatte, cioè recitate dallo stesso Occhipinti e da Maresco, per replicare la maniera in cui si erano svolte.
A fronte della passione di Maresco per tutto ciò che è brutto, squallido e rimosso da altri film o programmi televisivi, per le tipologie umane ai margini della società che nessuno rappresenta perché respingenti e nonostante la sua visione del mondo pessimista e depressa, i suoi film sono sempre molto divertenti.
Aveva già portato a Venezia Belluscone. Una storia siciliana (nel 2014), un documentario sui cantanti neomelodici siciliani, sul loro culto per Silvio Berlusconi e sui rapporti con i mafiosi in carcere. Il critico Enrico Ghezzi lo paragonò a «una canzone leggera fatta con elementi pesantissimi». Cinque anni dopo era di nuovo alla Mostra di Venezia con La mafia non è più quella di una volta, documentario in cui compare anche la fotografa Letizia Battaglia, che attraverso squallide figure siciliane raccontava come la memoria e l’immagine dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengano distorte a Palermo e dintorni, per normalizzarli e banalizzare il messaggio antimafioso.
Un film fatto per Bene racconta anche brevemente come Maresco si sia mosso nel sistema mediatico degli ultimi quarant’anni, dagli inizi fino ai lavori più recenti. L’obiettivo è infatti mettere in scena l’estraneità di una figura come la sua rispetto al mondo contemporaneo del cinema.
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La sua prima fama arrivò con Cinico TV, un programma televisivo scritto con Daniele Ciprì andato in onda su Rai 3 tra il 1992 e il 1996. Già in quei primi lavori lo stile di Ciprì e Maresco era chiaro: piccoli segmenti satirici, centrati su personaggi locali siciliani che espongono il peggio di sé. Ambienti squallidi, corpi non in forma, flatulenze, dialetto molto stretto e ignoranza esibita, qualcosa che ricordava la ricerca di Pier Paolo Pasolini sul sottoproletariato ma senza l’elevazione poetica. Il regista Mario Monicelli, nel lodare il programma, disse che aveva «il coraggio di mostrare un’Italia barbarica».
Cinico TV aveva il piglio sperimentale del cinema d’avanguardia e una strana maniera di usare l’umorismo che lo rendeva adatto alla tv generalista, o almeno a Rai 3 degli anni ’90. Lo stesso canale che consentì la creazione di una trasmissione audace come Blob.
Da Cinico TV Ciprì e Maresco passarono ai film nel 1995 con Lo zio di Brooklyn, che replicava in un lungometraggio la struttura di Cinico TV, i suoi personaggi e quella visione di mondo derelitta, quasi apocalittica. È un film con una trama inafferrabile in cui non ci sono attrici e tutti i personaggi femminili sono interpretati da uomini in abiti da donna. La cosa più paragonabile a questi primi lavori è lo stile di David Lynch, in cui tutto ha un senso più intuitivo che logico.
Dopo quel film arrivò nel 1998 Totò che visse due volte, l’ultimo film italiano a essere censurato: la commissione censura ne vietò la distribuzione perché ritenuto «degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità, offensivo del buon costume, con esplicito disprezzo verso il sentimento religioso e contenente scene blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale».
Il film era composto di tre episodi, tutti incentrati sulla morte di Dio. Tra le molte cose, a un certo punto veniva rimessa in scena la crocifissione con i consueti personaggi da film di Ciprì e Maresco e con le consuete grottesche volgarità. Il film fu poi sbloccato in appello e distribuito.
Dopo il film successivo, Il ritorno di Cagliostro, girarono un documentario su Franco e Ciccio intitolato Come inguaiammo il cinema italiano e poi si separarono. Daniele Ciprì diventò un apprezzatissimo direttore della fotografia e ha diretto in prima persona un paio di film, di stile diverso dai lavori con Maresco, che invece ha continuato a girare in Sicilia nel modo in cui lo ha sempre fatto. In Un film fatto per Bene viene precisato che la separazione tra i due fu dovuta alla sempre maggiore difficoltà di lavorare con Maresco, outsider dell’industria e sempre più instabile.



