L’eccezionale diffusione di una lingua indigena in Paraguay
Il guaranì è sopravvissuto alla colonizzazione e al predominio del castigliano, e oggi è parlato dal 70% dei paraguaiani

Nel 2008 l’allora ambasciatore statunitense in Paraguay, James Cason, ricevette da una donna un pacco contenente 271 numeri della rivista Ysyry, pubblicata tra il 1942 e il 1995. “Ysyry” significa “acqua che scorre” in guaranì, una lingua di derivazione indigena ancora ampiamente diffusa in Paraguay. La rivista conteneva migliaia di poesie e canzoni scritte in guaranì, castigliano e in un misto delle due lingue anche noto come japorà. L’ambasciatore James Cason conservò gelosamente quel materiale che, grazie al lavoro di alcune fondazioni locali, è stato digitalizzato e reso pubblico lo scorso 25 agosto, in occasione della giornata nazionale della lingua guaranì.
In Paraguay di iniziative simili se ne organizzano spesso. La lingua guaranì è infatti una parte importante dell’identità nazionale. Non solo fa parte della storia delle popolazioni indigene che abitarono queste zone prima dell’arrivo degli spagnoli nel Sedicesimo secolo, ma oggi è riconosciuta come lingua nazionale, viene insegnata nelle scuole ed è parlata anche al di fuori delle comunità di discendenti dei nativi. Secondo l’enciclopedia Britannica, il nome stesso del paese – Paraguay – deriva da una parola guaranì che significa “il fiume che dà vita al mare”.
La cosa particolare è che è una lingua parlata da quasi il 70 per cento degli abitanti del Paraguay, che sono 6,1 milioni. Ha quindi una diffusione notevole, che va ben al di là delle comunità discendenti dalle popolazioni indigene, che contano 140mila persone circa. Di tutti quelli che parlano il guaranì, il 30 per cento ce l’ha come lingua esclusiva (parla solo quella), mentre il 38,6 lo usa insieme al castigliano. Molte altre lingue parlate da gruppi indigeni del Paraguay stanno invece scomparendo, e la sopravvivenza è spesso garantita da poche decine di persone.
Il guaranì è diffuso, anche se in misura minoritaria, in altri paesi dell’America Latina come Argentina, Brasile e Bolivia e dal 2006 è lingua ufficiale del Mercosur, il mercato comune sudamericano.

Donne indigene durante una protesta contro l’appropriazione delle terre dei nativi da parte dello stato ad Asunciòn, 28 febbraio 2024 (AP Photo/Jorge Saenz)
Anche se qualcuno parla ancora versioni del guaranì più simili alla lingua originaria dei nativi, nella maggior parte dei casi il guaranì che si parla oggi è il risultato di una mescolanza con la lingua dei colonizzatori, cioè con il castigliano.
Secondo Miguel Verón, uno studioso di guaranì sentito dal Guardian, questo è uno dei motivi per cui la lingua è sopravvissuta all’arrivo degli spagnoli. Le popolazioni indigene che parlavano guaranì vi erano così affezionate che si rifiutarono di imparare il castigliano, costringendo i colonizzatori ad apprenderlo per poter comunicare con loro. Per portare avanti la loro missione evangelizzatrice, francescani e gesuiti dovettero trascrivere i loro sermoni in guaranì, usando l’alfabeto latino, e parteciparono così involontariamente alla sua preservazione.
A lungo fu comunque una lingua marginalizzata e discriminata, non solo perché era quella dei nativi ma anche perché veniva parlata soprattutto nelle zone rurali ed era quindi associata alle classi più povere e meno istruite. Nonostante sia stata dichiarata per la prima volta lingua nazionale con la Costituzione del 1967, negli anni della dittatura militare del generale di origini tedesche Alfredo Stroessner, tra il 1954 e il 1989, parlare guaranì era fonte di stigma e poteva portare a subire umiliazioni e violenze.
Nel 2018 l’attivista paraguaiana Porfiria Orrego Invernizzi raccontò al New York Times che gli insegnanti erano soliti costringere i bambini che parlavano guaranì a inginocchiarsi su grossi grani di sale e mais e a indossare pannolini come forma di umiliazione, e a volte venivano addirittura picchiati. In quegli anni, secondo l’ex ministra delle Politiche linguistiche Ladislaa Alcaraz, la lingua è sopravvissuta soprattutto grazie alle famiglie che la parlavano. Per molte di loro la lingua era una questione identitaria, e si impegnarono a trasmetterla alle generazioni successive.

Quello che resta di una statua dedicata al generale Alfredo Stroessner, ex presidente del Paraguay e dittatore fino al 1989, rimossa dopo la fine della sua dittatura, 14 agosto 2024 (AP Photo/Jorge Saenz)
Le cose iniziarono a migliorare dopo la fine della dittatura. La Costituzione democratica approvata nel 1992 dichiarò il Paraguay un paese ufficialmente bilingue e diede al guaranì la stessa dignità del castigliano, rendendo obbligatorio il suo insegnamento nelle scuole.
Nel 2010 il governo di sinistra di Fernando Lugo istituì per legge l’Accademia della lingua guaranì, che aveva l’obiettivo di promuovere la lingua tra le altre cose attraverso la pubblicazione di una grammatica e di un dizionario ufficiali (fino a quel momento il guaranì era stato trasmesso soprattutto per via orale). A partire dal 2021 fu obbligatorio per enti pubblici e istituzioni comunicare in entrambe le lingue.
Come in altri paesi, anche in Paraguay le popolazioni indigene continuano però a essere discriminate. Secondo i dati messi insieme dall’International Work Group for Indigenous Affairs, un’organizzazione che si occupa dei loro diritti, in queste comunità ci sono tassi di disoccupazione, povertà e analfabetismo più alti che nel resto della popolazione, e spesso l’accesso a servizi di base come la fornitura di acqua o la sanità è più difficoltoso.
Lino Trinidad Sanabria, autore tra le altre cose di vari dizionari di lingua guaranì, ha detto alla rivista Interferencia che sebbene il guaranì sia parlato dalla maggioranza della popolazione del Paraguay, e sia oggi più tutelato e meno stigmatizzato di un tempo, il castigliano resta la lingua privilegiata della minoranza «che detiene ancora il potere sociale politico e fondamentalmente economico» nel paese.



