La tassa sulla memoria degli smartphone che forse non sapete di pagare
Serve a compensare i diritti d'autore di canzoni o video memorizzati, anche se le abitudini sono cambiate: e nonostante questo potrebbe aumentare

Nelle prossime settimane il ministero della Cultura dovrà ricalcolare – probabilmente aumentandolo – l’importo di una specie di tassa che le aziende tecnologiche conoscono bene. Si chiama compenso per copia privata, può arrivare anche a più di 20 euro, e bisogna pagarla all’acquisto di qualsiasi dispositivo dotato di memoria, come smartphone, computer, chiavette usb e hard disk.
È un importo che lo Stato raccoglie da oltre 30 anni per pagare i diritti d’autore di tutti quei contenuti audio e video che si potrebbero memorizzare sullo smartphone o su un computer, come una canzone. Le risorse raccolte servono a compensare l’industria culturale per le eventuali copie private, appunto, ma l’aumento di questa tassa è criticato e ritenuto obsoleto dai produttori dei dispositivi, visto che ormai praticamente nessuno salva contenuti audio e video sui dispositivi: vengono consumati prevalentemente utilizzando piattaforme di streaming o siti, e di questo il ministero non tiene conto.
Il compenso per copia privata non è propriamente una tassa, ma una tariffa: la differenza è che mentre le tasse si pagano per un servizio che poi rende lo Stato, la tariffa si paga per servizi che possono essere forniti anche da enti privati. Il compenso per copia privata esiste in diversi paesi europei, e in Italia fu introdotto nel 1992 per compensare il diritto d’autore di film o canzoni registrati in cassetta per uso privato. Non si paga sul contenuto, impossibile da tracciare, ma sui supporti che si usano per registrare o memorizzare.
Nella pratica la versano allo Stato le aziende produttrici dei dispositivi, quindi quelle che prima producevano i videoregistratori e che oggi producono smartphone e altri dispositivi con memoria. Pagano cifre diverse a seconda del prodotto e della dimensione della memoria. Sono comunque un forfait, cioè un importo fisso che non tiene conto del prezzo dei prodotti: attualmente è per esempio di 6,9 euro per ogni smartphone da 128 gigabyte o di 6,44 euro per ogni hard disk esterno da 500 gigabyte.
Il contributo viene versato per ogni bene venduto, e nella quasi totalità dei casi le aziende lo scaricano sul prezzo finale: a pagarlo sono quindi le persone che comprano, che però non possono accorgersene perché non c’è una distinzione netta sulle ricevute, come accade per esempio con l’IVA. Secondo i dati di Anitec-Assinform, associazione di produttori di dispositivi tecnologici aderente a Confindustria, lo Stato raccoglie ogni anno una cifra poco inferiore ai 150 milioni di euro.

L’Apple Store di piazza Liberty a Milano, il 24 luglio 2018 (ANSA/MATTEO BAZZI)
SIAE, l’ente pubblico italiano che si occupa della tutela del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, e che fino al 2023 riscuoteva il compenso per copia privata, dice che il gettito della tassa è poi ripartito così: per quanto riguarda i contenuti audio, ne dà il 50 per cento agli autori e l’altro 50 diviso in parti uguali tra i produttori e gli artisti interpreti; per i contenuti video invece ne dà il 30 per cento agli autori e il 70 diviso in parti uguali tra produttori e interpreti. Dal 2023 della riscossione del compenso si occupa la Fondazione Copia Privata Italia, e della distribuzione alle aziende si occupano le diverse associazioni di categoria.
Ogni tre anni il ministero della Cultura ricalcola queste tariffe, e generalmente le aumenta. L’ultimo ricalcolo risale al 2020. In ritardo di due anni, il ministero della Cultura ha pubblicato uno schema di decreto ministeriale dal quale sembra che le tariffe verranno aumentate in media del 20 per cento per tutti i prodotti: entro il 15 settembre accoglierà i pareri delle associazioni interessate, e poi pubblicherà la versione definitiva. Se gli aumenti saranno confermati il risultato sarà che con ogni probabilità le aziende aumenteranno il prezzo dei loro dispositivi per i consumatori.
Il problema non è tanto per i prodotti di più alto valore, come appunto smartphone o computer, su cui una tariffa nell’ordine di una decina di euro non fa molta differenza. Ma lo è per quelli che costano meno, come le chiavette usb o gli hard disk. Un hard disk da 500 gigabyte si trova in vendita intorno ai 30 euro, e le aziende devono pagarci un compenso per copia privata di 6,44 euro, che con il ricalcolo diventerà di 7,52 (circa un quarto del valore del prodotto).
Da una parte ci sono le associazioni dell’industria culturale che ricevono queste somme e beneficiano di questi aumenti. Dall’altra ci sono le associazioni dei produttori di dispositivi che invece si ritengono danneggiate. Sono generalmente molto critiche sugli aumenti delle tariffe, e dicono anzi che andrebbero ridotte visto il cambiamento del consumo di prodotti audio e video. Il sito specializzato in prodotti tecnologici DDay.it ha lanciato una petizione per l’abolizione del compenso.
A questo dibattito che va avanti da anni, il decreto ministeriale in discussione ha aggiunto un nuovo pezzo: per la prima volta prevede che il compenso per copia privata sarà applicato anche ai dispositivi ricondizionati, cioè a quelli usati ma rimessi a nuovo, su cui il compenso è già stato pagato col primo acquisto, e ai servizi cloud dove il ministero ritiene che gli utenti potrebbero salvare i loro contenuti. I servizi cloud sono quei sistemi di archiviazione esterna che consentono di conservare file e averli disponibili sempre e ovunque tramite internet, come Google Drive o Dropbox.



