Il rapporto di Human Rights Watch sul bombardamento israeliano contro Evin
Ossia la prigione simbolo del regime iraniano, colpita a giugno: aggiunge informazioni sulle persone uccise, sui danni e su ciò che successe dopo

Human Rights Watch (HRW), una delle più note ong internazionali che si occupano di diritti umani, ha pubblicato un report sulle conseguenze del bombardamento israeliano sulla prigione iraniana di Evin, a Teheran, lo scorso 23 giugno, cioè il giorno prima che finisse la guerra combattuta per 12 giorni tra Israele e Iran. Sull’attacco sono state diffuse le versioni dei due governi, e nelle settimane successive sono state pubblicate delle ricostruzioni giornalistiche. Il rapporto di Human Rights Watch raggruppa le informazioni disponibili e aggiunge dettagli sulle modalità in cui è stato condotto, sui danni che ha causato e su cosa è successo dopo ai detenuti.
La prigione di Evin è operativa dal 1972, e già prima della Rivoluzione islamica del 1979 vi venivano rinchiusi dissidenti politici. Con la creazione della Repubblica Islamica dell’Iran, una teocrazia guidata da religiosi sciiti, la prigione è diventata un temuto simbolo del regime: i detenuti sono spesso rinchiusi senza delle reali accuse ma per motivi politici o ideologici, vivono in celle comuni sovraffollate e in pessime condizioni igieniche, oppure in celle di isolamento piccole e senza finestre. Tra dicembre e gennaio è stata detenuta a Evin per circa tre settimane anche la giornalista italiana Cecilia Sala.
Un video di quei giorni che mostra il fumo e i danni
Secondo i media e i funzionari iraniani, nell’attacco del 23 giugno sono state uccise almeno 80 persone tra personale del carcere, detenuti, familiari in visita e persone che si trovavano nelle vicinanze. L’ong sostiene che il numero sia probabilmente più alto, sulla base delle testimonianze delle famiglie di alcuni prigionieri, inclusi alcuni uccisi quel giorno. I media di stato iraniani hanno reso nota l’identità, di 41 persone uccise tra il personale carcerario, 13 che facevano lì il servizio civile e 5 detenuti. BBC News ha verificato che le persone detenute uccise sono state di più, almeno 7.
– Leggi anche: La prigione di Evin è un simbolo del regime iraniano
Human Rights Watch ha scritto che al momento dell’attacco a Evin c’erano più di 1.500 persone detenute. Centinaia di loro sono oppositori politici, dissidenti, giornalisti e cittadini stranieri, perseguitati dal regime iraniano e detenuti in condizioni disumane. Sulla base di questo l’ong ha accusato Israele di aver bombardato un luogo che non era considerabile un obiettivo militare, peraltro senza diramare prima avvertimenti (cosa che aveva fatto in altre occasioni durante la guerra, per esempio ordinando l’evacuazione di alcune zone di Teheran) e a un orario in cui erano consentite le visite, quindi durante il quale il carcere sarebbe stato più frequentato.

Un ritratto di Ruhollah Khomeini, guida suprema dell’Iran tra il 1979 e il 1989, su un muro di Evin, il 29 giugno (AP Photo/Vahid Salemi)
Analizzando i video disponibili e le fotografie satellitari, Human Rights Watch ha identificato almeno otto punti del complesso di Evin colpiti dal bombardamento. Il 23 giugno Israele aveva detto di aver colpito la porta della prigione, anche per dare l’idea di un attacco mirato e soprattutto simbolico.
L’ong ha riscontrato danni più estesi: oltre agli ingressi a nord e sud (quello principale), è stato distrutto il centro per i visitatori, da cui passano i familiari dei detenuti per portar loro vestiti e medicine. Sono stati danneggiati anche un edificio che ospita i magistrati e diversi padiglioni della parte centrale del complesso, dove si trovano l’infermeria, la cucina e vari reparti di detenzione, cioè con le celle.
Il vicedirettore di Human Rights Watch per il Medio Oriente, Michael Page, ha detto che «gli attacchi […] hanno ucciso decine di civili senza un evidente obiettivo militare, in violazione del diritto e in quello che è un apparente crimine di guerra». Page ha spiegato che l’attacco ha messo a rischio la vita delle persone detenute, che già vivevano in condizioni pessime e in molti casi per accuse strumentali.

L’infermeria di Evin danneggiata dall’attacco, il 29 giugno (AP Photo/Vahid Salemi)
Il 23 giugno le autorità israeliane avevano citato motivazioni militari solo in un secondo momento, concentrandosi sugli obiettivi simbolici – e quindi propagandistici – dell’attacco. I ministri israeliani Israel Katz (Difesa) e Gideon Sa’ar (Esteri) avevano detto che l’intento era proprio colpire luoghi legati al regime e al suo apparato repressivo, in una fase della guerra in cui il governo israeliano sperava di indebolire il regime iraniano al punto da farlo crollare (con il cosiddetto “regime change”).
Human Rights Watch inoltre ha denunciato che, dopo l’attacco a Evin, i prigionieri sono stati trasferiti in due altre grosse carceri della provincia di Teheran: quella femminile di Qarchak e quella maschile di Fashafouyeh, entrambe sovraffollate e note per le frequenti violazioni dei diritti umani. Dopo l’attacco i media iraniani avevano detto che una parte dei prigionieri di Evin era stata trasferita in altri penitenziari, ma non si era saputo quanti né dove.

I danni dell’attacco israeliano alla prigione di Evin, in una foto del 1° luglio (Majid Saeedi/Getty Images)
Human Rights Watch ha ricostruito che le forze di sicurezza iraniane, mandate a Evin subito dopo l’attacco, hanno minacciato con le armi i prigionieri da trasferire, senza dar loro tempo di recuperare gli effetti personali, e hanno picchiato quelli dei reparti maschili. Venerdì scorso alcuni detenuti sono stati riportati a Evin, dove secondo i media iraniani sono state costruite nuove strutture.
Dopo l’attacco del 23 giugno le famiglie di molte persone detenute non hanno più saputo nulla di loro. Tra questi ci sono anche cittadini stranieri, di almeno nove paesi. In quei giorni si era parlato del caso di due francesi, Cécile Kohler e Jacques Paris, detenuti da tre anni con accuse di spionaggio, di cui il governo francese aveva chiesto la liberazione. Per più di una settimana non si erano avute loro notizie: a luglio un diplomatico francese ha potuto incontrarli, ma non si sa dove siano detenuti.



