Le città in agosto non si svuotano più come una volta

«Con le sue visioni metafisiche alla De Chirico, il mese creava una cesura nel continuum dell’anno, una pausa in cui tutti potevano prendere fiato, soprattutto chi restava. Era come una lunga notte calda e illuminata, in cui il mondo chiudeva in attesa di riaprire a settembre»

Particolare di La città ideale, dipinto tra il 1470 e il 1490 e attribuito a molti artisti del periodo. Nonostante l'assenza di umani, è impossibile garantire che fosse agosto (Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, via Wikimedia)
Particolare di La città ideale, dipinto tra il 1470 e il 1490 e attribuito a molti artisti del periodo. Nonostante l'assenza di umani, è impossibile garantire che fosse agosto (Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, via Wikimedia)
Elena Nieddu
Elena Nieddu

Giornalista, vive a Genova. Ha lavorato per Avvenire, la Repubblica e per Il Secolo XIX. Collabora con le testate Credere e Jesus dei Periodici San Paolo. Per Ensemble Edizioni ha pubblicato la raccolta di racconti Senza pelle.

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In città d’agosto non si usciva neanche a prendere il gelato, tanto i bar erano chiusi. Negli anni Ottanta ascoltavamo Self Control e Fotoromanza. Dormicchiavamo nei poggioli, le tende tirate giù, in prendisole; sfogliavamo giornaletti, incollavamo fotografie; aspettando. A volte bisognava uscire per forza a comprare qualcosa, ma tutti i negozi erano chiusi. Bisognava trovare quelli aperti. In quelle passeggiate di periferia le ombre erano nere e il sole pareva fissato con una puntina da disegno. Nelle vetrine del centro i manichini erano nudi; la fontana della piazza principale spenta, in un deserto di pietra.

Oggi la fontana di piazza De Ferrari a Genova è circondata da fontanelle che invitano i turisti al pediluvio e infatti è piena di turisti che fanno il pediluvio. Anche la piazza è cambiata. La sera, sulla facciata del palazzo della Regione si accende uno schermo luminoso che racconta cosa di bello c’è in giro. Anche i residenti fanno cose da turisti; i turisti cercano di fare cose da residenti. C’è sempre gente per le strade. I supermercati sono sempre aperti anche in periferia. La città non si svuota e non si libera mai del tutto, tranne che in certi quartieri, non languisce, o forse lo fa solo nei giorni attorno a Ferragosto.

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Ora, io credo che d’agosto la città concedesse ai pochi rimasti un privilegio: vederla senza veli. Con le sue visioni metafisiche alla De Chirico, agosto creava una cesura nel continuum dell’anno, una pausa in partitura in cui tutti potevamo prendere fiato, soprattutto chi restava. Era come una lunga notte calda e illuminata, in cui il mondo chiudeva in attesa di riaprire a settembre. O una grande domenica. Anche il lavoro nelle aziende era pianificato “da settembre a luglio”; si prevedeva in anticipo quella voragine lunga trentuno giorni, in cui il mondo – anche quello interiore – era fatto di solitudine, ma sembrava diverso. Se oggi le cose sono cambiate è perché alla base di quel vuoto c’erano precise ragioni storiche che avevano effetti negativi sull’economia e probabilmente anche sulla società, ma suscitano un certo rimpianto in termini estetici e forse anche psicologici.

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Noi che restavamo in città ci mettevamo addosso quel che capitava, uscivamo, se proprio dovevamo, anche in ciabatte. Eravamo casual, per non dire sciatti. Non solo il vuoto, anche il caldo denuda e mostra le persone, fa apparire i corpi e il disagio mentale. Per le vie assolate capitava di incontrare individui bizzarri che avevano esagerato con l’alcol o con la tristezza, e gridavano: ma eravamo consci di non essere poi tanto diversi da loro.

A differenza che durante la pandemia da Covid-19, il vuoto d’agosto era gagliardamente vuoto: non succedeva niente perché tutto poteva succedere. Tra i pochi rimasti scattava qualcosa di simile a un sentimento di solidarietà tra sopravvissuti, da cui infatti potevano nascere amorazzi improbabili, che spesso finivano nel nulla o morivano nei pianti al primo temporale. Quando, la sera, il caldo dava tregua, si spegnevano i ventilatori – i condizionatori non c’erano – e si usciva alla ricerca di incontri, magari – non c’erano neanche i telefonini. Si stava sulle altalene dei giardinetti, sulle panchine in piazza, nei pochi bar aperti, davanti al jukebox o al frigo dei gelati, o intorno ai tavolini di plastica piazzati per strada accanto al camion delle angurie.

La città d’agosto era il lato oscuro dell’estate: il contraltare povero dei palloni gonfiabili, delle piscine turchesi, delle cacce al tesoro in spiaggia. Ma aveva una bellezza poliedrica che molti scrittori hanno declinato in varie sfumature. Giorgio Scerbanenco ha usato quel senso di oppressione come motore di alcune sue storie: Preludio per un massacro estivo in Milano calibro 9, vicenda di abusi in una casa di riposo, ambientata nell’estate del 1966, arriva al suo climax proprio nel mese di agosto, mentre Venere privata, che si svolge tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto, gioca sul contrasto fra la Brianza «sempre fresca» e le piastre roventi di Rogoredo, Metanopoli e del centro: «Arrivò in via dei Giardini e trovò da parcheggiare la Giulietta comodamente, perché in quei roventi giorni di agosto la metropoli non era giudicata più abitabile da un gran numero di cittadini che, chissà perché, la trovavano abitabilissima con la nebbia, lo smog e la neve».

È ancora il sole, questa volta di Roma, ad abbacinare Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita, in particolare nel primo racconto, il Ferrobedò. Qui il Riccetto e gli altri suoi amici rubacchiano tavolini e copertoni dalla ditta Ferrobeton, sotto un sole nominato una dozzina di volte, troppe per essere solo una comparsa: «Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c’era silenzio, ma era carico come una mina»; «Era ancora prestissimo: la una e mezza, nemmeno, e a Roma non c’era che il sole».

All’inizio di Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo il caldo spietato di Roma accompagna il Libanese in una passeggiata poco piacevole dal Testaccio all’Infernetto, dove va a trovare il Dandy. La desolazione pervade tutto il racconto: «Il sudore di agosto gli appiccicava la camicia nera al torace villoso. Più strada faceva e più si incazzava con il pischello». Andrea Camilleri riempie il vuoto di sarcasmo in La vampa d’agosto dove Montalbano “copre” le ferie di Mimì Augello, ma confida in quelle di tutti, anche dei criminali: «Qua d’agosto, con il caldo che fa, macari gli assassini aspettano l’autunno».

Nella Torino raccontata da Fruttero & Lucentini in La donna della domenica ai primi di giugno lo spopolamento è già in atto, almeno nei quartieri bene, ma a causa delle indagini del commissario Santamaria sull’omicidio dell’architetto Garrone, l’alta borghesia è costretta a rimandare la partenza per le ferie. La città è fotografata da uno dei personaggi, Massimo Campi, che descrive i suoi passi attraverso il centro cittadino per raggiungere la casa del compagno: corso Vittorio, con «la lunga galleria dei portici (…), regolare, grigia, senza speranza» e «le vetrine della Standa (…) erano il Trionfo dell’Estate, l’Allegoria delle Ferie». Salendo le scale di un palazzo di via Berthollet, incrocia «una ragazza che scendeva con due grosse valigie di plastica bianca e marrone». «Già partono, pensò irritato, già si sentono il fuoco sotto il c…».

Negli anni Sessanta la città era già molto diversa dalla Torino che Cesare Pavese descrive in una pagina di Il diavolo sulle colline. Nei giardinetti davanti a Porta Nuova regna lo squallore: «Ci sono i cessi a pochi passi, e per quanto la notte sapesse di fresco e d’estate, regnava in quel luogo un tanfo, un fortore, che sentiva della lunga giornata di sole e movimento e frastuono, di sudore e di asfalto consunto, di folla senza pace. Verso sera su quelle panchine – oasi magra nel cuore di Torino – si siedono sempre donnette, solitari, venditori ambulanti, spiantati, e si annoiano, aspettano, invecchiano».

Quel tanfo assomiglia allo sfacelo che avvolge La morte a Venezia di Thomas Mann. Siamo all’inizio dell’estate, ma lo scrittore Aschenbach se ne accorge ancor prima di scendere all’Hotel des Bains, ascoltando i gondolieri litigare: «Ma la quiete della città lagunare pareva accogliere blandamente le loro voci, smaterializzarle, disperderle nelle acque». La dolcezza della prima impressione si disfa via via nella «putrescente laguna»: «Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l’aria era così spessa che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe e cucine – vapori oleosi, nuvole di profumo e molti altri –, restavano sospesi senza dissolversi». La città entrerà in risonanza con lui, fino all’abbandono della morte.

È come se il caldo avesse contemporaneamente il potere di rallentare movimenti e riflessi, ma eccitare i desideri. «Mi piace New York nei pomeriggi estivi, quando non c’è nessuno. Ha qualcosa di molto sensuale, troppo maturo», insinua Jordan, la campionessa di golf di Il grande Gatsby. È proprio la canicola urbana a innescare la tragedia. Gatsby, Daisy, Tom e Jordan finiscono in un salottino dell’Hotel Plaza «grande e soffocante», nel quale dovrebbero «dimenticarsi del caldo»; ricorderanno, invece, il loro destino. Seppur spopolata, dunque, la New York del grande Gatsby non è deserta, a differenza di quella messa in scena da Billy Wilder nel 1955 in Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch), dove il cinematografo offre rifugio a Tom Ewell e Marilyn Monroe, che per avere un po’ di refrigerio «tiene l’intimo nel freezer» ed è pronta a godersi la «delicious breeze» che soffia da una grata della metropolitana.

Nei film italiani, invece, in agosto le città sono un deserto. Le scene iniziali di Il sorpasso di Dino Risi del 1962 raccontano Roma spopolata alla vigilia di Ferragosto, con Vittorio Gassman, alias Bruno Cortona, che infila il braccio nella saracinesca di un bar ovviamente chiuso per tentare di fare una telefonata, mentre l’ultima serranda aperta della via viene chiusa al suo passaggio. Quasi vent’anni dopo, nel 1980, è ancora desolatamente vuota la Roma raccontata in Un sacco bello da Carlo Verdone, in cui Enzo convince Sergio ad andare con lui in Polonia. Tredici anni dopo, in Caro diario, Nanni Moretti gira in Vespa per la città, accompagnato dalla colonna sonora di The Köln Concert di Keith Jarrett, fin quando si ritrova verso «il posto dove hanno ammazzato Pasolini». Nel 2008, in Pranzo di ferragosto, Gianni Di Gregorio trasforma Roma in un’oasi di amicizia per le signore lasciate in città dai parenti in vacanza.

Però. Il vuoto non è del tutto sparito dalle città. In centro e nei quartieri residenziali l’agosto assomiglia a quello di una volta: praterie di parcheggi, saracinesche giù, ronzio di trapani dagli appartamenti, silenzi attraversati dai pappagalli. Sono zone abitate da persone anziane con la seconda casa chissà dove o da chi può ancora andare in vacanza un mese. E, mentre si passa fra quei bei palazzi, tanto amati d’inverno quanto dimenticati d’estate, viene in mente Marcovaldo, il manovale di Italo Calvino, che “la villeggiatura” la passava sdraiato su una panchina di un parchetto di città, sotto una cupola di ippocastani, cercando un po’ di fresco in una notte senza sonno, richiamato all’ordine dal camion della spazzatura, quando è l’ora di andare al lavoro. La vacanza, per Marcovaldo, era un’illusione. E per molti lo è di nuovo.

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