Pensieri sull’enigma città/campagna

«Sono campagnolo per indole ma cittadino per convinzione e visione del mondo. Sono rurale e boschivo per sensibilità, ma sono politicamente urbano. E per tutta la vita ho gestito questa schizofrenia»

Tre sostenitrici con la maglietta «Farmers for Trump» («Agricoltori per Trump») prima del comizio del medesimo a Omaha, Nebraska. 27 ottobre 2020. (AP Photo/Nati Harnik)
Tre sostenitrici con la maglietta «Farmers for Trump» («Agricoltori per Trump») prima del comizio del medesimo a Omaha, Nebraska. 27 ottobre 2020. (AP Photo/Nati Harnik)
Michele Serra
Michele Serra

È nato a Roma nel 1954, ha vissuto quasi sempre a Milano e ora abita in Appennino. Giornalista, scrittore, autore teatrale e televisivo, scrive su Repubblica la rubrica L'amaca e sul Post la newsletter Ok Boomer!.

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Da bambino, quando mi portavano in campagna, non volevo tornare a casa. Dove c’erano bestie, boschi, campi, torrenti da guadare, pagliai nei quali sprofondare, pollai nei quali insudiciarsi, mi sentivo felice. Nella mia dimensione. I cani, specialmente i cani, mi attraevano come se fossi cane anche io. Ricordo ancora tutti i nomi dei cani della mia infanzia, Flick, Heidi, Tell, Ferro, Cocky, Arno; nella casa milanese dove sono cresciuto non ce n’erano (mia madre non amava gli animali), ma ho passato vacanze lunghe e brevi a stretto contatto con i cani degli altri. Riuscivo ad avvicinare perfino i cani alla catena, usanza biasimevole del mondo rurale non ancora debellata, vincendo la loro e la mia paura. Cani da pastore, da salotto, da caccia, da guardia, ogni cane era mio fratello – e lo è tuttora.

Se esiste un’indole (una serie di inclinazioni e di attitudini innate), la mia è vivere in stretta connessione con la natura. Le bestie e le piante. Semmai serbassimo memoria di vite precedenti, io devo essere stato montanaro, agricoltore, taglialegna, guardaboschi, zoologo, cacciatore, pastore, botanico, naturalista – comunque qualcuno con le mani e lo sguardo affondati nella materia viva che ricopre la superficie del pianeta. Quando sono in città, la natura mi manca fisicamente. Per questo parlo di indole: per me la natura è una necessità sentimentale, oltre che un’esigenza fisica. Non è mai stata una scelta culturale.

Anzi: la mia formazione culturale contraddice severamente la mia indole. È urbana. Sono un cittadino, penso da cittadino, e per entrare subito nel merito del discorso: sono un citoyen. La città è la Polis, l’agorà, l’incontro, il dibattito, il corteo, il mercato, il teatro, il parlamento, l’università. La città è la democrazia. È le riforme e l’informazione, a volte la rivoluzione. Il borgo ha dato nome alla più grande classe rivoluzionaria della storia moderna (l’unica?), la borghesia. Il termine borghesi, gente del borgo, nasce in contrapposizione ai contadini, quelli che abitano nel contado. La Rivoluzione francese (banalizzo, ma neanche tanto) è la vittoria della città sulla campagna, della borghesia rivoluzionaria sui paesani reazionari e lealisti, di Parigi sulla Vandea. Dell’uguaglianza orizzontale tra concittadini come principio-cardine, in storica violazione della tradizione verticale delle organizzazioni sociali precedenti.

Riassumendo, e scusandomi per la serie di semplificazioni appena messe nero su bianco: io sono campagnolo per indole ma sono cittadino per convinzione, per idee, per visione del mondo. Sono rurale e boschivo per sensibilità, ma sono politicamente urbano. Per tutta la vita ho gestito questa schizofrenia come meglio potevo: aggiungendo la città alla campagna e viceversa. Barcamenandomi tra cultura e natura. Tra ideologia e indole. Nella seconda parte della mia vita – dai quarant’anni in poi – la campagna ha prevalso, però mai schiodandomi del tutto dalla città, senza la quale, per altro, non potrei tenere ben viva la socialità, che è una fonte decisiva della mia scrittura giornalistica (la scrittura letteraria ne ha meno bisogno, della socialità. È una scrittura più solitaria, meno soggetta a dover rendere conto del divenire politico). Posso dire, insomma, di essere stato un solutore abbastanza abile dell’enigma “città/campagna”. Certamente favorito dal mio tipo di lavoro – scrivere – e dal formidabile salto di qualità tecnologico che consente la connessione anche nei luoghi più sperduti.

Ma se scrivo di questo argomento non è certo per vantare la mia maniera personale di ricomporre una spaccatura. È per dire che questa spaccatura, che come si usa dire ho vissuto sulla mia pelle, mi sembra sempre più drammatica, più allarmante e in fin dei conti più irrimediabile. Città e campagna sempre più lontane l’una dall’altra e inconciliabili l’una con l’altra. Un macro-dato è la differenza impressionante (in tutto l’Occidente, ma non solo) tra il voto delle grandi città e quello, diciamo così, di tutto ciò che non è città, le campagne e i villaggi, le vallate e i crinali, le “zone interne” secondo la dicitura burocratica italiana.

Se votassero solo le grandi città la destra cosiddetta populista sarebbe detronizzata ovunque. Trump non sarebbe alla Casa Bianca, Erdogan perderebbe la Turchia, la Polonia sarebbe laica ed europeista, non ci sarebbe stata Brexit, Orban soccomberebbe al pride di Budapest, gli ayatollah sarebbero scacciati dalle ragazze con i capelli sciolti, il lepenismo non vedrebbe l’Eliseo nemmeno in sogno, in Italia non sarebbero mai andati al governo Meloni e Salvini. Se invece votasse solo la non-città, i progressisti sarebbero ovunque una minoranza ammaccata, e le destre nazionaliste e populiste governerebbero saldamente in tutta Europa, nessun Paese escluso.

– Leggi anche: Le campagne elettorali fuori dalle grandi città stanno cambiando

Stiamo parlando di numeri. Non di pregiudizi. A New York Trump, che ha stravinto nelle aree rurali, non è arrivato a un terzo dei voti. Le tre maggiori città lombarde (Milano, Bergamo, Brescia) sono amministrate dal centrosinistra, ma la Regione Lombardia è saldamente di centrodestra. Istanbul e Ankara sono inespugnabili dall’islamismo di Erdogan. La cosiddetta primavera araba è stata un fenomeno strettamente urbano, nelle campagne non ne è arrivata nemmeno l’eco. Nelle campagne comandano gli imam e i maschi anziani, il resto è ininfluente. E così via.

Sarà la globalizzazione, che punta dritta alle City e ai grattacieli e sorvola le campagne senza lasciar cadere che poche briciole; sarà l’immigrazione che le città stemperano e assorbono e i piccoli centri evidenziano; sarà che i servizi inseguono le grandi concentrazioni di persone e le persone si concentrano laddove ci sono i servizi: sta di fatto che l’isolamento, la sensazione di essere tagliati fuori, l’oggettiva fatica di reggere l’urto dei tempi, al di fuori dei grandi centri urbani rendono le persone più ostili a ciò che chiamiamo progresso (da cui: progressisti), più diffidenti e propense a rinchiudersi, a rimpiangere un passato idealizzato, a coltivare tradizioni spesso improbabili pur di difendersi da novità che le scavalcano. In “Make America Great Again” la parola più significativa è “again”. Torniamo grandi “come una volta”, come nel mitizzato passato nel quale eravamo tutti più felici. Il presente, questo presente, non è stato pensato per noi.

In un recente incontro pubblico nella sua valle appenninica di provenienza, ho sentito Pier Luigi Bersani dire che uno degli errori esiziali della politica italiana, e della sinistra in particolare, è stato accettare l’abolizione delle Province. «Erano la sola istituzione che riusciva a tenere insieme una città e il suo contado. Nel Medioevo città e contado erano collegati molto meglio di adesso. O la città torna a parlare con la gente del contado e a capire i suoi problemi, o lo strappo non si ricuce più».

A proposito di Medioevo, nel grande affresco trecentesco di Ambrogio Lorenzetti detto “del Buon Governo” le mura di Siena sono osmotiche, non dividono ma collegano: le attività urbane e rurali si incrociano, si toccano, un pastore esce dalla città con le sue pecore diretto al pascolo, contadini portano uova e pennuti dentro le mura per venderli. Un’unica grande inquadratura comprende armonicamente le pietre urbane e il verde del contado.

Ambrogio Lorenzetti, “Effetti del Buon Governo in campagna”, in “Allegoria del Buon Governo”, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena (via Wikimedia)

Cambiando bruscamente epoca e luogo, nel padiglione che a Riad espone il grandioso progetto “The Line”, metropoli lineare nel deserto lunga trecento chilometri e alta quattrocento metri, opera megalomane del regime saudita che non vedrà mai la luce (tal quale il traghetto per Marte di Elon Musk), l’aspetto più affascinante è che le archistar coinvolte nell’impresa hanno concepito la produzione del cibo, almeno in buona parte, nel cuore della metropoli, con orti, giardini e frutteti accanto a biblioteche e scuole. Un affresco di settecento anni fa e un plastico futuribile dicono la stessa cosa: una società armoniosa non prevede, non ammette la scissione tra la città, luogo della politica e del mercato, e la natura nutrice.

La dialettica tra città e campagna è antichissima e ha prodotto tonnellate di scienza storiografica, sociologica, politologica, filosofica. Il tema, voglio dire, è enorme, e sconsiglia opinioni sbrigative. Ma non credo di sbagliare troppo quando penso che la scissione profonda degli ultimi decenni dipende anche (probabilmente: dipende molto) dal mutamento radicale del ciclo alimentare. L’osmosi tra città e contado, tra chi consuma cibo e chi lo produce, è solo un ricordo che la grande distribuzione alimentare potrebbe cancellare definitivamente.

I tentativi coraggiosi, e politicamente generosi, di ripristinare almeno qualche segmento di quel ciclo antico – i Gruppi di Acquisto Solidale e i mercati contadini rionali che cercano di stabilire un contatto diretto tra consumatori e produttori; le fattorie didattiche, gli agriturismi più o meno autentici – rappresentano appena un piccolo spicchio del gigantesco Impero del cibo costruito sulla separazione definitiva tra mondo rurale e città, con la fettina di pollo incellofanata, l’insalatina già lavata e tagliata, lo sterile, igienico, comodo cibo che esclude dai sensi (la vista, l’olfatto, il tatto) il rapporto diretto con madre natura. Nemmeno si cucina più, nelle metropoli, è più veloce e comodo farsi portare la cena a casa: così che anche il compito di trattare gli alimenti, maneggiarli, prepararli, appartiene sempre meno alla vita quotidiana dei cittadini. Ho accolto con autentico sgomento la notizia, spero falsa o esagerata, che alcune nuove abitazioni americane non prevedono una cucina. Non serve più.

Quel rapporto è omesso per l’evidente comodità di nutrirsi “senza pensieri”, ovvero senza che il peso concreto della natura e anche la sua durezza vengano incellofanati, o consegnati da un rider.  Il nuovo cibo, per poter essere metabolizzato dai suoi utenti, deve perdere la sua storia. Gli allevamenti intensivi, i macelli industriali, la scomparsa dal nostro orizzonte del sangue, del dolore animale, della fatica agricola, rendono il cibo quasi metafisico, qualcosa che non ha più nulla a che fare con la vita, nostra e degli altri: da dove venga, da quali concreti animali, da quali campi, non è più necessario saperlo. Si passa la carta di credito su un ricettore, ed è finita lì.

Ma l’omissione è una coltre sotto la quale tutto ancora germina, si muove e fa rumore. Anche se la città dimentica il contado che la nutre, quel contado ancora esiste, non è stato rimpiazzato da AI capaci di tenere puliti fossi e boschi e tamponare le frane, mantenere vegeti i campi e le vigne, sorvegliare, sia pure con tecnologie moderne, equilibri antichi. Se chiudi gli uffici postali, gli ospedali, le scuole, e ritieni le “zone interne” solamente un mondo residuale da accompagnare al suo inevitabile declino (tale uno studio governativo di pochi mesi fa), vuol dire che le mura tra città e campagna non sono più osmotiche. E che, di conseguenza, la frattura tra i due mondi non è reversibile. Né sarebbe intelligente sperare (ammesso che qualcuno sia così cinico da farlo) che la campagna “si estingua”, tout court, lasciando a soli droni e algoritmi il compito di nutrire l’umanità in apposite aree disabitate.

Secondo i dati Onu la popolazione rurale, nel mondo, è ancora poco meno della metà del totale, anche se il processo di urbanizzazione galoppa: fino al 1950 viveva nelle campagne il 70 per cento della popolazione mondiale, nel 1990 il 55 per cento, solo nel 2009 la popolazione urbana ha superato quella rurale, soprattutto per via delle enormi megalopoli asiatiche e africane. Luoghi che, francamente, non sembrano modelli di “città ideale”.

Infine. Se pensate che sia controproducente, per un citoyen di sinistra come me, preoccuparsi per le sorti dell’enorme serbatoio elettorale delle destre di tutto il mondo, considerate che quanto più la campagna si sentirà coinvolta in processi di cambiamento che attualmente la escludono o la penalizzano, tanto meno sarà reazionaria, tanto più diventerebbe progressista. Se le mura delle città dovessero mai tornare osmotiche, se ne gioverebbero sia i borghesi che i villani, che hanno molte cose da imparare gli uni dagli altri. E la società ricomporrebbe almeno una delle sue scissioni, quella con il mondo naturale.

Per concludere, una piccola proposta di riforma istituzionale. Ci vorrebbe un nuovo bicameralismo: una Camera Urbana e una Camera Rurale. L’una non potrebbe decidere senza un accordo con l’altra. Mi sentirei rappresentato da entrambe.

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