Come un piccolo sciopero ha portato Max Mara ad annullare un grosso investimento

Il progetto del "polo della moda" a Reggio Emilia stava per partire, poi l'azienda ci ha ripensato per ragioni che a molti sembrano vendicative o pretestuose

di Mariasole Lisciandro

Un render del progetto del polo della moda (comune di Reggio Emilia)
Un render del progetto del polo della moda (comune di Reggio Emilia)
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Da mesi un piccolo gruppo di donne è al centro di una grossa storia industriale italiana.

Le donne sono dipendenti della Manifattura San Maurizio, a Reggio Emilia, che fa cappotti per la grande azienda di moda Max Mara, dalla quale dipende praticamente tutto il distretto tessile della zona. Nello stabilimento, controllato dalla stessa Max Mara, lavorano poco più di 200 dipendenti: quasi tutte donne, quasi tutte sarte, quasi tutte di mezza età e quasi tutte lì da sempre.

Lo scorso maggio oltre 50 tra loro hanno scioperato denunciando condizioni di lavoro che ritengono usuranti. Dicono di guadagnare in media 1.300 euro al mese, che quando va bene possono arrivare fino a 1.600: il loro stipendio ha una componente variabile, per cui più capi riescono a fare e più guadagnano, e viceversa.

I Maramotti, la famiglia reggiana che possiede il gruppo Max Mara, le hanno ignorate e non hanno mai voluto parlare né con loro né con i sindacati: le persone a conoscenza di questa vicenda sentite dal Post raccontano che dentro Max Mara – che non aveva scioperi da quarant’anni – i sindacati non sono ben visti. Dalla piccola protesta di queste lavoratrici è iniziata una reazione a catena con conseguenze fuori scala. La principale è che il 30 giugno i Maramotti si sono tirati indietro da un investimento da 110 milioni di euro che era ampiamente avviato e prevedeva la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro, sui quali il comune di Reggio Emilia contava per rilanciare l’economia locale.

I Maramotti si sono tirati indietro – hanno fatto sapere in un comunicato – sconcertati dalle dichiarazioni rese dal sindaco dopo un suo incontro con le lavoratrici in sciopero, e in generale da quello che hanno descritto come «un clima di divisione e strumentalizzazione». Ma al Post risulta che l’azienda si ritenesse offesa anche dal solo incontro del sindaco con una delegazione delle oltre 50 lavoratrici. Per contesto: Max Mara ha circa 6mila dipendenti in tutto il mondo e un fatturato di quasi 2 miliardi di euro.

La sfilata autunno/inverno 2025/2026 di Max Mara, a Milano, a febbraio scorso (AP Photo/Antonio Calanni)

La vicenda è rilevante non solo per la reazione di Max Mara e per i posti di lavoro persi, ma anche perché storicamente i rapporti tra i Maramotti e la politica locale sono molto saldi, mentre ora lo sono meno, perché attorno al sindaco si è creato un caso politico, e infine perché i Maramotti sono una delle famiglie industriali italiane più riservate, e questa è stata una rara occasione in cui invece si è parlato pubblicamente di loro.

Del progetto in questione si discuteva da qualche anno. Riguardava l’area della ex fiera della città, un complesso di edifici in disuso da anni e grande 130mila metri quadrati. Si trova molto vicino alla sede di Max Mara e ai ponti di Calatrava, le grandi strutture bianche molto visibili quando si viaggia sulla autostrada A1 all’altezza di Reggio Emilia e non molto distanti dall’altrettanto imponente stazione bianca dell’alta velocità (il cui progetto peraltro fu in parte finanziato proprio dai Maramotti). L’azienda voleva creare lì un cosiddetto “polo della moda”, un grande centro dove mettere la logistica dei suoi diversi marchi e alcuni showroom e uffici. Trecento dei novecento posti di lavoro previsti dal polo dovevano essere nuove assunzioni.

Il comune, la regione e tutto il distretto vedevano con gran favore il progetto, per ovvi motivi. E lo ritenevano solido e redditizio proprio perché dietro c’era Max Mara, da cui dipende gran parte dell’indotto tessile del territorio. L’azienda aveva trovato un accordo con Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia fino allo scorso anno, e ad aprile del 2024 aveva firmato un contratto preliminare di vendita con la società che possedeva le strutture, che fissava il 30 giugno del 2025 come termine ultimo per il rogito, l’atto che si fa dal notaio con cui avviene il passaggio di proprietà (Max Mara ha annunciato il ritiro il 30 giugno stesso, tra la sorpresa generale).

Una visuale del complesso (comune di Reggio Emilia)

Il progetto di riqualificazione prevedeva la demolizione dei vecchi edifici e la rimozione di quasi il 30 per cento dell’asfalto e del cemento, che sarebbe quindi tornato a essere suolo verde. Sarebbero stati piantati 2mila tra alberi e arbusti, e ci sarebbero stati 25mila metri quadrati di parco pubblico, con viali alberati e passeggiate. Le nuove strutture avrebbero avuto una dimensione da 47mila metri quadrati: 32mila formati da due capannoni sul lato nord dell’area, dove sarebbe andato il magazzino; negli altri 15mila metri ci sarebbero stati uffici, showroom e parcheggi. Al centro una corte verde.

Un render del progetto del polo della moda (comune di Reggio Emilia)

Qui si sarebbero trasferite le attività della Dedimax, l’azienda sotto cui ricadono alcuni marchi del gruppo Max Mara, tra cui Marella, Pennyblack e MAX&Co. L’azienda aveva raccontato il progetto come un lascito per il territorio di Reggio Emilia, ma la struttura sarebbe servita anche per ingrandire i suoi spazi e per sostenere lo sviluppo dei suoi marchi.

L’impatto sull’area ci sarebbe stato, tanto che il comune aveva quantificato in 2,8 milioni di euro gli oneri di urbanizzazione, cioè i contributi dovuti al bilancio locale per sostenere l’impatto dei nuovi edifici, che si possono pagare anche con altri interventi: in questo caso per esempio era prevista una nuova ciclabile, la riqualificazione di una lunga via lì vicino, via Majorana, e la creazione di nuovi parcheggi.

Il comune – che nel frattempo ha cambiato sindaco, giunta e consiglio – negli scorsi mesi aveva fatto quello che doveva per far partire i lavori, e Max Mara lo stesso. L’apertura del polo della moda era prevista per il 2028, e fino a un paio di mesi fa non c’erano segnali che facessero pensare che il progetto fosse a rischio: anzi, c’era la convinzione che sarebbe andato tutto liscio. Poi a maggio è stato proclamato il primo sciopero nella Manifattura San Maurizio.

Il 21 di quel mese oltre 50 lavoratrici dello stabilimento hanno scioperato con l’appoggio della CGIL locale e della Filctem, la sua federazione che si occupa tra l’altro del settore tessile. L’appoggio del sindacato è un punto importante di questa storia: Max Mara infatti non applica il contratto collettivo nazionale del settore, il CCNL negoziato da associazioni dei datori di lavoro e sindacati e che rappresenta di solito la base dei rapporti di lavoro. I CCNL non sono obbligatori per legge, ma sono applicati nella stragrande maggioranza dei casi. Max Mara invece applica accordi aziendali, cioè contratti fatti ad hoc, che l’azienda dice essere migliorativi rispetto al CCNL.

È anche per questo che i sindacati non sono molto presenti dentro l’azienda, ed è anche per questo che erano quarant’anni che in Max Mara non c’era uno sciopero. Le lavoratrici di San Maurizio hanno scioperato per diverse ragioni, tra cui proprio la mancata applicazione del CCNL, che invece secondo loro e i sindacati darebbe più tutele. Le lavoratrici lamentano condizioni di lavoro massacranti, turni esagerati, una sorveglianza severissima e richieste di produrre sempre di più. Una di loro ha detto al Fatto Quotidiano: «Ci hanno chiamate mucche da mungere. Ci hanno detto che siamo grasse, obese, e ci hanno consigliato gli esercizi da fare a casa per dimagrire. Ci pagano praticamente a cottimo e controllano anche quante volte andiamo in bagno, ma siamo tutte donne, abbiamo il ciclo: è disumano».

Lo sciopero della Manifattura San Maurizio, il 21 maggio 2025 (Filctem)

Le lavoratrici di San Maurizio sono esperte e fanno questo lavoro da decenni. Chiedono quindi un riconoscimento maggiore sia per la loro specializzazione sia per la natura del lavoro, descritto come molto gravoso: «La maggior parte di noi ha ormai problemi fisici seri: spalle, tendini, tunnel carpale, cervicale. Arriviamo alla pensione che siamo rotte». Le lavoratrici e i sindacati sostengono di tentare da anni di dialogare con la dirigenza, ma senza successo; l’azienda, dopo che è emerso il caso delle lavoratrici in sciopero, ha negato tutto e ha detto che nessuno si era mai lamentato.

Nei primi giorni dello sciopero Max Mara aveva scelto di non fare comunicazioni pubbliche o con la stampa, una decisione in linea col consueto atteggiamento dei Maramotti: le loro comunicazioni con i media sono di norma centellinate e controllate, e il giornalismo locale anche in tempi normali fa fatica a raccontare cosa fanno, o a fare inchieste sul ruolo dell’azienda sul territorio. In un comunicato delle scorse settimane Max Mara ha detto, tra le altre cose: «La nostra azienda non è abituata a commentare, ma a lavorare».

È poi stato indetto un nuovo sciopero, il 23 maggio, il giorno in cui veniva presentato al pubblico il progetto del polo della moda: le lavoratrici hanno scioperato lì davanti, non tanto perché la loro condizione fosse connessa al progetto ma per attirare più attenzione.

Inevitabilmente, però, le due storie hanno finito per intrecciarsi, anche per via di alcune dichiarazioni dei sindacati come questa, della Filctem: «Mentre Max Mara si bea dell’acquisizione della area ex fiere di Reggio Emilia denominata polo della moda, le condizioni di chi quotidianamente garantisce il successo del brand sono sempre le stesse a partire dalla mancata applicazione del CCNL di riferimento». I sindacati negano di aver mai voluto legare la realizzazione del progetto alla vertenza di San Maurizio. Ma dopo questo nuovo sciopero l’attenzione è aumentata ancora.

Lo sciopero del 23 maggio 2025 (CGIL Reggio Emilia)

Nelle settimane successive se n’è interessata anche la politica nazionale: sulla condizione delle lavoratrici di San Maurizio sono state presentate diverse interrogazioni in parlamento al ministero del Lavoro. In risposta a una di queste, la viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci ha confermato che all’Ispettorato Nazionale del Lavoro risultavano alcune segnalazioni di «situazioni problematiche all’interno del contesto aziendale, in particolare riguardo al trattamento delle lavoratrici e alla gestione di specifici casi individuali». L’azienda ha specificato che sono procedimenti passati, del tutto slegati da San Maurizio e che riguardano singole dipendenti.

La conferma del governo ha però alimentato un clima di sospetto su ciò che succede dentro Max Mara, da cui i sindacati sono tenuti a distanza per la mancata applicazione del CCNL: a loro spetta controllare che il CCNL venga applicato regolarmente, quando viene applicato, ma questo non è il caso dei Maramotti che quindi riescono ad averci poco a che fare.

L’unica vertenza pubblica in cui fu coinvolta Max Mara avvenne negli anni Ottanta. Il consigliere comunale di Reggio Emilia Dario De Lucia, eletto con una coalizione civica, in una riunione di fine giugno del consiglio comunale ha citato un’indagine del 1987 di CGIL e Donne Comuniste, secondo cui il 30 per cento delle dipendenti di Max Mara aveva un esaurimento nervoso e il 70 soffriva di altri disturbi. «La risposta di Achille Maramotti fu: “Donne, il padrone sono io”», ha ricordato De Lucia. Achille Maramotti è il fondatore di Max Mara, e padre dell’attuale presidente, Luigi.

Luigi Maramotti nel suo ufficio di Reggio Emilia, fotografato nel 2006 (Peter Dench/ Getty Images)

Nel corso di quella riunione di giugno, che serviva peraltro ad approvare proprio il piano urbanistico del polo della moda, diversi consiglieri hanno espresso preoccupazione per le condizioni delle lavoratrici. Il piano comunque è stato adottato all’unanimità (in due si sono astenuti).

Il richiamo di alcuni consiglieri comunali è stato interpretato da Max Mara come un segnale di mancato sostegno al progetto del polo della moda da parte della politica locale. Le cose sono degenerate nei giorni successivi, quando il sindaco di Reggio Emilia Marco Massari – civico e sostenuto da una coalizione di centrosinistra – ha ricevuto su loro richiesta il gruppo di lavoratrici della Manifattura San Maurizio che avevano scioperato. Stando a quanto ricostruito dal Post, Max Mara si è offesa per questo incontro, lo ha percepito come il segnale di un rapporto incrinato con l’amministrazione comunale, che secondo lei non avrebbe neanche tentato un contatto con l’azienda per verificare le recriminazioni delle lavoratrici. Il comune sostiene di averlo fatto, invece.

Si arriva così al 30 giugno, quando con una lettera Luigi Maramotti ha comunicato il ritiro dell’investimento per il «clima di divisione e strumentalizzazione». Ora da una parte c’è chi critica Max Mara, accusandola di aver avuto una reazione esagerata o di aver usato la vicenda come pretesto per tirarsi fuori dal progetto; dall’altra c’è chi accusa il sindaco di aver fatto saltare tutto, con i partiti di opposizione che chiedono le sue dimissioni.

Il sindaco Massari si è difeso dicendo che era suo dovere incontrare le lavoratrici, e che non poteva esserci alcun legame tra la vertenza sindacale e il progetto del polo della moda, al quale l’amministrazione dava pieno sostegno. Qualche giorno dopo il sindaco aveva peraltro incontrato anche un altro gruppo di lavoratrici della Manifattura San Maurizio, 68 dipendenti (poi diventate 74) che al contrario smentivano le condizioni denunciate dalle colleghe e difendevano l’azienda. A quel punto però la situazione era già precipitata.

Da allora i contatti tra l’azienda, il comune e i sindacati si sono interrotti. Della vicenda si è interessata anche la regione, che sta tentando di ripristinare un dialogo. Intanto i termini per il rogito sono scaduti e la società proprietaria delle strutture dell’ex fiera ha fatto sapere di avere altre offerte; anche se si dovesse trovare un nuovo compratore, però, il piano urbanistico sarebbe probabilmente da rifare visto che prevede il progetto del polo della moda ideato con Max Mara.