“Amici miei” non doveva essere così toscano
All'inizio doveva essere ambientato a Bologna, senza le “supercazzole” e con scherzi diversi da quelli che conosciamo: poi arrivò Monicelli

Nel 1974 il regista italiano Pietro Germi stava per mettersi al lavoro su un film che aveva in mente da qualche anno: una commedia, scritta insieme agli sceneggiatori Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, che parlava di cinque amici sulla cinquantina che organizzavano scherzi per distrarsi dalla vacuità delle proprie vite. La lavorazione però si interruppe ancora prima di cominciare: Germi morì nel dicembre di quell’anno, e a quel punto il progetto fu affidato a Mario Monicelli, che all’epoca era già uno dei registi più prolifici e rispettati della cosiddetta commedia all’italiana.
Quel film alla fine diventò Amici miei, forse il più importante e influente dell’intero filone. Fu presentato in anteprima al Taormina Film Festival il 26 luglio 1975, cinquant’anni fa, e si distinse fin da subito per le battute abrasive, il carattere malinconico e disilluso dei personaggi e la grande centralità che Monicelli attribuì all’elemento della toscanità, che è un po’ la cifra distintiva di tutto il film. È anche per via di Amici miei se, nell’immaginario collettivo, l’umorismo toscano viene percepito come grottesco, cinico, disilluso e un po’ nonsense, proprio come quello dei protagonisti del film.
Eppure, anche se col senno di poi può sembrare paradossale, all’inizio Amici miei non doveva avere nulla di toscano. Nelle intenzioni di Germi la storia avrebbe infatti dovuto essere ambientata a Bologna, una città che riteneva più adatta per raccontare le ingenuità, le piccole manie e la noia esasperata della borghesia di provincia. Doveva essere anche un film decisamente meno divertente. Germi voleva infatti dargli un tono meno comico e più moralistico, lontano dall’ironia amara che Monicelli avrebbe poi dato al progetto.
Monicelli ha raccontato che, quando Benvenuti gli fece leggere la sceneggiatura per la prima volta, pensò subito che spostare l’ambientazione in Toscana fosse la scelta più logica, dato che il copione sembrava adattarsi benissimo al contesto. «Il film era ambientato a Bologna, ma io dissi: “No, lo porto a Firenze. I modelli a cui ci siamo ispirati sono toscani, lo spirito è toscano, non vedo perché dobbiamo farlo a Bologna!”», disse in un’intervista.
Monicelli era cresciuto a Roma, ma si era avvicinato al mondo del cinema grazie all’amicizia con Giacomo Forzano, figlio del commediografo Giovacchino Forzano, fondatore degli stabilimenti cinematografici Pisorno di Tirrenia, una frazione di Pisa. Proprio in quell’ambiente, Monicelli imparò ad apprezzare l’umorismo ruvido e beffardo di alcuni colleghi toscani. Amici miei fu l’occasione perfetta per portare sullo schermo quel tipo di comicità, anche se in una forma esasperata e venata di malinconia. «C’era allora la convinzione che l’umorismo toscano non facesse ridere, perché è un tipo di umorismo molto cattivo e pungente», ricordò lo stesso Monicelli.
La sceneggiatura originale di Germi fu stravolta proprio a partire da quell’umorismo, che fu alla base di una serie di invenzioni citatissime ancora oggi. Per la più famosa, Monicelli si divertì a coniare parole prive di significato ed espressioni incomprensibili come «tarapìa tapiòco!», «lo vede che stuzzica?» e «come se fosse Antani». Erano le cosiddette “supercazzole”, i discorsi volutamente assurdi con cui il conte Lello Mascetti (Ugo Tognazzi) e il giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret) disorientano e deridono ignari sconosciuti.
Negli ultimi cinquant’anni sono diventate famose almeno quanto Amici miei: vengono riproposte ancora oggi in meme, battute e conversazioni, anche senza nominare direttamente il film che le ha rese celebri. Ma questa parola è entrata anche a far parte del lessico di ogni giorno: quando qualcuno indugia in un discorso lungo, sconnesso e molto vago, è ormai d’uso comune rimbrottarlo dicendogli che “ha fatto una supercazzola”.
Anche gli scherzi tremendi, infantili e sadici organizzati dal gruppo di amici, che comprendeva anche l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete e poi Renzo Montagnani) e il professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), furono una parziale intuizione di Monicelli. Germi aveva già in mente di attribuire agli scherzi un ruolo centrale all’interno del film, ma in un modo un po’ diverso. Dovevano essere scherzi in cui la componente tragica avrebbe prevalso su quella comica, espressione di un disagio esistenziale più che di un istinto goliardico.
Pur mantenendo questa idea, Monicelli ne cambiò il tono. Invece di insistere sull’aspetto drammatico, scrisse gli scherzi in modo che fossero più leggeri, infantili e surreali, pur mantenendo una certa malinconia di fondo. La celebre scena dei ceffoni ai passeggeri del treno nella stazione di Santa Maria Novella è forse lo scherzo più famoso, ma anche l’“agguato al vedovo” con cui si apre il secondo film della serie, Amici miei – Atto II°, è un esempio piuttosto calzante.
Le supercazzole, gli scherzi e le zingarate, altra parola diventata d’uso comune per indicare «una partenza senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi. Può durare un giorno, due o una settimana», oltre a divertire il pubblico, mettevano in luce la frustrazione, la solitudine e l’infelicità dei protagonisti, uomini pieni di nevrosi, di complessi e di vizi, e che nelle loro bravate esibivano spesso e volentieri il loro radicato maschilismo e la loro grettezza morale.
La toscanità di Amici miei fu ulteriormente accentuata da un’altra scelta di Monicelli: ambientare la storia a Firenze, che per questo film è qualcosa di simile a ciò che Roma rappresentò per La dolce vita.
Nel metterla in scena, Monicelli la osservò da una prospettiva diversa. Non diede visibilità ai principali luoghi e monumenti della città, come il duomo e la cupola del Brunelleschi, ma preferì concentrarsi su posti più anonimi, come palazzi residenziali, ospedali, bar di quartiere e marciapiedi poco riconoscibili. Questo sfondo così ordinario contribuì a far comprendere meglio il contesto abitudinario e monotono in cui si muovevano i protagonisti: un gruppo di cinquantenni che si annoia, si rifugia negli scherzi e prova una certa insofferenza all’idea di comportarsi da adulti.
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Amici miei fu un successo di pubblico e di critica: incassò più di 7 miliardi di lire (oggi sarebbero quasi 45 milioni di euro), superando gli incassi di film come Lo squalo, Qualcuno volò sul nido del cuculo e I tre giorni del Condor, usciti lo stesso anno e oggi considerati dei cult a tutti gli effetti.
Parlando dell’enorme popolarità del film, Monicelli disse che permise a una nuova generazione di comici e attori toscani, come Roberto Benigni, Francesco Nuti e il trio comico dei Giancattivi, di farsi notare da registi e produttori, «sfatando la leggenda che non si poteva far ridere in toscano».
Monicelli avrebbe girato anche il sequel Amici miei – Atto II°, uscito sette anni dopo e amato almeno quanto il primo. La saga continuò nel 1985, con un terzo e apprezzato film diretto da Nanni Loy, e poi con Amici miei – Come tutto ebbe inizio di Neri Parenti, uscito nel 2011 e distantissimo dai predecessori per forma, contenuti, interpreti e regia.
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