Da quando in qua è il pubblico lo spettacolo?

«C’è chi grida trenta secondi dopo che il punto è stato fatto e poi emette versi o battute per sfidare il giocatore che andrà a battere. Non si tratta più di tifo, ma di una narcisistica necessità di apparire, di restare memorabili, spesso nel male»

Uno spettatore sugli spalti del Roland Garros. 26 maggio 2025, Parigi, Francia. (Adam Pretty/Getty Images)
Uno spettatore sugli spalti del Roland Garros. 26 maggio 2025, Parigi, Francia. (Adam Pretty/Getty Images)
Giacomo Giossi
Giacomo Giossi

Vive a Venezia. Coordina la rivista The Italian Review. Scrive di letteratura italiana contemporanea e cultura per giornali e riviste. Collabora con case editrici.

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Quasi ad altezza campo, nelle file più esclusive, appare un tizio con un paio di occhiali da sole, la barba incolta e un completo di lino chiaro. L’uomo è seduto scomposto con un telefono in mano. Sono quasi le dieci di sera, il campo è illuminato e, nonostante gli occhiali da sole, lui sembra vederci benissimo, tanto da contestare animatamente il giudizio di un arbitro di linea che nemmeno il tennista che ha perso il punto sembra trovare errato.

Siamo al Foro Italico di Roma, stadio centrale, il tennista è tra i primi dieci del mondo, lo spettatore fa parte di un pubblico noto per la sua insolenza e per il chiasso che produce. L’aspetto più interessante, infatti, non è il tifo esasperato di tipo calcistico. È una forma di protagonismo – quasi ossessiva – che si palesa in azioni fuori tempo: quando il gioco è fermo, quando l’agonismo è ai minimi livelli di tensione perché il punto è stato già ampiamente vinto o perso e comunque digerito dai contendenti.

È un contrasto ancora più evidente quando in campo ci sono giocatori imperturbabili come Jannik Sinner che in quel caso era addirittura parso il meno coinvolto tra le diecimila persone presenti. Il primo istinto è pensare a un frutto della tipica indolenza romana, una forma di cafonaggine un po’ trasandata, ma pur sempre ironica, salvo poi ritrovare un atteggiamento forse ancora più caotico e disturbante intorno ai campi del Roland Garros di Parigi.

– Leggi anche: Il pubblico del tennis non si sa più comportare?

C’è chi grida trenta secondi dopo che il punto è stato fatto e poi emette versi o battute per sfidare il giocatore che andrà a servire. Non si tratta più di tifo, ma di una narcisistica necessità di apparire, di restare memorabili, spesso nel male.

Così succede che degli Internazionali di tennis di Roma di quest’anno, più che della vittoria di Alcaraz su Sinner, ci si ricordi del richiamo dell’arbitro al pubblico durante il confronto tra Arthur Fils e Alexander Zverev: «Ma che te strilli? Prima del servizio non strillare. No?». E nemmeno le oltre cinque ore e mezza della finale dell’ultimo Roland Garros, sempre vinta da Alcaraz su Sinner, sono riuscite a distogliere l’attenzione da un pubblico che, punto dopo punto, ha trasformato gli spalti in una bolgia contro Sinner.

A Wimbledon la competizione tra spettatori si gioca sul terreno dell’eleganza, non della cafonaggine, ma il pubblico è restato protagonista, seppure nel bianco che più bianco non si può, tra un Lorenzo Jovanotti in completo di lino bianco alla Gustav von Aschenbach e un immarcescibile e appisolato Hugh Grant insistentemente inquadrato in diretta. Insomma, non si tratta più del mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente, ma solo del vengo per farmi notare.

Dopo anni di distinzioni teoriche tra spettatori e pubblico (tra gli altri di Antonella Agnoli, Lucio Argano e Alessandro Bollo di cui si trova una sintesi nel bellissimo volume I pubblici della cultura a cura di Francesco De Biase) e di pratiche che promuovono una maggior partecipazione agli eventi culturali, compresi quelli sportivi, ora ci ritroviamo il pubblico al centro della scena come principale protagonista.

L’esito non è però una comunità attiva, ma l’apparizione di una sequela di individui tra l’insolente e il ridicolo che divengono parte fondamentale dello spettacolo. Macchiette di una messa in scena accettabile solo in un’epoca che è passata da un tempo economico (già sufficientemente desolante) a un tempo iconico in cui chiunque è invitato a dare colore a un fondale pieno e compatto.

In questa sfilata è palese scorgere un’ansia di apparire ed esistere, che crolla sotto il peso della mancanza di originalità e d’immaginazione. Tagli di capelli, vestiti, accessori e pose, tutto è sempre una replica e mai una messa in scena originale frutto di un percorso culturale autonomo e libero. L’esito è la comunanza estetica tra vicini di posto, anche se uno veste in grisaglia e l’altro in bermuda, maglietta e marsupio a tracolla.

L’importante è fare da sfondo, non intervenire. Infatti, se Adriano Panatta (ironicamente) propone di assoldare degli assistenti sulle platee dei campi da tennis per punire chi fa cori insulsi e versi animaleschi, alla prima del Don Carlo alla Scala di Milano del 2023 la Digos ha identificato il giornalista Marco Vizzardelli per aver gridato il per me inappuntabile «Viva l’Italia antifascista».

Fondamentale nel raccontare e creare il pubblico come protagonista è la regia televisiva che non si perde un verso, un gesto o un’acconciatura come nel caso del tifoso inglese di Formula 1 più volte inquadrato anche a discapito della competizione in pista per il taglio di capelli che riproduceva il casco di Lando Norris.

In Formula 1 – anche mentre un sorpasso si sta compiendo in pista – non passa un minuto senza che la regia stacchi sui box e nei box inquadri la famiglia del pilota in corsa. Non c’è solo la fidanzata, come accade nel calcio da decenni – le famose “wags” – o nel tennis, ormai sono presenze fisse anche il papà, la mamma e, se ci sono, i fratelli e le sorelle. La famiglia stessa, gara dopo gara, si sente ingaggiata a una presenza sempre più appariscente. All’inizio il padre di Lando Norris, che oggi lotta per il titolo mondiale, aveva l’aria affabile da uomo d’affari in pensione; oggi si presenta sui circuiti di gara con camicie a fiori e scarpe dai colori diversi l’una dall’altra.

Ma come era il pubblico una volta? Fondamentalmente non esisteva, perché “essere pubblico” voleva dire guardare, non essere guardati, stare giù dal palco. Il gesto di far salire sul palco una fan, che Bruce Springsteen ha ripetuto in quarant’anni e passa di concerti, denotava un momentaneo passaggio di ruolo (negli anni anche il Boss si è adeguato ai tempi invitando a ballare l’anziana madre e a suonare la sorella). Oggi quel passaggio sembra diventato definitivo.

E quando nel pubblico ci sono persone famose, la loro presenza dà valore all’artista e dà valore anche al pubblico: succede così che Cesare Cremonini presenti al suo pubblico Valentino Rossi quale celebrity presente tra lo stesso pubblico; oppure che Ligabue vada a “illuminare” Francesco Guccini, seduto imbarazzato in platea, esplicitando il filo comune di un’appartenenza, non tanto tra musicisti, ma tra spettatori, che in quanto spettatori di Ligabue possono sentirsi più vicini a Guccini.

Non esiste più alcuna discontinuità tra opera e pubblico, che non possono più esistere separatamente. «Pubblico di merda!» urla Michele Apicella (Nanni Moretti) in Sogni d’oro, peccato che poi il pubblico lo ripeta in coro, dopo aver decretato vincente l’infido avversario di Apicella, Gigio Cimino. In Sogni d’oro Nanni Moretti coglie con preveggenza l’azzeramento della distanza tra il pubblico e l’artista, tra il volto nella folla e la celebrità sul palco. Tutto si appiattisce e si schiaccia in un unico indistinto: «La volgarità purtroppo ha trionfato ancora una volta», avverte Giampiero Mughini nella parte del presentatore televisivo.

Un capovolgimento di fronte per cui il pubblico non è più manifestazione della massa, a cui il Novecento aveva affidato la speranza di un mondo migliore. È protagonista dello spettacolo non in quanto comunità, ma nella forma dell’individualismo assoluto grazie al quale ognuno è legittimato a esibire le proprie intime pulsioni. È quello che accade in una delle scene più famose di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore: Salvatore (Jacques Perrin) ormai regista affermato, si ritrova in sala a guardare commosso i baci censurati e rimontati per lui da Alfredo (Philippe Noiret). Salvatore è l’unico spettatore in quella sala cinematografica, ma ne è anche il protagonista.

In sostanza il pubblico, che una volta era la sintesi di un gruppo o di una comunità, ora è il luogo in cui si può manifestare al mondo una riduzione di sé stessi, una messa in scena di sé. Se si riguarda la panoramica sul pubblico durante il concerto di Bob Dylan a Fort Collins nel 1976 si ritrova una comunanza e al tempo stesso un’identità collettiva che dichiarava un’appartenenza a una musica e a un’epoca, che non mi sembra esista più. La messa in scena di sé stessi non solo isola dagli altri, ma anche dal proprio sé perché recide ogni legame con la comunità a cui, comunque, si appartiene. I social sono stati l’acceleratore di questa dinamica perché hanno illuso ognuno di noi di poter fare performance di sé stessi.

Difficile oggi rispecchiarsi nel pubblico totalmente coinvolto nella partita di tennis che appare in L’altro uomo (Strangers on a Train) di Alfred Hitchcock del 1951.
Oggi ogni singolo spettatore sembra assumere le sembianze di Bruno Anthony (Robert Walker), lo psicopatico omicida che nemmeno guarda la partita da quanto è ossessionato dal povero Guy Haines (Farley Granger). La scena è stata citata nel 2024 in Challengers da Luca Guadagnino, in cui un ménage à trois è esemplificato dalla tensione erotica che passa dal campo alle tribune con lo sguardo di Tashi Duncan (Zendaya) che si posa alternativamente su Patrick Zweig (Josh O’Connor) e Art Donaldson (Mike Faist). Insomma, oggi la partita è a tre e supera il campo da tennis per raggiungere la tribuna. L’urlo a cui si abbandona Tashi Duncan a fine partita non è che la conseguenza di una prestazione memorabile che l’ha vista più che spettatrice direttamente coinvolta.

Dagli stadi del tennis, con gli spettatori eleganti, a quelli del calcio, ed ecco liberarsi l’urlo animalesco «Forza lupi! Forza Roma!» di Vittorio Gassman che, nel settimo episodio di I mostri di Dino Risi del 1963, interpreta un baraccato che lascia moglie e figli affamati per correre allo stadio. Nonostante i completi slim fit in lino (più spesso in misto lino) o i baggy jeans cimosati con t-shirt oversize, mi pare che anche oggi, come quel baraccato, siamo pronti a dare tutto quello che abbiamo non più per guardare, ma per essere guardati, per una visualizzazione in più di esistenza. I «15 minuti di celebrità» di Andy Warhol valevano ancora come un ingresso, per quanto temporaneo e occasionale, nella storia. Ora si tratta invece di apparire, continuamente e ossessivamente, ma solo nell’attualità.

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