• di Ilaria Maria Sala
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 16 luglio 2025

Che cosa resta di una guerra

«In Sri Lanka i civili vennero stretti nella “Gabbia”, una striscia di terra dove non c’era cibo e su cui l’esercito continuò a sparare fino all’ultimo giorno, con la scusa che le Tigri utilizzavano i civili come “scudi umani”. Le stime più credibili parlano di 70mila morti e quasi altrettanti dispersi»

Pushpamaran Thawananthan, 49 anni, offre cibo e preghiere per il quindicesimo anniversario della morte del marito Nadarajah nello stagno di Puthukkudiyiruppu, zona tamil nel nord est dello Sri Lanka, 14 maggio 2024 (Buddhika Weerasinghe/Getty Images)
Pushpamaran Thawananthan, 49 anni, offre cibo e preghiere per il quindicesimo anniversario della morte del marito Nadarajah nello stagno di Puthukkudiyiruppu, zona tamil nel nord est dello Sri Lanka, 14 maggio 2024 (Buddhika Weerasinghe/Getty Images)
Ilaria Maria Sala
Ilaria Maria Sala

Vive dal 1988 in Asia – dopo Pechino, si è spostata a Tokyo, poi Hong Kong, Shanghai, Katmandu e ora di nuovo a Hong Kong. L'ultimo suo libro si intitola L'eclissi di Hong Kong - Topografia di una città in tumulto, ed è stato pubblicato da Add Editore nel 2022. Fa parte dell'associazione di giornalisti Lettera22. Scrive in italiano e inglese, parla una decina di lingue (più o meno bene a seconda della lingua) ed è poetessa e ceramista.

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Sono a Jaffna, la principale città nella penisola nord dello Sri Lanka. Quando Mohan arriva al nostro appuntamento, ci scambiamo sorrisi prudenti – entrambi vogliamo assicurarci di poterci fidare ed entrambi vogliamo trasmettere l’idea che di noi ci si possa fidare. Mohan deve avere più di sessant’anni, ma non sono mai stata brava a indovinare l’età. Non sarebbe rilevante, ma vorrei conoscerla per sapere cosa hanno visto i suoi occhi.

Per cercare di capire quello che le nostre barriere linguistiche renderanno impossibile da raccontarci, parto proprio da lì: Mohan parla tamil e un po’ di inglese. Io di tamil non so una parola, a parte “grazie” che si dice nandri, ma non so pronunciare il suono alveolare di quel gruppo consonantico “ndr”, lo rendo così malamente che è meglio thank you, senza cercare di attirarmi simpatie con uno sforzo tanto insulso.

Siamo a Jaffna, dicevo, la principale città della zona del nord dello Sri Lanka. Per 26 anni, dal 1983 al 2009, questo posto è stato insanguinato e martoriato dalla guerra civile fra le Tigri Tamil e l’esercito nazionale dello Sri Lanka, a cui si è aggiunta la brutalità delle Forze di pace indiane, che arrivarono nel 1987 e restarono fino al 1990, portando ancor meno pace di quanta non ve ne fosse prima.

Quando le Tigri controllavano quasi tutta la regione, non avevano scelto Jaffna come capitale di quello che avrebbe dovuto essere lo stato del Tamil Eelam. La capitale amministrativa era più a sud, a Kilinochchi: oggi sembra un luogo dimenticato da Dio, con una stazione piccola e poetica che diresti dipinta ad acquarello in arancione e giallo sabbia se non ti venisse in mente che qui le Tigri avevano la sede delle loro forze di polizia, l’ufficio delle tasse e le corti di giustizia – da cui si passava quando decidevano di non uccidere a freddo le persone, spesso per motivi propagandistici.

Guardandomi intorno mi sono chiesta se le case abbandonate di Jaffna e quelle in rovina fossero state lasciate vuote da persone emigrate perché stanche della guerra o perché fatte scomparire dalla guerra. Quando vedo un muro che ha ancora i buchi dei proiettili provo uno stonato senso di certezza, come se avere la conferma visiva che quella casa è stata presa di mira dalle armi possa aiutarmi a capire qualcosa di quello che resta del dolore, solo perché è stampato sulle pareti.

Anche il resto dello Sri Lanka è stato in guerra, ma per quello che è successo qui, per quanto sinistro sia fare una gerarchia della brutalità, non ci sono paragoni. Tutto il paese ha vissuto con l’ansia di attentati che rendevano pericoloso uscire di casa, a Colombo, a Trincomalee, a Kandy o a Galle. In tutto lo Sri Lanka migliaia di persone sono state fatte scomparire dalle autorità, dalle Tigri e da vendette personali che si confondevano nell’odio reciproco istituzionalizzato tra le etnie – cingalesi (il gruppo maggioritario), tamil, burgher (gli euroasiatici) – e le religioni – buddisti, induisti, musulmani, cristiani. Tutte vittime o carnefici di una centrifuga di odio e timore reciproco, che si è acquietata solo da sedici anni, e che ancora non è del tutto scomparsa.

Le tensioni fra tamil e cingalesi non hanno aspettato l’inizio del conflitto per farsi sentire. La prima cosa che lo Sri Lanka aveva deciso ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1948, era stata di espellere i “tamil delle piantagioni” – importati dal sud dell’India dai britannici affamati di forza lavoro, fino a due generazioni prima – e imporre poco dopo, come unica lingua, il cingalese (decisione rivista in seguito). Il regime coloniale, insomma, aveva preparato il terreno per la catastrofe sfruttando le differenze culturali e religiose dell’isola per controllare meglio il territorio.

In ogni cosa che vedo, in ogni persona che incontro, cerco prove o smentite dei segni della violenza che ha devastato questi luoghi. È un osservare complicato: per quale motivo le persone dovrebbero essere definite dal trauma decennale che hanno subito? O invece, come posso capire se si sentono incapaci di riprendere la loro vita lasciandosi dietro quell’orrore, senza che venga riconosciuto? O forse è possibile vivere in bilico fra questi due poli, volendo sia il riconoscimento delle proprie sofferenze sia la liberazione da esse? Come si fa a capire quello che provano gli altri? Non ci si riesce nemmeno con i membri della nostra famiglia, o con gli amici più vicini.

Mohan ha una cicatrice sull’avambraccio e una sulla mano destra, che vedo solo quando prende il volante, e mi accorgo che vorrei che queste tracce del suo dolore fossero più eloquenti. Non posso sapere e non oso chiedere. Forse è stata solo una caduta in bici da ragazzino. Forse è un alfabeto bellico, inciso sul corpo.

Se ho conosciuto Mohan è grazie a Vignesh, un uomo di 42 anni (questo lo so con certezza, me lo ha detto lui stesso) che ho incontrato fuori dal tempio di Nallur Kandaswamy, il principale tempio induista di Jaffna. Avevamo cominciato a chiacchierare, poi i miei occhi si sono involontariamente posati sulla cicatrice a forma di uncino che aveva sulla guancia sinistra, lui se ne è accorto e mi ha raccontato, con un’amarezza che gli modificava leggermente il sorriso: «Sono stato ferito quando l’esercito dello Sri Lanka ha sparato sui civili nella laguna di Nandikadal, nelle zone “sicure”». Il riferimento è al maggio del 2009 quando, dopo anni di orrore, le Tigri e il loro sogno di una nazione Tamil indipendente nel nordest del Paese furono sconfitti dall’esercito regolare nella regione del Vanni (anche scritto Wanni).

La popolazione a cui dicevano di voler regalare una patria ormai non li sosteneva più, e non tanto perché non desiderassero più una terra tamil senza subire le discriminazioni dalla maggioranza cingalese al governo, ma perché la brutalità delle Tigri aveva soffocato ogni sogno. Se i 26 anni della guerra sono stati di una violenza devastante, le ultime settimane furono catastrofiche e disumane: le Tigri erano ormai neutralizzate, ma l’esercito governativo aveva deciso che la vittoria autorizzava la vendetta contro ogni tamil.

I civili vennero stretti in una striscia di terra sempre più piccola, fra la laguna di Nandikadal e il golfo del Bengala, dove non c’era possibilità di sopravvivenza né cibo, e dove non era consentito l’accesso a giornalisti, rappresentanti ONU, personale medico. Una zona che presto fu chiamata “la Gabbia”. Se vi vengono in mente delle somiglianze con un’altra catastrofe non è un caso: quello che vediamo ogni giorno a Gaza ha nella Gabbia tamil dei paralleli spaventosi. Anche l’impunità con cui i responsabili la fecero franca, subendo appena un po’ di disapprovazione dai governi del mondo, è un precedente dell’impunità che oggi sembra circondare Israele.

Nella Gabbia furono ammassate 300mila persone, costrette in una No fire zone sulla quale invece l’esercito continuò a sparare fino all’ultimo giorno, con la scusa che fosse inevitabile perché le Tigri utilizzavano i civili come “scudi umani”. Ancora oggi non si sa quanti siano morti nelle ultime giornate della guerra: le stime più credibili parlano di almeno 70mila persone, con quasi altrettanti dispersi. Certo, fra le vittime ci furono anche i capi sanguinari delle Tigri, poche decine in tutto. Ma per debellare “i terroristi” (metto le virgolette per non entrare nel dettaglio su fino a che punto le Tigri fossero solo quello, o anche altro) furono uccisi tutti, donne, bambini, anziani, paramedici, civili feriti e soldati che si erano già arresi. Quelle ultime giornate sono raccontate in un numero crescente di romanzi, documentari, inchieste, quasi che le atrocità che hanno insanguinato questa terra non accettassero di restare mute.

Il presidente dello Sri Lanka a quei tempi era Mahinda Rajapaksa e suo fratello Gotabaya Rajapaksa era il capo dell’esercito (presto sarebbe diventato presidente anche lui, ma fu costretto alle dimissioni nel 2022 dall’Aragalaya, “la lotta” in cingalese, una protesta di massa con l’hashtag #gotagohome). Molti continuano a pensare che i Rajapaksa andrebbero processati per crimini di guerra, ma adesso che non sono più al potere tra i cingalesi (non tra i tamil) c’è chi trova che sia più importante andare avanti, riproponendo la questione di quanto, per “andare avanti”, l’impunità sia necessaria.

Vignesh mi sorride e si tocca la cicatrice come per rassicurarmi di non essere rimasto male per il mio sguardo indiscreto. Mi racconta di aver visto morire nella laguna, colpiti alla schiena dai proiettili governativi mentre scappavano, i suoi familiari, la donna che voleva sposare, amici e compagni di scuola. Suo nipote, in braccio alla sorella, è annegato quando lei è stata uccisa da un proiettile. Un altro nipote è inciampato correndo e ha bevuto l’acqua paludosa piena di cadaveri, ed è morto avvelenato due giorni dopo. Gli ho detto che avrei voluto andare a vedere la laguna di Nandikadal, ed è stato per questo che ho conosciuto Mohan, lui ha un’auto, mi avrebbe accompagnato volentieri, mi ha detto.

Per andare a Nandikadal, circa due ore di macchina a sud di Jaffna, Mohan e io passiamo di fianco a villaggi nel nordest tamil i cui abitanti sono stati sterminati ma dove ci sono sempre più templi buddisti, villaggi che rinascono non più tamil, ma cingalesi, perché solo a loro il governo concede il sostegno economico necessario per rendere il paese più omogeneo. Guardo fuori dal finestrino facendo fotografie sfuocate ai cartelli che mettono in guardia da zone non ancora sminate. Conto i templi buddisti e i camion che vengono da sud, i pellegrini buddisti a piedi che hanno in mano le ninfee colorate da portare al tempio. Chiedo a Mohan se c’è un festival, ma fa una strana smorfia. Non lo sa.

Anche Jaffna porta le sue ferite in superficie. La biblioteca, bruciata nel 1981 da membri della polizia, è stata riaperta malgrado gli antichi manoscritti tamil su foglie di palmira siano andati perduti, insieme a quasi 100mila altri libri. Un cartello all’ingresso dice che è una «oasi di conoscenza nell’Asia del Sudest». Su alcune pareti ci sono placche commemorative in onore di donatori e dignitari, ma le statue e i loro ritratti sono andati distrutti. Lo scempio avvenne nel maggio di quell’anno, dopo un comizio a cui seguirono disordini che portarono alla morte di due poliziotti.

La conseguenza fu che la città venne messa a fuoco per tre giorni, partendo dalla biblioteca e continuando con negozi, case e un tempio induista. Un’inchiesta confermò le responsabilità della polizia. Ma in parlamento, a Colombo, membri del partito di maggioranza dissero che se ai tamil «non stava bene» non avevano che da «tornarsene in India», dove erano i loro dèi e i loro templi, fingendo che la presenza tamil sull’isola fosse recente e non millenaria quanto quella cingalese. La violenza verbale dei politici cingalesi contribuì a deumanizzare i tamil, rendendo più facile ucciderli.

Nelle strade del mercato centrale si può ancora mangiare al Malayan Cafe, un ristorante vegetariano aperto nel 1952 dove vanno tutti. Si raggiunge facendosi strada fra le mucche che camminano serene, ma se si guarda in alto si vedono ancora sui muri i buchi di pallottole riempiti con lo stucco. Sotto i piedi i marciapiedi sono una serie di lastre sconnesse come se Jaffna non avesse alcun diritto a finanziamenti governativi per rimettersi in sesto, mentre Colombo luccica sempre più, fra nuovi grattacieli e progetti cosmetici e dispendiosi come la Torre del Loto, finanziata con un prestito dalla Cina di 88 milioni di dollari. Fra il nordest e il resto dello Sri Lanka non c’è stata una riconciliazione: decine di migliaia di dispersi non possono ancora essere seppelliti nemmeno nei cuori di chi li amava perché il governo si rifiuta di emetterne i certificati di decesso, e le tensioni continuano, anche se più in sordina.

Se andiamo in un posto per cercare qualcosa – io cercavo le tracce di una guerra – quanto di quello che vediamo è distorto dalle nostre intenzioni? Il viaggio verso Nandikadal mi è sembrato desolato, malgrado gli alberi di palmira e gli uccelli tropicali che volavano intorno. Forse non è soltanto una mia impressione, mi sono detta guardando rovine di villaggi e qualche occasionale vettura militare. Arrivati alla laguna, Mohan ha aperto le mani: «Ecco», mi ha detto.

Oggi la laguna è un limbo silenzioso. Qui, cresce la ninfea nazionale, il nil manel, un simbolo buddista (perché i tamil sono esclusi anche a livello simbolico dalla vita nazionale) e poco oltre, nello stagno di Puthukkudiyiruppu, c’è la Statua della vittoria. Ma ogni 18 maggio migliaia di persone arrivano qui per portare fiori, pregare e accendere candele in memoria delle vittime e degli scomparsi. Ufficialmente è la “Giornata nazionale degli eroi di guerra”, ma fra i tamil lo chiamano il “Giorno del ricordo”. In quel maggio del 2009 le notizie che arrivavano dallo Sri Lanka lasciavano impietriti, si parlava di decine di migliaia di civili uccisi, eppure molti governi si complimentarono con le autorità di Colombo per aver messo fine alla guerra decennale. Poi, man mano che le testimonianze dirette degli orrori della Gabbia riuscirono ad attraversare il muro celebrativo, dal mondo arrivarono alcune richieste di indagini indipendenti mai avvenute.

La Statua della vittoria si raggiunge tramite un pontile, rappresenta un soldato a mezzo busto dipinto d’oro in piedi su una montagna di sassi con entrambe le braccia levate. In una mano stringe la bandiera dello Sri Lanka e nell’altra un mitra su cui c’è una colomba ad ali spiegate (così non si sa se arrivi, o se stia per andarsene). Il soldato ha la bocca aperta in un urlo silenzioso. Vicino a lui c’è un cartello grottesco che celebra l’“Operazione umanitaria di Wanni”. La stessa umanità di chi a Gaza, invece di distribuire cibo, spara sui civili. La stessa impunità.

– Leggi anche: Ritorno in Israele, per vedere com’è cambiato

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