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  • Lunedì 14 luglio 2025

Due statue e una storia complicata, a Lisbona

Raffigurano un missionario gesuita e un attivista per i diritti degli schiavi, e mostrano bene quanto il processo di decolonizzazione nel paese vada a rilento

Lisbona, giugno 2025
(Antonella Serrecchia/il Post)
Lisbona, giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)
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Nel centro di Lisbona ci sono due statue erette negli ultimi anni, molto molto diverse fra loro.

La prima si trova in largo São Domingos, una piazzetta su cui affaccia la chiesa omonima, una delle principali della città. Risale al 2024. È un mezzobusto di circa un metro e mezzo che rappresenta Paulino José da Conceição, un ex schiavo nero originario del Brasile e vissuto tra il 1798 e il 1869. Detto anche Pai Paulino, fu un punto di riferimento per la comunità nera della città e un difensore dei suoi diritti.

La sua statua è piuttosto difficile da identificare: guardando la chiesa si trova in un angolo distante sulla sinistra, in una stradina laterale che costeggia la piazza e sale, come capita spesso a Lisbona. Ancora oggi è circondata ogni giorno da gruppetti di venditori ambulanti. Usano la statua come punto di ritrovo e approfittano dell’ombra generata dall’albero che si trova proprio accanto e che, senza farlo apposta, la avvolge in un cono d’ombra, cosa che la rende ancora meno visibile.

(Antonella Serrecchia/il Post)

L’altra statua è dedicata a padre António Vieira, missionario gesuita nato a Lisbona nel 1608 e morto a Bahia, in Brasile, nel 1697. È stata installata nel 2017. Da alcune fonti Vieira viene celebrato come un difensore dei diritti degli indigeni brasiliani, e sul sito dei gesuiti è descritto come «uno dei fondatori del Brasile moderno». Tuttavia questa immagine è stata molto contestata in tempi più recenti, perché l’attività evangelizzatrice del sacerdote è oggi interpretata come una pratica coloniale violenta, di conversione forzata e cancellazione delle culture indigene.

Nella statua Vieira è rappresentato con una croce in mano e tre bambini indigeni mezzi nudi ai suoi piedi.

(Antonella Serrecchia/il Post)

Le due statue rappresentano bene una certa ambivalenza nel dibattito sul passato coloniale del Portogallo, su cui ancora oggi c’è una memoria poco condivisa.

Il Portogallo fu uno dei più estesi e longevi imperi coloniali del mondo, oltre che il primo paese ad avviare la tratta degli schiavi dall’Africa nel 15esimo secolo. Si stima che fino alla sua abolizione, nel 1836, sei milioni di persone vennero rapite e vendute per lavorare come schiavi nelle ex colonie portoghesi, principalmente in Brasile.

Il grado di conoscenza di questo passato, spiega Miguel Bandeira Jéronimo, professore di storia all’università di Coimbra, varia ancora molto in base al livello di scolarizzazione e al contesto politico e sociale in cui vivono le persone. «Un fattore determinante in questa disparità sta nel modo in cui la storia coloniale è insegnata – o ignorata – nelle scuole», spiega Jéronimo. Come in molti altri paesi dal pesante passato coloniale, anche in Portogallo a scuola se ne parla poco e male. A provare a fare divulgazione sul passato coloniale del paese ci pensa qualcun altro.

Naky Gaglo è un rifugiato del Togo. È in Portogallo da 11 anni e con l’associazione African Lisbon Tour da dieci anni organizza tour nella sua città, Lisbona, sulla vita delle persone nere nel paese. Racconta di aver iniziato quando si rese conto non trovarne traccia, sotterrate da una narrazione che ancora oggi a volte celebra il passato coloniale come una conquista della società portoghese, impregnata del mito dei grandi navigatori ed esploratori che “scoprirono” paesi che in realtà occuparono e depredarono.

Lisbona, giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)

I suoi tour partono da praça do Comércio, la grossa piazza affacciata sul fiume dove arrivavano le navi dei commercianti di schiavi, i quali venivano smistati nelle ricche famiglie di Lisbona o portati altrove, a lavorare nei campi. Passa anche dalle due statue, quella di Pai Paulino e di padre Vieira. Quest’ultima, per lui, è «un insulto» alla comunità nera portoghese.

Secondo Gaglo la cultura portoghese affronta con una sorta di negazione il passato coloniale. Il Portogallo è uscito da una dittatura di estrema destra soltanto nel 1974, e quindi il dibattito sulla necessità di decolonizzare gli spazi pubblici e i programmi scolastici è iniziato in ritardo rispetto ad altri paesi. Inoltre la maggior parte delle persone nere vive in un contesto di marginalizzazione, ed è difficile che partecipi alla vita politica o all’associazionismo.

Di fronte a queste difficoltà altre persone come Gaglo si stanno organizzando in modo autonomo. La stessa statua di Pai Paulino è il risultato di una campagna durata diversi anni e organizzata da Batoto Yetu, un’organizzazione fondata negli anni Novanta per diffondere una maggiore consapevolezza sul contributo che le persone nere hanno dato alla società portoghese (il nome è in swahili, una lingua parlata nell’Africa subsahariana orientale, e vuol dire “i nostri figli”). Lo stesso fado, il canto oggi considerato un simbolo portoghese per eccellenza, deriva dalla tradizione musicale nera: eppure non lo sanno in molti.

Nel 2024 Batoto Yetu ha ottenuto, dopo un dialogo con l’amministrazione cittadina durato diversi anni, di poter installare 20 pietre d’inciampo distribuite in diversi punti della città che raccontano la storia di donne e uomini neri di cui si sono perse le tracce. Persone comuni, schiavi, medici, ingegneri. «Non dovremmo essere costretti a fare questi tour, dovrebbero essere cose che sappiamo già», spiega Djuzé Neves, direttore di Batoto Yetu: «ma una parte di questa storia è stata cancellata e scritta da una sola prospettiva».

Lisbona, giugno 2025 (Antonella Serrecchia/il Post)