Salutando Goffredo Fofi

«Ho voluto ricordare questo episodio perché credo rappresenti in forma di frattale l’espressione più tipica e sincera della curiosità che lo ha animato nei quasi settant’anni che ha dedicato alla ricerca dei talenti: quelli dimenticati, quelli importanti da riproporre, quelli da sottoporre alla verifica del tempo, quelli ancora in via di sboccio e da sostenere»

Fofi nel 2017 (TANIA/CONTRASTO)
Fofi nel 2017 (TANIA/CONTRASTO)
Marco Cassini
Marco Cassini

Ha fondato le case editrici SUR (nel 2011) e minimum fax (nel 1994). Dirige la Scuola del libro e, con Gianmario Pilo, il festival "La grande invasione" a Ivrea. Con Martina Testa ha curato l’antologia Burned Children of America (minimum fax 2001, Penguin 2003). La sua ultima traduzione è Fotografie del mondo perduto di Lawrence Ferlinghetti (2025).

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«Abbiamo scelto di accogliere la regola quacchera che piaceva a Goffredo, e dopo due brevi interventi, resteremo in silenzio, ognuno per il tempo che vorrà». Così Stefano De Matteis, un minuto prima dell’ora prevista, alle 15:59 di sabato 12 luglio, introduce la funzione in ricordo di Goffredo Fofi nella sala del tempio valdese di piazza Cavour a Roma.

(Foto di Nicola Villa)

Come era prevedibile, la sala è stipata. Ci sono tanti volti amici – amici fra loro – e mi viene in mente quel cliché abusato nei film di indagini, le mappe della città con dei punti uniti da fili di cotone rosso (che credo nessuno usi mai davvero nella realtà, ma è una scorciatoia per farci immediatamente capire «l’investigatore lavora indefesso – lo vedi?, è notte – alla ricerca del suo obiettivo»). Ecco, mi figuro dei fili rossi che, passando tutti per il punto-Goffredo, uniscono fra loro a due a due, a tre a tre, a gruppi, le persone che si sono riunite qui oggi.

Mi incuriosisce osservare soprattutto le mille diverse shopper di cotone, simbolo planetario dell’esser parte di una comunità culturale: borsine quadrate con motti e loghi riconoscibili di case editrici, musei, festival. Una mi sembra particolarmente appropriata all’occasione, è quella che riporta il titolo dell’ultima Biennale: «Stranieri Ovunque».

Ma la giornata è sorprendentemente fresca e, quando un po’ alla volta tutte le finestre vengono aperte, la chiesa rimane ben ventilata. Tutti sono composti, qualcuno siede a terra. Sono molti più i sorrisi che le lacrime.

Don Giacomo Panizza, fondatore della comunità Progetto Sud di Lamezia Terme, legge la poesia di Francis Jammes Preghiera per andare in paradiso con gli asini, con evidente riferimento al quadrupede che Fofi ha preso a simbolo delle sue ultime intraprese editoriali, sociali, pedagogiche. La poesia inizia con «Prenderò il mio bastone», e mi rammarico di non vedere quello di Goffredo poggiato lì sulla bara, insieme ai ricordi floreali di Georgette Ranucci – amica di tutta la vita, instancabile compagna di progetti cinematografici – e degli amici della casa editrice E/O, per cui ha diretto la fortunata Piccola Biblioteca Morale.

Poi Piergiorgio Giacchè, amico da cinquant’anni: «Il suo mestiere era far conoscere l’uno all’altro, mettere in relazione. Noi siamo la diaspora, siamo tutti sparsi, ma lui ci ha uniti, venendoci a trovare ovunque fossimo». E poi, inizia il silenzio.

È in quel sospeso momento di assenza di voci (che – mi pare di leggere nel pensiero di tutte le persone presenti – ci sta salvando da qualsiasi rischio di retorica o emozione) che ripenso a come, e quando, ho conosciuto Goffredo Fofi.

– Leggi anche: Quattro cose da Goffredo Fofi, di Luca Sofri

Roma, una primavera di metà anni Novanta. Sento lo scattino quasi impercettibile del fax del mio ufficio di via della Farnesina 13, a pochi passi da un Ponte Milvio ancora periferico, popolare, non già trasfigurato dalla movida: il fax ha da poco una linea tutta sua, non è collegato alla stessa del telefono, noi lo usiamo molto e abbiamo escluso la suoneria perché non potremmo lavorare serenamente se squillasse a ogni ricezione. Ma il mio orecchio allenato sa cogliere quel minuscolo «tick» che precede l’arrivo di una comunicazione.

Mi alzo dalla sedia che dà le spalle alla finestra e alla magnolia che la domina, l’aggeggio sputa fuori un primo pezzetto di carta, che inizio a leggere man mano che esce, a testa in giù, da quella piccola fessura che rappresenta la modernità, e mezzo nome della casa editrice che avevo fondato un paio d’anni prima. Prendo il foglio e lo rileggo al dritto, per verificare di aver interpretato bene di cosa si tratti. E la conferma arriva, è davvero Goffredo Fofi ad aver scritto quelle poche righe di complimenti alla casa editrice per aver coraggiosamente tradotto per la prima volta in italiano le mitiche interviste della Paris Review.

Fofi allora lo ammiravo come firma, ma di persona lo conoscevo appena: seguivo le sue recensioni, certo, e lo avevo visto presentare diversi libri; ci eravamo conosciuti a Galassia Gutenberg a Napoli, credo fosse il ’93, e avevamo preso, ma per caso, un treno di ritorno a Roma insieme; avevo contezza di cosa fossero i Quaderni piacentini ma non li avevo mai letti, mentre leggevo avidamente (erano gli anni della mia formazione letteraria e editoriale) ogni numero di Linea d’ombra e collezionavo quei deliziosi volumetti tascabili della collana «Aperture», che erano al tempo stesso dei bignamini del mondo e una traccia delle passioni che Goffredo ha riproposto caparbiamente per decenni in ognuna delle collane ideate, dirette, e presto o tardi inevitabilmente affossate, ogni qual volta sentiva un preoccupante odore di consenso se non addirittura il rischio di un inatteso “successo”: Aldo Capitini e Carmelo Bene, il pacifismo e il cinema, Morante e Buñuel, pedagogia e terzo settore.

Era in quei librini che avevo letto per la prima volta Salman Rushdie, Julio Cortázar, Amitav Ghosh. Non potevo che essergli grato per tutto questo instancabile lavoro, che mi sembrava portasse avanti proprio per me, e per tutti quelli come me che cercavano una direzione, e avevano bisogno di una guida silenziosa ma esperta.

Per tutti questi motivi, leggere quelle scarne righe scritte a macchina era per me come ricevere il premio Nobel. Proprio lui, che era il creatore di innumerevoli progetti editoriali, si complimentava con me per una collanina di cui erano usciti appena i primi due numeri: un’intervista di Peter Stone a Gabriel García Márquez (avevo passato l’estate a tradurla e a documentarmi in maniera forsennata per scrivere una prefazione probabilmente dimenticabile) e una di Mona Simpson e Lewis Buzbee a Raymond Carver, che in quegli anni avevo elevato al rango di mio scrittore preferito, e che di lì a poco, anche grazie a quel libro-intervista, sarebbe diventato la bandiera della casa editrice. Stati Uniti e America Latina, due passioni letterarie che avrebbero riempito i miei anni editoriali a venire, anche grazie a tanti suggerimenti di Goffredo.

Più che per quanto ha significato per me, ho voluto ricordare questo episodio perché credo rappresenti in forma di frattale l’espressione più tipica e sincera della curiosità che ha animato Goffredo Fofi nei quasi settant’anni che ha dedicato alla ricerca dei talenti: quelli dimenticati, quelli importanti da riproporre, quelli da sottoporre alla verifica del tempo, quelli ancora in via di sboccio e da sostenere.

Goffredo quel giorno si era preso la briga di mettere un foglio nella sua obsoleta macchina da scrivere, battere con due indici una frase di complimenti e di incoraggiamento, sfilare il foglio dal rullo dell’Olivetti e rinfilarlo nel rullo del futuristico fax. (Per inciso, «macchine da scrivere» era il nome della collana e minimum fax il nome della casa editrice: l’idea era rendere omaggio a dei classici contemporanei pur nella modernità tecnologica di cui ci riempivamo esageratamente la bocca in quella fine di millennio).

Un gesto spontaneo e sincero, per nulla scontato allora e oggi. Per il poco che conta, nel mio caso ha significato moltissimo, mi è servito da stimolo a fare, e da pungolo a fare meglio: sapendo che c’era quell’osservatore così acuto, della cui attenzione solo in quel momento mi rendevo conto, ho cercato di non deluderlo – anche quando, assai probabilmente, non mi stava nemmeno guardando.

Ma quel che più conta – ora che Goffredo non ci sarà più a reiterare quel gesto così indipendente, così sincero e così incommensurabilmente potente – è quante volte lo ha fatto, quante volte ha dato un segnale di attenzione, quante volte ha incentivato e motivato chi magari aveva bisogno proprio in quel preciso momento di una iniezione di fiducia, di una approvazione, per poter credere e investire nel proprio talento, assecondare un’attitudine.

A partire da quel fax, e attraverso avvicinamenti progressivi, negli anni seguenti Goffredo sarebbe diventato un perno della casa editrice: ci propose una selezione di interviste tratte dai Cahiers du Cinéma, da cui nacque prima un libro (La politica degli autori, per il quale ci divertimmo a inventare – posso svelarlo ora che il reato è andato in prescrizione – una fascetta con un falso blurb: «Questo libro è la storia del cinema», con la «è» maliziosamente in corsivo) e poi una intera collana di saggi sul cinema; nel 1997 nacque dentro minimum fax Lo Straniero, con i suoi vent’anni di vita la rivista più longeva tra quelle fondate da lui, e la collana di impronta libertaria «I quaderni dello Straniero».

Fu grazie all’esempio e all’esperienza dello Straniero che Mario Martone decise di affidare alla mia casa editrice la sua rivista La porta aperta. E curiosamente fu proprio nel giorno in cui Martone diede le dimissioni dalla direzione del Teatro di Roma nel novembre del 2000 che Goffredo, incitandomi a partecipare, mi passò un dattiloscritto dicendomi «Leggilo, è di un ragazzo pugliese talentuoso, ma è un romanzo così strano che solo tu puoi pubblicarlo». Nell’attesa che iniziasse la tesissima conferenza stampa al Teatro Argentina, lo sfogliai e fui subito accalappiato dal titolo: Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj, di tale Nicola Lagioia.

– Leggi anche: Com’era Severino Cesari, di Giacomo Papi

Andare a prenderlo in motorino e traversare Roma da Monti a Ponte Milvio due volte a settimana era una forma di apprendistato. La maggior parte dei nomi che citava non la conoscevo, facevo lo slalom tra le macchine sul lungotevere e intanto me li appuntavo mentalmente per future ricerche. Anche in motorino riusciva a usare il suo iconico bastone, magari per tenere lontane automobili troppo aggressive. (E le automobili troppo aggressive erano spunto per raccontarmi uno dei suoi aneddoti più famosi: quella volta che era alla guida di una macchina e avrebbe potuto cambiare le sorti dell’Italia, «ma non ebbi la prontezza di investire Gianni Agnelli che mi attraversava a un metro dal naso. Io sarei andato in prigione, certo, ma l’Italia oggi sarebbe migliore!»).

Più di ogni altra cosa, per me in quegli anni era una meraviglia veder passare – nel garage che avevamo parzialmente riadattato a magazzino editoriale e che ospitava anche il nostro piccolo ufficio in cui Goffredo aveva una sua scrivania – autrici e traduttori, giornaliste e intellettuali, editor e fumettisti, grandi nomi ed esordienti: per tutte queste categorie, indistintamente, il bastone era sempre a portata di mano, ma insieme anche la carota dell’incoraggiamento, dell’offerta di un’opportunità, e – specie nel caso di giovani e giovanissimi talenti – dell’entusiasmo quasi infantile verso quell’estro acerbo ma esaltante per lui proprio perché ancora non addomesticato dal mercato culturale.

Non è corretto fare, tra i tanti, un solo nome, ma sicuramente l’aver avuto l’opportunità di lavorare a stretto contatto, fra gli altri, con Alessandro Leogrande, è uno dei regali di cui essergli grato. E se lo cito è perché solo due volte ho visto Goffredo commosso al punto di essere vicino al pianto: al ricordo di Mario Monicelli e al pensiero di cosa abbiamo perso quando abbiamo perso Leogrande.

Si entusiasmò per alcune mie scelte, soprattutto per la riscoperta di classici contemporanei: negli anni di minimum fax Donald Barthelme, James Purdy, Nelson Algren; negli anni successivi avrebbe fatto il tifo per il progetto della nuova casa editrice SUR, che gli raccontai quando era ancora solo un’idea, per avere una sua benedizione, e a cui contribuì suggerendo diversi titoli (fra tutti I sette pazzi, del suo idolo argentino Roberto Arlt, o il romanzo antimperialista Tungsteno del peruviano César Vallejo) e con l’apprezzamento di riproposte come quelle dei libri di Manuel Puig, di cui era stato amico, di Elena Garro e Ricardo Piglia che amava fervidamente, o Grace Paley i cui racconti recensì addirittura (caso unico, credo, nella sua carriera di columnist) per due settimane di seguito nella rubrica su Internazionale.

Ho tardato troppo nel decidermi ad andare a trovarlo dopo l’operazione, e ora mi dispiace di non essere riuscito a salutarlo un’ultima volta. Mi sarei sottoposto volentieri a una ulteriore raffica di quelle sue invettive che mi divertivano anche quando non mi trovavano necessariamente dal suo stesso lato della barricata. Negli anni sembrava aver dato fondo a ogni insulto dedicato ai suoi bersagli preferiti – «voi romani!», «voi editori!», «voi fighetti figli di papà!», «voi intellettuali!» – e quindi negli ultimi tempi, per esser certo di comprendere il più ampio uditorio possibile nelle sue invettive, iniziava le sue tirate con un «voi italiani», che mi ha sempre fatto davvero ridere. Il sorriso da scugnizzo, quando si rendeva conto di aver detto qualcosa di arguto o di buffo, era un piacere per gli occhi e per i sentimenti.

Non credo di aver conosciuto una persona più instancabilmente dedicata al talento altrui e più generosa nel regalare idee, contenuti e progetti per il solo bene della circolazione delle idee; più ferma nelle proprie convinzioni morali, ma al tempo stesso più sincera nell’ammettere un proprio errore di valutazione e rimettersi in discussione.

Non saprei scegliere cosa riascoltare fra le migliaia di ore della sua voce registrata, ma per questo già da oggi viene in aiuto RaiPlay Sound, che ha iniziato a costruire una raccolta «In ricordo di Goffredo Fofi» (suggerisco di iniziare, in maniera casuale, da uno dei quarantanove ritratti di Arcipelago Sud, dove Tina Pica trova posto accanto a Leonardo Sciascia, Sergio Bruni a Carlo Levi, Nino Taranto a Emilio Lussu); aggiungo però quelle godibilissime, recenti conversazioni con Nadia Terranova sui suoi viaggi, che si possono trovare sull’app di Internazionale (nella sezione «Il Mondo extra»).

Ancora più difficile selezionare fra i milioni di pagine che ha scritto, pubblicato, diffuso, curato: forse sceglierei quel volumetto preziosissimo edito da Nottetempo che è Elogio della disobbedienza civile. Termina con una esortazione indimenticabile: «È giunto da tempo il momento di dimostrare nei fatti la nostra impazienza», che racchiude buona parte del suo pensiero.

– Leggi anche: Non importa se eravate d’accordo con Michela Murgia, di Francesco Costa

STORIE/IDEE

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