Il Live Aid ha fatto scuola
Quarant'anni fa Bob Geldof organizzò il più grande concerto benefico di sempre, coinvolgendo Bob Dylan, Madonna, Paul McCartney e soprattutto i Queen

Il 23 ottobre 1984 il musicista irlandese Bob Geldof si imbatté in un servizio della BBC sulla grave carestia allora in corso in Etiopia. Era uno dei primi servizi sull’argomento trasmessi in Europa, dove fino ad allora la situazione non era così conosciuta. Geldof rimase molto colpito da quelle immagini: «un altro mondo ci veniva improvvisamente scagliato addosso», ha raccontato al New York Times.
Dopo aver visto il servizio, Geldof decise di organizzare delle iniziative benefiche per contribuire agli aiuti umanitari all’Etiopia. Cominciò quello stesso anno con la pubblicazione di “Do They Know It’s Christmas?”, un singolo composto e interpretato da Geldof e altri musicisti di fama internazionale riuniti nel supergruppo Band Aid. E proseguì l’anno successivo con il Live Aid, un concerto organizzato tra Londra e Philadelphia a cui parteciparono alcune delle più grandi popstar e band dell’epoca, e che si tenne il 13 luglio di quarant’anni fa.
Quel concerto è ricordato ancora oggi per vari motivi, a partire dalle capacità diplomatiche di Geldof, che riuscì a convincere alcune tra le più grandi star della musica rock e pop di quel decennio a esibirsi gratuitamente in un evento di beneficenza. Tra gli altri, parteciparono al Live Aid David Bowie, Madonna, Elton John, Tina Turner, Paul McCartney, i Queen, i Led Zeppelin, B.B. King, Crosby, Stills, Nash & Young e gli Who. Fino a quel momento nessun altro festival era riuscito a riunire musicisti e gruppi di quel rilievo.
Questa circostanza contribuì a rafforzare la risonanza del Live Aid, che fu percepito fin da subito come uno degli eventi musicali più importanti di sempre, forse il più importante mai organizzato fino a quel momento, e non come un semplice concerto benefico.
Anche la portata mediatica del Live Aid fu piuttosto impressionante per i tempi: fu visto da più di un miliardo e mezzo di persone in 150 paesi, e raccolse complessivamente più di 140 milioni di dollari.
Il Live Aid si svolse nell’arco di circa 16 ore. Il concerto di Wembley si concluse in serata e quello di Philadelphia andò avanti fino a tarda notte, con collegamenti in diretta tra i due continenti e milioni di spettatori connessi da ogni parte del mondo.
Tra tutte le esibizioni del Live Aid, quella dei Queen è la più radicata nell’immaginario collettivo. È ricordata ancora oggi come una delle più importanti e rappresentative della loro carriera, ed è stata ricostruita in modo molto dettagliato nella parte finale del film Bohemian Rhapsody (2018).
Freddie Mercury si presentò sul palco con jeans chiari, una canotta bianca e un bracciale borchiato, e insieme al chitarrista Brian May, al bassista John Deacon e al batterista Roger Taylor suonò alcune tra le canzoni più famose della band: “Bohemian Rhapsody”, “Radio Ga Ga”, “Hammer to Fall”, “Crazy Little Thing Called Love”, “We Will Rock You” e “We Are the Champions”.
L’interazione tra la band e il pubblico fu uno degli elementi che contribuì a rendere quell’esibizione memorabile. Mercury coinvolse gli spettatori con grande naturalezza, facendoli cantare, battere le mani e rispondere ai suoi vocalizzi. Il momento in cui intonò il celebre “Ay-oh”, facendolo ripetere in coro da decine di migliaia di persone, è forse il più ricordato di tutto il Live Aid.
Eppure, i Queen rischiarono addirittura di non partecipare a quel concerto. In un’intervista data alla rivista inglese Mojo Harvey Goldsmith, uno dei promoter che organizzò il Live Aid insieme a Geldof, ha raccontato che i Queen non accettarono subito la sua proposta. «Avevano appena finito un lungo tour, erano stanchi, volevano fermarsi. In più eravamo davvero sotto data».
Inoltre, Mercury era un po’ scettico sulla possibilità di esibirsi nel tardo pomeriggio (i Queen cominciarono a suonare alle 17.30). «Naturalmente, volevano essere loro a chiudere il concerto. No, dissi, voglio che vi esibiate in questo slot. Penso che ciò che convinse Freddie [Mercury], alla fine, fu la possibilità di essere visto da più di un miliardo di persone, era qualcosa senza precedenti. Penso che abbia pensato: “Ok, adesso ve la faccio vedere io…”», ha aggiunto Goldsmith.
Anche l’esibizione degli U2 è considerata tra le più rappresentative del Live Aid. Suonarono due canzoni: “Sunday Bloody Sunday” e una versione molto estesa di “Bad”, che tra l’altro conteneva anche la citazione del verso più famoso di “Walk on the Wild Side” di Lou Reed.
Sul finale di “Bad”, il cantante Bono Vox scese dal palco e raggiunse le prime file del pubblico, aiutò due spettatrici a superare la calca e si fermò a ballare con una di loro. L’interruzione prolungò l’esecuzione oltre il previsto, costringendo la band a rinunciare alla terza canzone in scaletta, “Pride (In the Name of Love)”. Negli anni successivi gli U2 fecero dell’attenzione ai temi sociali un loro tratto distintivo.
Altri aneddoti sul Live Aid riguardano i musicisti e le band che, per un motivo o per l’altro, alla fine non parteciparono. Il caso più famoso è quello dei Tears for Fears, che rinunciarono per via di alcune incomprensioni con Geldof e di alcuni dubbi sulla reale destinazione dei fondi. Non suonò neppure Cat Stevens, nonostante avesse scritto una canzone appositamente per il Live Aid.
Altre esibizioni sono ricordate più che altro per le polemiche che generarono. Per esempio, durante il suo set con Keith Richards e Ronnie Wood, Bob Dylan disse di aspettarsi che una parte dei proventi del Live Aid venisse utilizzata per aiutare gli agricoltori americani a saldare i mutui delle loro fattorie, distogliendo così l’attenzione dalla carestia in Etiopia.
Grazie al Live Aid Geldof è diventato un’importante e rispettata figura di impegno civile, e uno dei più abili promoter in circolazione. La formula che aveva creato (riunire i musicisti più famosi al mondo in un concerto benefico) è stata replicata in moltissimi paesi e declinata in vari modi, diventando un modello per numerose iniziative solidali nel campo della musica e dello spettacolo.
Negli ultimi quarant’anni però l’operato di Geldof, e più in generale la sua visione di “concerto benefico”, sono stati oggetto di una riconsiderazione critica. Giornalisti, accademici e attivisti, molti dei quali appartenenti alla diaspora africana, hanno evidenziato soprattutto le semplificazioni, spesso superficiali e sbrigative, con cui l’Africa (spesso come intero continente) viene conosciuta e raccontata in eventi di questo tipo.
Secondo le interpretazioni più severe, eventi come il Live Aid sarebbero viziati dal cosiddetto “complesso del salvatore bianco”. L’espressione indica lo spirito missionario tipico di alcune persone bianche e privilegiate convinte, con una certa presunzione e talvolta con un buon grado di esibizionismo, di essere fondamentali per aiutare popolazioni più povere, e di sapere esattamente quale sia il modo giusto di aiutarle.
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