In fila per Wimbledon, con l’emicrania
«Chi non può permettersi di spendere migliaia di sterline o non ha inviti esclusivi ha altre due strade. La prima è il public ballot, una lotteria in due tornate annuali che consente di acquistare biglietti solo a pochi fortunati. L’altra possibilità è farsi The Queue, La Coda»

La mia ossessione per il tennis è arrivata tardi. La prima volta che ho visto una partita intera è stato soltanto nell’autunno 2020. Quell’anno il Roland Garros si è disputato eccezionalmente in autunno, nell’atmosfera rarefatta degli stadi vuoti. Per ovvie ragioni, il tennis è stato tra i primi sport a riprendere dopo i lockdown. Ero in astinenza da competizione e l’incontro con il tennis è stato fatale. Ogni settimana un nuovo torneo, ogni giorno partite che hanno un orario di inizio incerto e possono protrarsi per ore. Una presenza fissa, compressa nelle pieghe e negli angoli della vita di tutti i giorni.
Fino a quel momento, avevo ignorato deliberatamente il significato di break, contro-break, passante, inside in e così via. Oggi convivo con la consapevolezza di aver sprecato gran parte della mia esistenza senza il tennis. Essermi privato di un’adolescenza durante l’oro dei big three – Novak Đoković, Rafael Nadal e Roger Federer – è un rammarico che mi porterò nella tomba. È rimestando in questo senso di colpa che ho deciso di assistere dal vivo a una partita del torneo di Wimbledon.
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Ci sono molte ragioni per cui Wimbledon è considerato un torneo leggendario. Innanzitutto, è il più antico, fu fondato nel 1877. Oggi è anche l’unico Slam che si gioca ancora sull’erba, una superficie viva e mutevole, che richiede tecnica pura e favorisce un gioco offensivo, rapido e istintivo. Nel corso dei decenni Wimbledon ha conservato intatti i suoi rituali: per tradizione inizia a cinque settimane dal primo lunedì di agosto, impone un severo dress code total white a chi scende in campo, prevede la presenza della royal family durante la finale. E poi c’è l’aura del Campo centrale. «Un impluvio morbido in cui si raccoglie l’attenzione del paesaggio» come lo descrive Daniele Del Giudice nel suo romanzo Lo stadio di Wimbledon. In quell’impluvio, chi alza al cielo la coppa, raggiunge senz’altro il traguardo più alto della propria carriera.
Il tratto della District line che porta nei pressi dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club non apre prima delle sette di mattina. Per questo devo attraversare Londra in taxi alle prime luci dell’alba. Ho dormito una manciata di ore e sono alle prese con i postumi di un volo low cost scomodo, punitivo e abietto. Non prendevo un aereo da sette anni, ma per il tennis, mi sono detto, potevo sopportare quella barbarie di alluminio, carbonio e acciaio.
Chi non può permettersi di spendere migliaia di sterline o non ha accesso a inviti esclusivi ha due strade per entrare all’All England Club durante il torneo. La prima è il public ballot, una lotteria che prevede due tornate annuali e consente di acquistare biglietti solo a pochi fortunati. L’altra possibilità è The Queue, La Coda. Ecco un altro aspetto che contribuisce alla leggenda di Wimbledon. Nei primi dieci giorni della competizione, l’organizzazione mette in vendita quotidianamente un numero limitato di biglietti a prezzi calmierati. The Queue è la coda di migliaia di persone che si crea ogni giorno per riuscire ad ottenerli. Wimbledon è l’unico torneo di livello internazionale che offre un sistema del genere, perfettamente regolamentato e codificato, e questo è possibile perché si disputa a Londra.
Non sono neppure le cinque del mattino e ci sono oltre cinquemila persone arrivate prima di me, alcune delle quali hanno dormito qui in tenda. Prendo posto dove mi viene indicato dagli steward in livrea, che si muovono tra i gruppi distribuendo sorrisi e parole gentili. I cancelli non apriranno prima delle dieci. Subito prima di me c’è una coppia di signori sulla settantina. Si sistemano su delle sedie pieghevoli e sorseggiano tè caldo dai loro termos. Scambio qualche parola con loro. Sono marito e moglie, ed è la settima volta che partecipano alla Queue nella loro vita, mi dicono. Secondo la loro esperienza, ci sono buone possibilità di entrare prima dell’ora di pranzo. Poco dopo, quando inizia a piovere, tirano fuori due graziosi ombrelli e rimangono seduti senza scomporsi. «It’s just a spit, innit?» mi dicono divertiti.

The Queue, alba su Wimbledon (foto Edoardo Vitale)
Mettersi in fila è un’abitudine profondamente radicata nella cultura britannica. Secondo il sociologo Joe Moran, autore del saggio Queuing for Beginners: The Story of Daily Life from Breakfast to Bedtime, gli inglesi nutrono una predilezione per l’autodisciplina e la correttezza. Tutti quanti facciamo la fila – alla cassa, alle poste – e la consideriamo perlopiù una seccatura. Nel Regno Unito è una specie di compulsione, prima ancora che un collante sociale. È per questo che David Beckham — rimasto in attesa per tredici ore per rendere omaggio al feretro della Regina — è stato celebrato come un eroe nazionale. Al contrario, Holly Willoughby e Phillip Schofield, due volti noti della TV britannica che la fila l’hanno saltata, sono finiti al centro di un vero e proprio scandalo da prima pagina sul Sun.
In piena propaganda anti-laburista, Churchill arrivò a parlare di rischio «Queuetopia». Detestava le code e le considerava roba da socialisti: simbolo di inefficienza, povertà e disordine. In vista delle elezioni generali del 1979, l’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi realizzò una campagna per il partito conservatore di Margaret Thatcher, che mostrava una lunga coda e lo slogan «Labour isn’t working». È curioso che oggi, invece, mettersi in fila sia diventata una forma di perversione capitalista: immagine di consumismo estremo, iperturismo, esclusività.
La polizia che interviene alla svendita di padelle Le Creuset, la vendita al buio di King Colis, i sample sale che si sono trasformati in passerelle, nelle quali stare in coda non è tanto finalizzato all’acquisto quanto allo status symbol che rappresentano. Le file chilometriche fuori dalle nuove bakery virali su TikTok, la notte prima dell’uscita di un romanzo di Sally Rooney, o alla vigilia di un concerto di Taylor Swift. Probabilmente la Queue di Wimbledon non è così diversa. Anche se si tratta di un rito collettivo che esiste da oltre un secolo, è sopravvissuto a Churchill e sembra immune a TikTok. Forse è la pioggia che aggiunge epica all’impresa, ma ho l’impressione che l’atmosfera che si respira qui sia più ricca di significati. Le persone che ne fanno parte non appartengono alla stessa bolla né a una fascia d’età molto specifica. Nessuno finge che la fila sia parte dell’ostentazione. È solo una cosa che si fa per poter guardare delle partite di tennis.
Nel frattempo l’organismo vivente dietro di me è cresciuto oltre ogni fervida immaginazione. In contraddizione con ogni idea di velocità dei giorni feriali, eccoci qui, a barattare sonno e schiena in questo purgatorio dal quale, in qualche modo, usciremo tutti mondati. Un gruppo di ragazzini gioca con un frisbee, molti sono assorti in ciò che ascoltano dalle cuffie wireless. Una ragazza seduta poco più indietro legge tutto La fattoria degli animali di George Orwell. Avrei voluto chiederle il perché di quella scelta, ma non l’ho fatto. Io non faccio granché. Provo a dormire, ma non ci riesco. Leggo qualche pagina ma mi distraggo. Faccio qualche partita a backgammon sul telefono. Tuttavia la scelta migliore è abbandonarsi a non fare niente. È nella contemplazione del nulla che il tempo passa più in fretta.
Quando aprono i cancelli, quindicimila persone iniziano a muoversi. Devote e baritonali. Una lenta marcia agonizzante, eppure fervida. Una sorta di archivio vivente. Ci sono delle caratteristiche che accomunano questa ieratica attesa a una partita di tennis. Un desiderio di penitenza e di rivelazione che sfida la logica e il dubbio. Mentre siamo in cammino verso la meta gli steward distribuiscono adesivi che attestano: «I queued in the rain». In seguito avrei scoperto che esiste anche la versione «I queued in the sun» e ci sono rimasto parecchio male.

Le tende da uno ammesse per i partecipanti a The Queue (foto Edoardo Vitale)
Quando metto piede nell’All England Club sono passate da poco le tredici. Adesso posso dedicarmi a ciò che stavo stoicamente ignorando. Sta venendo a farmi visita il mio incubo peggiore: l’emicrania. Come sa bene chiunque soffra di emicrania, rendersi conto della sua presenza significa che è già troppo tardi. Ingerisco a stomaco vuoto tutto l’ibuprofene che ho con me e spero nella clemenza del mostro. So di avere ancora una buona riserva di autonomia e mi aggrappo a quella.
La prima cosa che faccio, dopo tutte quelle ore di coda, è aggregarmi a un’altra coda. Si tratta della rivendita dei biglietti per gli show courts, quelli più prestigiosi, dove si disputano le partite di cartello. Chi lascia il torneo durante la giornata può rimettere a disposizione il proprio biglietto, che viene rivenduto a una cifra simbolica, interamente devoluta in beneficenza. Il chiosco del resale è poco distante dalla Hill, qui il personale scansiona un QR code sull’app ufficiale di Wimbledon. Sembra una funzione amministrativa. Si sceglie per quale campo mettersi in lista d’attesa e poi si spera che si liberino dei posti. Se succede, arriva una notifica sull’app, e si hanno venti minuti per tornare al chiosco e riscattare il biglietto. Mi iscrivo per un posto al Campo centrale, ma apprendo subito che è un miraggio. L’app dice che la mia posizione nella coda è la numero quindicimila. Ultimo aggiornamento alle 13:44, evidenzia la schermata.
L’All England Club è grande e affollato quanto un borgo durante il weekend. Le partite sono sospese per pioggia, tranne sul Campo centrale e sul Campo uno, che dispongono di un tetto retrattile. È da lì che, con cadenza irregolare e ipnotica, sentiamo i mormorii, le esultanze, le grida di stupore e gli applausi del pubblico. Un lessico sonoro a cui si fa presto l’abitudine come con un mantra. Ho approfittato della pioggia per prendere posto in prima fila al Campo sette dove, non appena sarà di nuovo possibile giocare, Lorenzo Musetti disputerà il primo turno.

Quel che si vede da dentro (foto Edoardo Vitale)
Si sarebbe spinto fino alla semifinale del torneo, dando inizio a una trasformazione che oggi lo vede in pianta stabile in top ten della classifica ATP. È passato soltanto un anno, ma quello che ho visto scendere in campo quel giorno era ancora un giocatore discontinuo, un talento irrisolto, traslocato da poco nell’età adulta, capace di rovesci celestiali e smarrimenti improvvisi. Infatti perde il primo set contro un francese che indossa degli insoliti calzettoni alti fino al ginocchio e che non è niente di che, mentre dall’altra parte del campo volano improperi.
La partita viene sospesa due volte per pioggia e i raccattapalle sono costretti agli straordinari. Mettono e tolgono i teloni impermeabili in tempi record, tra gli incitamenti del pubblico. Macchie fluorescenti di k-way e occhiali da sole specchiati. La partita si dilungherà per diverse ore sotto un cielo plumbeo. Mia madre mi chiama per dirmi che mi ha riconosciuto tra il pubblico guardando la partita su Sky. Mi manda delle foto spixelate dalle quali riconosco la mia faccia in agonia, trincerata dietro a degli occhiali scuri. Nella foto cerco di massaggiare la cervicale che mi sta dando il tormento. Il tempo si dilata, finché la partita si conclude al quarto set, a favore dell’italiano col rovescio a una mano più brillante del circuito. Penitenza e rivelazione.

Screenshot di schermo televisivo con figlio tra il pubblico durante la diretta del torneo di Wimbledon (foto mamma di Edoardo Vitale)
Assisto a qualche altro game, gironzolando tra i campi minori, dove nomi a me sconosciuti battagliano per briciole di gloria. A metà pomeriggio c’è un’ennesima interruzione per pioggia, così ne approfitto per visitare il museo, acquistare qualche souvenir, mangiare le famose fragole con panna — che, se posso permettermi, ho trovato piuttosto insipide.
L’aura, dice il neurologo Oliver Sacks nelle sue ricerche sull’emicrania, è il prologo di una crisi — ma non solo: è un’alterazione strutturale della coscienza, uno sfaldamento temporaneo del senso del sé. Non un collasso, ma un disallineamento. Quando il dolore diventa insopportabile ed esaurisco le forze, mi concedo un ultimo, sfacciato, capriccio. Mi avvicino a una delle porte d’accesso del Campo centrale e chiedo alla ragazza della security se, al prossimo cambio di campo, posso entrare solo per un istante, giusto per vedere l’interno dello stadio. Contro ogni aspettativa, acconsente. In quel momento stanno giocando la speranza del tennis britannico Jack Draper e lo svedese Elias Ymer. Per un attimo mi attraversa l’idea di intrufolarmi tra la folla. Davvero interromperebbero il gioco per mandarmi via? Mi volto: nessuno mi controlla. Questo atto minimo di fiducia mi commuove. Scatto un paio di foto e un breve video, poi esco, salutando la ragazza della security, che mi guarda come una che si è già dimenticata di me.

Un guardiano del Campo centrale (foto Edoardo Vitale)
Di ritorno sulla District line sono un guscio vuoto. I continui cambi di luce, la pioggia alternata a un sole insolitamente cocente per Londra, il volo, i cambi di pressione, sono stati determinanti. Un attacco di emicrania è simile a un’avaria. Ogni stimolo diventa insopportabile, le informazioni che arrivano dai sensi diventano semplicemente insostenibili: odori, sapori, suoni, immagini. L’esistenza si riduce ai minimi termini e anche le funzioni di base si fanno incerte – faccio fatica a camminare o a formulare frasi composte –, l’unica cosa che si può fare è correre al riparo e aspettare che l’attacco esaurisca il suo corso. Così, torno nella casa che mi ospita e resto al buio. Felice ed esausto.
In salotto, i miei amici stanno guardando sulla BBC l’ultima partita in programma. In campo ci sono Sinner e Berrettini: due italiani, il primo da poche settimane in cima alla classifica ATP, l’altro di ritorno dopo un lungo calvario, nel campo dove solo un paio d’anni prima aveva disputato la finale contro Đoković. Le inquadrature dall’alto mostrano l’All England Club ormai deserto; l’unica luce proviene dallo stadio. Il primo set dura un’ora, finisce al tie-break, lo vince Sinner. Si preannuncia una lunga battaglia. Berrettini gioca sulla sua superficie preferita, è stato martoriato dagli infortuni, ma a Wimbledon ha un conto in sospeso con il destino. Dopo mesi di assenza la sua classifica è precipitata ed è per questo che ha ottenuto un sorteggio punitivo, proprio contro il nuovo prototipo del tennista perfetto. È una di quelle partite che scavano un piccolo solco in chi assiste, è già evidente.
Il mio iPhone si illumina. È la notifica dall’app di Wimbledon. Ho ottenuto l’accesso al Campo centrale tramite la rivendita. Sto vedendo in televisione una partita mitologica – quattro set in quattro ore, con altri due tie-break – alla quale potrei assistere dal vivo. Mentre me ne rendo conto, indosso ancora il braccialetto che mi darebbe diritto a rientrare nella struttura. Un nuovo rimpianto da aggiungere alla collezione. Uno prestigioso come Wimbledon.
È stato terribile. Quest’anno ci ritorno.
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