Vent’anni fa in Italia finì il servizio militare obbligatorio

Con l'ultimo atto di un percorso iniziato qualche anno prima e che coinvolse tre governi, in uno dei quali il ministro della Difesa lo faceva Mattarella

I bersaglieri in via dei Fori Imperiali, a Roma, durante una parata militare, 2 giugno 2003 (DANILO SCHIAVELLA / ANSA / PAL)
I bersaglieri in via dei Fori Imperiali, a Roma, durante una parata militare, 2 giugno 2003 (DANILO SCHIAVELLA / ANSA / PAL)
Caricamento player

Il primo luglio di vent’anni fa sulla Gazzetta Ufficiale venne pubblicato un decreto-legge che riguardava la pubblica amministrazione, il numero 115 del 30 giugno. Con l’articolo 12, quel decreto poneva fine all’obbligatorietà della leva militare, permettendo al personale in servizio di fare domanda per la cessazione dell’attività. Fu l’ultimo atto della sospensione della leva militare, un percorso iniziato qualche anno prima e che coinvolse tre governi.

Il servizio militare di leva, conosciuto formalmente come “coscrizione obbligatoria”, indicava il periodo di tempo (modificato più volte nel corso dei decenni) che la maggioranza dei cittadini maggiorenni doveva passare ad addestrarsi nelle forze armate. Obbligatorio in alcuni stati preunitari, tra cui nel Regno di Sardegna dal 1854, fu a partire dal 1861 e con la nascita del Regno d’Italia che venne esteso su tutto il territorio in modo graduale e progressivo.

Il dovere del servizio militare venne sancito definitivamente, per tutti i cittadini di sesso maschile, con una legge del 1875, poi modificata più volte nei decenni successivi, e infine confermato, con alcune limitazioni, dopo la nascita della Repubblica Italiana anche nella Costituzione: l’articolo 52 dice infatti che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Coloro che dopo aver ricevuto la chiamata non si fossero presentati presso il distretto militare competente per essere sottoposti alla visita medica e essere dichiarati idonei, rifiutandosi di prestare il servizio, potevano essere accusati del reato di renitenza alla leva e puniti con la reclusione in carcere.

Il primo e più celebre caso di condanna per obiezione di coscienza al servizio militare ci fu nel 1948, quando Pietro Pinna, attivista antimilitarista considerato il primo obiettore di coscienza della storia italiana, rifiutò la chiamata e fu condannato a diversi mesi di carcere. «All’epoca, nel ’48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra», racconterà più tardi Pinna in un’intervista. «Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici del movimento non violento. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l’idea di diventare parte di uno strumento, l’esercito, che è essenziale all’azione bellica».

Con i movimenti antiautoritari e antimilitaristi del Sessantotto, grazie alla pratica delle obiezioni di coscienza collettive, delle migliaia di cartoline spedite ai presidenti di Camera e Senato e di uno sciopero della fame di 38 giorni iniziato da Marco Pannella e portato avanti da centinaia di militanti radicali e non violenti, l’obiezione di coscienza fu infine disciplinata nel 1972 con la legge 772 (con obiezione di coscienza ci si riferisce alla possibilità di essere esentati dalla leva appellandosi a convinzioni personali). Da lì in poi l’obiezione venne ammessa come eventualità concessa dallo Stato, non ancora come un diritto (cosa che avverrà nel 1998) e venne introdotto anche il servizio civile, obbligatorio, alternativo e sostitutivo a quello militare per chi fosse risultato idoneo alla visita di leva ma non volesse prestare servizio armato.

Marco Pannella a Roma, 27 gennaio 1975 (ANSA/OLDPIX)

Tra gli anni Ottanta e Novanta i mesi del periodo obbligatorio di leva furono ridotti. Ma in quel periodo aumentarono le domande degli obiettori, e si sviluppò una generale e crescente avversione alla coscrizione obbligatoria. Ci furono anche alcuni gravi episodi legati alla pratica del nonnismo che colpirono profondamente l’opinione pubblica. Tutto ciò portò l’allora governo presieduto da Massimo D’Alema ad approvare il disegno di legge del ministro della Difesa Carlo Scognamiglio per avviare il processo di superamento della leva obbligatoria introducendo anche, per la prima volta, il servizio militare volontario per le donne.

La proposta diventò legge nel novembre del 2000, durante il secondo governo Amato. All’epoca il ministro della Difesa era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Nella relazione di accompagnamento del testo si diceva che «le forze militari (…) oltre al tradizionale e perdurante ruolo di difesa della sovranità ed integrità nazionale, sono chiamate ad una funzione più dinamica per garantire la stabilità e la sicurezza collettiva con operazioni di gestione delle crisi e di supporto della pace». Si spiegava poi che questa nuova funzione implicava la necessità di trasformare lo strumento militare «dalla sua configurazione statica ad una più dinamica di proiezione esterna, con più rapidi tempi di risposta all’insorgere dell’esigenza ed una più completa e complessa preparazione professionale». E si concludeva che il modello che meglio rispondeva a questa nuova connotazione era quello «interamente volontario». Di fatto la coscrizione obbligatoria non fu comunque abolita: la legge stabiliva che potesse essere ripristinata in casi eccezionali, quali quelli di guerra o di crisi di particolare rilevanza, e conferiva al governo italiano la delega a emanare disposizioni per la modifica dell’obbligo e la sostituzione dei militari in servizio obbligatorio con volontari entro sette anni.

Soldate in addestramento ad Ascoli Piceno, 26 gennaio 2001 (CHIODI/ANSA/PAT)

Nel frattempo, il 16 luglio del 2004, la Corte costituzionale si pronunciò su alcune questioni di legittimità in merito al servizio civile stabilendo che il dovere di difendere la patria, sancito dalla Costituzione, potesse essere assolto ugualmente in altri modi diversi dalla difesa militare. Si arrivò così alla legge numero 226 del 23 agosto del 2004, detta “legge Martino” dal ministro della difesa proponente Antonio Martino. Fu promulgata durante il secondo governo Berlusconi, e anticipava la sospensione delle chiamate per lo svolgimento del servizio di leva a partire dal primo gennaio del 2005. Disponeva comunque la chiamata al servizio, fino al 31 dicembre del 2004, per tutte le persone nate entro il 1985 incluso, tranne nel caso di coloro che avessero presentato domanda di rinvio per motivi di studio. Votarono a favore sia gli esponenti dell’allora maggioranza di centrodestra che buona parte dell’opposizione di centrosinistra: i favorevoli alla fine furono 433, i contrari 17, gli astenuti 7. L’approvazione fu applaudita dall’aula.

Un successivo decreto del ministero della Difesa fissò al 30 settembre del 2004 il termine delle visite di leva mentre un altro decreto-legge, il numero 115 del 30 giugno 2005, introdusse infine la possibilità per il personale in servizio di leva o in servizio civile sostitutivo di poterlo terminare prima con apposita domanda.

Da quel momento in poi l’Italia, come molti altri paesi del mondo, cominciò ad avere delle forze militari “professioniste”, composte da persone su base volontaria. Con l’abolizione della leva obbligatoria, scrisse a quel tempo Il Manifesto, «viene a cadere implicitamente quell’ideologia e quella pratica che voleva il popolo riconoscersi nella sua nazione e la nazione nel suo esercito», ma, si aggiungeva, «assistere con soddisfazione alle esequie del vecchio, non significa plaudire al battesimo del nuovo. L’esercito professionale è concepito per rendere la guerra più duttile e praticabile, tanto più micidiale quanto meno traumatica agli occhi dell’opinione pubblica. Affare di specialisti e di mansioni ben definite e tanto peggio per chi ne diviene di volta in volta il bersaglio. Del resto, il lavoro salariato fu indispensabile allo sviluppo dell’industria manifatturiera, così come il combattente salariato lo è a quello dell’industria della guerra».