Ci stiamo stufando delle serie tv sui ricchi
L'efficacia di satire come “Succession” e “The White Lotus” ha prodotto molte imitazioni, troppe imitazioni

Un paio di anni fa tra critici e appassionati si era cominciato a notare il successo di film e serie televisive con persone molto ricche e facoltose come personaggi principali. Buona parte del loro apprezzamento era dovuta al fatto che fossero concepiti come prodotti di satira e di critica sociale, capaci di mettere in luce i paradossi e le ipocrisie di persone che potenzialmente possono avere tutto ma che finiscono col vivere vite meschine o vuote. Vale per le popolarissime serie tv Succession e The White Lotus, ma anche in parte per Squid Game, o per film come Triangle of Sadness e The Menu.
Da allora questa tendenza è un po’ degenerata e ora alcuni commentatori stanno facendo notare come serie tv ambientate in contesti di lusso e con personaggi ricchissimi siano diventate fin troppo frequenti, e ben meno sottili e capaci di metterne in luce limiti e contraddizioni rispetto ad alcuni anni fa. Non solo: apparentemente, anche nelle serie non ambientate in questi contesti, viene dato spazio a case e vestiti costosi, e il racconto delle difficoltà economiche tipiche della maggior parte delle persone sembra essere evitato in tutti i modi.
Tra i primi a far notare il fenomeno c’è stata l’opinionista Rebecca Shaw sul Guardian, secondo la quale sarebbe «diventato più ovvio dall’uscita dell’ultima stagione di The White Lotus». Ogni stagione della serie è ambientata in un resort di lusso di un paese diverso e gira attorno alle relazioni tra i suoi ospiti facoltosi e a uno o più omicidi. The White Lotus è stata molto acclamata nelle sue prime due stagioni, ma arrivata alla terza l’entusiasmo è un po’ calato: c’è chi l’ha criticata per non essere riuscita a rinnovarsi, e chi per i personaggi sempre uguali e per il finale considerato poco risolutivo. In compenso l’attenzione della produzione ai costumi e alla scenografia sembra essere raddoppiata rispetto alla prima stagione.
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Altri commentatori invece hanno fatto notare l’eccesso di ricchezza nel sequel di Sex and the City, And Just Like That, di cui stanno uscendo in queste settimane gli episodi della terza stagione. Le quattro protagoniste trentenni della serie originale sono sempre state personaggi mondani, con vestiti di marca e l’abitudine a incontrarsi nei più ambiti locali di New York. Molte recensioni però hanno fatto notare come nel sequel – in cui le protagoniste hanno superato i cinquanta – il lusso (evidente negli abiti, negli appartamenti e nelle abitudini e priorità) abbia assunto un ruolo ancora maggiore e a volte eccessivamente spudorato, diventando fastidioso per lo spettatore soprattutto perché non compensato da un uguale impegno degli sceneggiatori nello sviluppo della trama.
A differenza delle serie di qualche anno fa, ora il lusso non sembra essere usato in modo funzionale al racconto, ma più che altro come mezzo per compiacere lo spettatore e senza particolari ragioni narrative. Sul Guardian Stuart Heritage ha scritto che «la rappresentazione del benessere estremo in televisione va bene se ha un senso. […] Il problema è quando questo sfugge, e i personaggi sono ricchi solo perché i produttori vogliono dare allo spettatore qualcosa di bello da guardare».
Da poco è uscita la seconda stagione di Nine Perfect Strangers (Prime Video) in cui Nicole Kidman interpreta Masha, una specie di guru che gestisce una lussuosa spa e guida i suoi facoltosi ospiti in un inquietante ritiro spirituale. La carriera recente di Nicole Kidman è molto esemplificativa di questo fenomeno ed è diventata una specie di meme, dal momento che negli ultimi anni ha interpretato praticamente solo varianti di una stessa categoria di personaggio: la madre di famiglia ricca. Oltre che in Nine Perfect Strangers, andando a ritroso, anche in The Perfect Couple, The Undoing e Big Little Lies. Ma anche nel suo penultimo film, Babygirl, in cui interpreta una ricca manager che ha una relazione con uno stagista.
Altre serie recenti ambientate in contesti di lusso sfrenato sono Sirens e Your Friends & Neighbors. La prima, che ha ricevuto critiche piuttosto negative, racconta la storia di una donna appena uscita dal carcere che cerca di riallacciare il rapporto con la sorella, la quale però è totalmente succube della propria datrice di lavoro: una donna miliardaria interpretata da Julianne Moore. La seconda ha come protagonista Jon Hamm e racconta di un uomo che ha fatto il manager per tutta la vita che viene improvvisamente licenziato e per non cambiare il proprio stile di vita si mette a rubare nelle case dei vicini. Se in questi due casi la ricchezza dei personaggi fa parte della storia, in The Better Sister, serie thriller di Prime Video con Jessica Biel, case e abiti di lusso sono gratuiti. Sul Guardian Heritage ha scritto che «è impossibile farsi coinvolgere perché tutti vivono la propria vita in uno stato di elevato benessere economico».
Nella sua newsletter la scrittrice statunitense Emily J. Smith ha fatto recentemente notare come le difficoltà economiche un tempo fossero usate come espedienti narrativi forti, capaci di creare empatia negli spettatori. Basta pensare per esempio a Girls, diventata una serie di culto a partire dal 2012, in cui la protagonista si divide per tutta la serie tra il bisogno di pagare l’affitto e il desiderio di dedicarsi al lavoro creativo. O Shameless, serie durata undici stagioni sulla vita di una famiglia disastrata in un quartiere periferico di Chicago, in cui il tema della povertà ricorre praticamente in ogni puntata.
Ora, fa notare Smith, le preoccupazioni legate ai soldi sono state in qualche modo eliminate, anche dalle serie tv non ambientate in contesti di lusso, per esempio introducendo un personaggio ricco che permette agli altri di non dover pensare a mantenersi.
Fa l’esempio di Hacks, serie tv molto premiata che racconta del rapporto tra una comica ricca e di successo ma non più giovane, e di un’autrice ventenne e squattrinata che finisce a lavorare per lei. Oppure quello di Dying for Sex, serie con Michelle Williams uscita da poco su Disney+, che racconta di una donna malata di cancro che si dedica alla riscoperta della propria sessualità dopo aver lasciato il marito, il quale però continua a sostenerla economicamente. Smith definisce il suo personaggio «un pilastro necessario», che ha permesso agli sceneggiatori di fare una serie «senza dover trattare il caos distopico di navigare nel nostro attuale sistema sanitario senza un lavoro».
È stato fatto notare come questa tendenza verso il benessere economico riguardi anche alcune serie i cui personaggi sono teoricamente persone della classe media e con lavori normali. Vale per la serie romantica Nobody Wants This o per la commedia The Four Seasons, che sono ambientate in case grandi, plausibilmente molto costose e con arredamento di lusso, e mostrano in generale stili di vita e spensieratezze che molte persone nella realtà non potrebbero permettersi.
Questo fenomeno è stato spiegato principalmente con due fattori. Il primo e più banale è che sempre di più negli ultimi anni le serie si sono rivelate un efficace canale di promozione per aziende sponsor nel settore della moda ma non solo (con vestiti o accessori andati a ruba dopo essere stati indossati da un personaggio e ripresi dai giornali di moda). In questo senso per le produzioni è diventato molto vantaggioso inserire prodotti per la casa o abiti nelle loro scene: le aziende che possono permettersi questo tipo di sponsorizzazioni però sono quelle più grandi e ricche, e quindi solitamente del settore del lusso.
L’altro fattore viene accennato da Smith nella sua newsletter ed è meno facile da dimostrare. Secondo lei si è diffusa in generale una tendenza nelle grandi società di produzione americane a evitare di raccontare le difficoltà economiche e in generale a non voler proporre agli spettatori un tema considerato potenzialmente respingente, soprattutto in un momento in cui negli Stati Uniti e un po’ in tutto il mondo c’è una generale incertezza sull’andamento dell’economia. «Vanno prese delle decisioni», scrive Smith: «confrontarsi con la crescente povertà di una famiglia media o lavarsene le mani?».



