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  • Lunedì 30 giugno 2025

Il Kashmir indiano non è solo conteso, ma anche colonizzato

Lo raccontano i kashmiri e lo si vede ovunque nella capitale militarizzata Srinagar, dove il governo nazionalista di Modi sta favorendo i trasferimenti di indiani induisti

di Valerio Clari

Un soldato indiano passa vicino a un graffito a Srinagar, nel 2016: negli anni successivi rivendicazioni di questo genere sono diventate impossibili (AP Photo/Dar Yasin)
Un soldato indiano passa vicino a un graffito a Srinagar, nel 2016: negli anni successivi rivendicazioni di questo genere sono diventate impossibili (AP Photo/Dar Yasin)
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A inizio giugno il primo ministro dell’India, il nazionalista Narendra Modi, ha inaugurato un enorme ponte ferroviario. Lo ha percorso a piedi sventolando una grande bandiera indiana. Il ponte era l’ultimo pezzo mancante di una linea ferroviaria dal costo di oltre 4 miliardi di euro che ora collega le regioni settentrionali dell’India con il Kashmir, territorio himalaiano ancora più a nord conteso fra India e Pakistan da quasi 80 anni. È proprio in Kashmir che a maggio c’erano stati gli ultimi scontri che avevano fatto temere una guerra più ampia fra gli eserciti di India e Pakistan, due paesi dotati di decine di bombe nucleari.

Negli ultimi anni, a causa proprio delle politiche di Modi, il Kashmir indiano è cambiato perché gli è stato tolto praticamente ogni potere decisionale. Il governo centrale controlla sempre più la regione usando la repressione e la militarizzazione. Ha iniziato a costruire grandi opere che servono a facilitare movimenti e trasporti con il resto del territorio nazionale: in particolare i trasferimenti di persone provenienti da altre regioni dell’India, che in Kashmir possono comprare piuttosto facilmente terreni e avviare attività.

Molti kashmiri pensano che sia in atto un processo di colonizzazione e di trasformazione della società locale, con il progetto a lungo termine di rendere anche l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India uno stato induista (l’induismo è la religione nettamente prevalente nel paese). È un’interpretazione condivisa anche da osservatori internazionali e ong. I kashmiri lo pensano, lo dicono fra loro in ambienti protetti mentre bevono il kahwa (un tè con lo zafferano e con le mandorle), ma non possono esprimersi apertamente.

In Kashmir la possibilità di manifestare il dissenso è terminata da anni, il controllo sulla popolazione è pervasivo, e per molto meno si finisce in prigione.

Il treno arrivato alla stazione di Srinagar dopo la corsa inaugurale (AP Photo/Dar Yasin)

La repressione in Kashmir dura da decenni, ma con l’attuale governo è cresciuta. Modi è primo ministro dell’India da oltre dieci anni ed è il leader del Bharatiya Janata Party (BJP), partito nazionalista, conservatore e difensore dei valori della religione indù, che cerca di rafforzare anche discriminando le minoranze, a partire da quella musulmana. Il progetto ufficiale del BJP per il Kashmir è combattere militarmente le organizzazioni terroristiche indipendentiste, che ritiene siano finanziate dal Pakistan, e sviluppare economicamente la regione, portando anche in Kashmir la crescita economica del resto dell’India (crescita peraltro discussa anche altrove, almeno nelle sue ricadute sulla popolazione).

Il nuovo ponte inaugurato da Modi è un simbolo di tutto questo, e la possibilità di sventolare la bandiera indiana uno strumento di propaganda tanto basilare quanto efficace, dopo la crisi col Pakistan di inizio maggio.

Il Kashmir era parte della grande colonia britannica indiana fino al 1947: c’era un re induista, con quasi nessun potere effettivo, a capo di un regno musulmano. Quando prima di andarsene i britannici decisero la Partizione dei territori fra India e Pakistan, non si espressero sul destino del Kashmir. Il Pakistan provò a prenderselo con la forza, il re provò a salvarsi dichiarando l’annessione della regione all’India. Il Kashmir fu spezzato in due (due terzi indiani, un terzo pakistano) e nonostante quattro guerre maggiori e molti scontri minori dal 1947 la linea di demarcazione è rimasta più o meno la stessa. Nella contesa si è inserita anche la Cina, che controlla una parte orientale della regione.

In arancione il Kashmir e il Ladakh indiani, in verde il Kashmir sotto il controllo del Pakistan (Central Intelligence Agency, Washington, 2002, Public domain, via Wikimedia Commons)

L’Islam è diventata la religione più diffusa in Kashmir dal Quattordicesimo secolo e oggi i kashmiri sono perlopiù musulmani sunniti.

Non c’è quartiere di Srinagar, la capitale del Kashmir, dove non risuonino le cinque chiamate giornaliere alla preghiera, a partire da quella prima dell’alba, alle quattro. Non si mangia il maiale, ma nemmeno il manzo (la mucca è un animale sacro in India); montone, agnello e pollo sono comuni più che in altre regioni indiane, dove i vegetariani sono in numero maggiore. Gli alcolici vengono venduti in “wine shop” introdotti dal governo indiano per favorire il turismo, l’uso del velo è comune ma ci sono molte donne a capo scoperto.

Un negozio di alcolici a Srinagar (Valerio Clari/Il Post)

Si parla il kashmiro, che è frutto di un grande mix di lingue della regione e di popoli passati di qui: nella sua forma scritta deriva dall’arabo persiano e i legami culturali con l’Iran sono molti. Le tradizioni, la cucina e l’artigianato sono spesso rielaborazioni di usi portati nelle valli da viaggiatori dell’Asia centrale. Le case sono più grandi che nel resto dell’India, costruite con legno e mattoni, con elementi persiani ma strutture “alpine”, con tetti spioventi (d’inverno la neve è abbondante).

Economicamente, la regione si basa principalmente sull’agricoltura: riso, una limitata ma pregiatissima produzione di zafferano e poi verdura e frutta, soprattutto mele e ciliegie, che partono da qui per tutta l’India. La connessione ferroviaria verso sud doveva essere un modo per facilitare le spedizioni, ma al momento non sono ancora previsti treni merci.

Muzamil Maqbool è un attivista ed è stato tra i primi podcaster del Kashmir, cosa che gli ha garantito molte attenzioni. Troppe attenzioni, dice, tanto che oggi ha ridotto molto le attività online. Gestisce un hotel ed è attento a restare su temi “sicuri”.

Dice che i kashmiri oggi vogliono rimanere cittadini indiani, non diventare pakistani, preferendo una nazione progressista e laica, ma hanno bisogno di garanzie: «Salvaguardare le nostre terre e il nostro lavoro, come avviene già in altri stati. La popolazione del Kashmir è infinitamente minore di quella di altri stati indiani e bisogna salvaguardare il suo diritto di avere della terra, ma anche proteggere l’ambiente e le nostre montagne». E poi dice che la gente del Kashmir vuole che lo status di stato sia restituito quanto prima alla regione.

Dal 2019 la massima autorità del Kashmir è un governatore nominato da Delhi, dal governo centrale: in quell’anno fu abolito lo statuto speciale dello stato con un decreto presidenziale, approvato da una maggioranza di due terzi del parlamento. Conosciuto come “articolo 370” e entrato in vigore nel 1954, garantiva alla regione un certo livello di autonomia, una propria costituzione, e un parlamento che poteva approvare leggi. Con la stessa decisione venne separato dallo stato il Ladakh, regione orientale del Kashmir a maggioranza buddista.

Prima dell’abrogazione, migliaia di attivisti, politici e giornalisti furono arrestati. Subito dopo, le reti internet e telefoniche furono sospese per settimane. L’interruzione forzata della rete telefonica e dei dati (diversa da quella indiana) è utilizzata con discreta frequenza in momenti considerati potenzialmente pericolosi.

Manifesti di sostegno all’esercito indiano all’aeroporto di Srinagar (Valerio Clari/il Post)

I poteri esecutivo e legislativo sono stati concentrati nella figura del governatore (oggi Manoj Sinha, del BJP) e per cinque anni non ci sono state elezioni né organismi rappresentativi eletti. Le elezioni si sono tenute infine a settembre del 2024, ma i parlamentari sono di fatto privi di ogni potere.

Con il Domicil Act del 2020 fu superato il divieto di acquisto di terre e abitazioni da parte di persone provenienti da altri stati: da allora i trasferimenti di persone indù sono stati favoriti e sono piuttosto numerosi. Non ci sono dati ufficiali forniti dal governo, ma fra il 2022 e il 2024 sarebbero stati oltre 80mila, e oltre 200mila dal 2019.

Noor Ahmad Baba è un saggista ed ex professore di Scienze Politiche all’Università del Kashmir. Dice: «Dal 2019 lo stato è ridotto a un semplice Territorio dell’Unione, sotto il controllo diretto centrale di Delhi. Questo cambiamento ha segnato una lunga fase di continuo processo di privazione di potere politico, indebolendo la rappresentanza democratica ed erodendo l’autonomia istituzionale».

A questo processo si accompagna quello di repressione del dissenso: il lavoro dei giornalisti è monitorato, i media sono completamente controllati dal governo o soggetti a censura, sul territorio kashmiro opera almeno una decina di agenzie di intelligence: militari, statali, locali. La polizia ne ha tre differenti, mentre la National Intelligence Grid si occupa solo di antiterrorismo ed è descritta come quella dai modi più risoluti.

A questo controllo “segreto” si affianca quello aperto e visibile in tutte le strade della regione, con posti di blocco continui, camion militari in movimento e camionette fisse. Si possono notare singoli soldati negli incroci più trafficati, come sotto un albero in un campo agricolo a lato di una strada provinciale: quasi sempre sembrano non fare nulla, ma la semplice presenza e le armi automatiche che portano hanno effetti di intimidazione e controllo.

La piazza di Srinagar con la Ghanta Ghar, la torre dell’orologio (AP Photo/Mukhtar Khan)

Per evitare concentrazioni che possono diventare incontri politici, il venerdì a Srinagar non si può pregare nella moschea più grande e importante, la Jamia Masjid, che in passato fu centro di attività indipendentiste. Nelle strade non sono permesse riunioni di gruppi di più di qualche persona e nei momenti considerati di tensione vengono chiusi anche i parchi. In città alcuni parchi sono stati chiusi definitivamente e trasformati in monumenti all’esercito e ai caduti indiani.

Nelle fasi di decollo e atterraggio sulla capitale del Kashmir i voli di linea devono far chiudere ai passeggeri tutti i finestrini, per evitare che qualcuno possa osservare dall’alto le strutture militari.

La moschea centrale Jamia Masjid (Valerio Clari/Il Post)

La necessità di questo dispiegamento militare (presente da decenni, anche quando al governo a Delhi c’era il Partito del Congresso, di centrosinistra), è giustificato da una narrazione del governo e di gran parte dei media mainstream indiani che racconta l’intera popolazione kashmira (e talvolta quella musulmana) come simpatizzante dei terroristi, anti indiana e pericolosa. L’industria cinematografica produce decine di film in cui eroi militari indiani devono lottare contro kashmiri lanciatori di pietre o attentatori suicidi, e i social media contribuiscono ad alimentare odio e pregiudizi.

Dice Maqbool, il podcaster: «È questo il problema principale, perché possiamo fermare il terrorismo, possiamo anche fermare il terrorismo transnazionale, che sicuramente il Pakistan sta sostenendo. Ma ciò che sta distruggendo la nostra nazione è l’odio che cancella la laicità dell’India di Gandhi».

Una delle postazioni fisse delle varie forze di sicurezza a Srinagar (Valerio Clari/il Post)

Sviluppo del turismo, maggiore connettività con il resto del paese, creazione di grandi imprese a gestione statale per l’energia e per una possibile estrazione di terre rare fanno parte di un progetto a lunga scadenza di colonizzazione del Kashmir, che comunque non sarà facile portare a termine.

Il professor Baba dice: «La ferrovia inaugurata di recente è un progetto che si è concretizzato dopo decenni, dopo molti ritardi. Visti i cronici problemi di connettività stradale, può migliorare l’accessibilità, ma ha anche un valore strategico per l’India, viste le continue tensioni sui confini».

I nuovi trasporti su rotaia potrebbero anche essere utilizzati per muovere più velocemente le truppe. Su tutta questa situazione incombe infatti la possibilità di una guerra ampia: al momento né India né Pakistan sembrano davvero volerla, ma i pericoli di una escalation delle violenze sono reali in occasione di ogni scontro.

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