Come Hideo Kojima è diventato la rockstar dei videogiochi
Prima con “Metal Gear” e poi con “Death Stranding” le sue invenzioni e le sue stranezze gli hanno assicurato uno status unico nel settore
di Gabriele Niola

Death Stranding 2: On the Beach, il sequel del videogioco di avventura e fantascienza Death Stranding che esce giovedì, è il nuovo videogioco di Hideo Kojima. Sono pochissimi i videogiochi che vengono presentati così: come il nuovo lavoro di un game designer, cioè essenzialmente l’autore responsabile dell’ideazione e dello sviluppo del videogioco. Ma Kojima, che si affermò tra gli anni Novanta e Duemila con la storica serie Metal Gear, è una figura unica nel settore, probabilmente la più famosa e tra le più venerata di tutte.
I motivi sono riassunti bene da Death Stranding, una delle operazioni videoludiche più originali, rischiose e divisive degli ultimi anni. È anomalo, perché non si tratta di un gioco indipendente a basso budget, ma di uno dei giochi più grandi, costosi e lunghi da giocare, una categoria che tende ad andare sul sicuro. Ma Hideo Kojima, che è giapponese e ha 61 anni, è una delle poche star del mondo dei videogiochi proprio perché non è quasi mai andato sul sicuro.
Death Stranding racconta di un personaggio in un mondo devastato da una forma di apocalisse, che attraversa a piedi le lande desolate con la missione di ricollegare diversi centri a una rete globale. È una grande ode alla connessione attraverso la tecnologia, a cui Kojima ha pensato nella seconda metà degli anni Dieci, in un periodo di disconnessioni portate da Brexit e dalla prima presidenza Trump. La trama è molto intricata e di fantascienza, e in mezzo a grandi nemici e a creature pericolose contiene molti momenti “alla Kojima”.
Per capirsi su quali siano, c’è un momento in cui il protagonista deve trasportare il cadavere della presidente degli Stati Uniti, che è anche la sua madre adottiva, camminando piano, senza inciampare e far cadere il corpo. Per ore. Il primo Death Stranding uscì nel 2019, e tutto quel che è accaduto dopo nel mondo reale ha portato Kojima a enfatizzare nel sequel le connessioni tra umani più che quelle tecnologiche.
Una parte delle ragioni per cui Kojima è considerato una delle persone che trattano i videogiochi come forma d’arte sta in questo genere di momenti che inserisce nelle storie che progetta. Non solo è stato un innovatore, non solo ha sviluppato uno stile molto riconoscibile e unico, ma è soprattutto uno dei pochi game designer a usare la forma dei videogiochi (cioè le regole e i modi in cui si gioca) per riflettere sui videogiochi stessi e sull’atto del giocare. Come altri creativi e artisti che hanno cercato di superare ed espandere la struttura e la forma per comunicare diversamente con chi fruisce delle loro opere, Kojima spesso fa in modo che i suoi videogiochi rompano le regole e abbiano un rapporto sorprendente con la realtà di chi ci sta giocando.
Tra le ragioni dell’importanza di Kojima nel mondo dei videogiochi c’è il fatto che ha reso popolare e imitata una maniera specifica di giocare: la modalità stealth. Nei suoi giochi più importanti è sempre possibile portare a termine le missioni sparando, combattendo e affrontando i nemici, ma anche aggirandoli, senza farsi vedere o sentire. Non ha inventato lui questo espediente di design, ma ci ha lavorato così tanto che chiunque oggi includa una modalità stealth in un videogioco inevitabilmente lo fa usando soluzioni e tecniche prese da un videogioco di Hideo Kojima. È un modo divertente di giocare, ma è anche la sovversione della classica prospettiva per cui una delle componenti di divertimento nei videogiochi sta nell’esercitare la violenza senza farlo davvero.
Dal punto di vista tematico è stato tra i primissimi a usare giochi molto grandi e popolari per affrontare questioni e temi del mondo reale che non fossero semplici e banali. In Metal Gear Solid (il gioco che nel 1998 gli cambiò la carriera) trattò il proliferare delle armi nucleari dopo la fine della Guerra fredda. Nel sequel, uscito nel 2001, iniziò a parlare della maniera in cui le informazioni false si propagano online. E nei successivi giochi della serie ha affrontato i confini morali dell’interferenza degli Stati Uniti nella politica delle nazioni straniere durante la Guerra fredda.
Dal punto di vista narrativo infine Kojima è stato un pioniere delle cut scenes, cioè i momenti nei videogiochi in cui non si gioca ma si assiste a una scena come fosse un film. E proprio sul cinema ha costruito il suo modo di realizzare queste scene, dal punto di vista delle inquadrature, della fotografia e del racconto. Prima di lavorare nel mondo dei videogiochi voleva lavorare in quello del cinema, si formò come regista e ha ancora oggi quel tipo di impostazione. È famosa tra i fan la sua abitudine di guardare almeno un film al giorno, che spesso annuncia sul suo account su X (ex Twitter), pubblicando poi un giudizio specialmente se gli è piaciuto.
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Quando con la prima PlayStation fu possibile creare videogiochi con grafica tridimensionale, Kojima ebbe la grande idea di usare lo stesso motore grafico sia per le cut scenes sia per le fasi di gioco, così che i due momenti avessero la stessa resa qualitativa e non sembrassero distinti. Fu un’idea controintuitiva, perché all’epoca era abitudine usare un motore grafico migliore per le cut scenes, in modo che fossero più realistiche e rifinite. Invece Kojima, abbassando la qualità delle cut scenes, cancellò la distinzione tra le parti cinematografiche e il gioco vero e proprio. L’inizio di Metal Gear Solid, pensato esattamente come l’inizio di un film per inquadrature, montaggio e titoli di testa, fu un momento di svolta per tutto il settore.
Ci sono altri game designer che sono stati altrettanto influenti, se non più di Kojima, ma lui è uno dei pochi che, come i grandi autori di romanzi, di musica o di film, ha un tocco immediatamente riconoscibile. Un videogioco di Hideo Kojima si riconosce da poche immagini, come un film di Tarantino si riconosce da pochi dialoghi. Dopo tantissimi anni dedicati allo sviluppo della serie di videogiochi Metal Gear e poi Metal Gear Solid (in totale sette titoli pubblicati nel corso di 27 anni, contando anche le tantissime derivazioni), fu licenziato nel 2015 dalla società per la quale aveva sempre lavorato, la Konami. Quello studio voleva andare da un’altra parte e concentrarsi sempre di più su giochi per dispositivi mobili, a basso costo e ad alta resa economica. Kojima invece voleva continuare a sviluppare titoli molto seri, costosissimi e di qualità alta.
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Diventato indipendente e libero dalla serie Metal Gear, che da anni voleva abbandonare, Kojima ha creato Death Stranding, introducendo e rendendo popolare un’altra novità nel mondo dei videogame: il gioco multiplayer asincrono. Di regola nei videogiochi o si gioca da soli, o con qualcuno che è nella stessa stanza, oppure si può giocare con altre persone online. Sono modalità diverse e separate. Invece in entrambi i Death Stranding quando si gioca da soli è possibile trovare nel proprio percorso oggetti, costruzioni e aiuti lasciati da altri giocatori, e usarli. Questo va nella direzione di un’idea più grande di connessione con gli altri esseri umani attraverso la tecnologia, perché spesso quelle soluzioni di altri aiutano il giocatore.
Questa soluzione è un buon esempio della filosofia videoludica di Kojima, che da sempre ha cercato di legare i videogiochi al mondo reale. Scrivere trame che avessero a che fare con veri problemi della società, veri eventi storici e questioni che i giocatori possono riconoscere è stato uno dei modi in cui lo ha fatto. Un altro è stato usare proprio la modalità di gioco per mescolare i mondi.
In Metal Gear Solid (1998) uno dei boss principali, un soldato con abilità di telepatia e telecinesi chiamato Psycho Mantis, accoglieva il giocatore leggendo la sua memory card in cui ci sono i dati di salvataggio, come se sapesse di essere in un videogame. La cosa gli consentiva di dirgli tutto quello che aveva fatto come videogiocatore, come se leggesse la mente del giocatore e non del personaggio. Poi invitava il giocatore a poggiare per terra il controller, che a quel punto si muoveva grazie alla vibrazione incorporata.
Fu una delle idee videoludiche più originali di sempre, e non fu l’unica grande trovata di quel momento di Metal Gear Solid, rimasto tra i più memorabili nella storia dei videogiochi. La soluzione per sconfiggere Psycho Mantis, che leggendo nella mente riusciva sempre a evitare ogni colpo, era scollegare il controller dall’ingresso della console per il Player 1 e inserirlo in quello per il Player 2. Un’azione da svolgere fisicamente nel mondo reale ostacolava la capacità del cattivo del gioco di leggere nella mente del personaggio.
Metal Gear Solid fu il primo grandissimo successo di Kojima: vendette 6 milioni di copie, una cifra enorme. Per fare un paragone, nello stesso periodo il nuovo e rivoluzionario gioco della serie Super Mario intitolato Super Mario 64 vendette 5,9 milioni di copie. Guillermo del Toro, regista di Hellboy, Il labirinto del fauno e La forma dell’acqua, racconta di essere stato completamente travolto dalla battaglia contro Psycho Mantis e oggi è tra i molti amici e collaboratori che Kojima ha nel cinema. In cambio, Kojima ha inserito in Death Stranding un personaggio interpretato da del Toro che ha anche le sue sembianze.
Del Toro non è l’unico legame che Kojima ha nel mondo del cinema. Il regista danese Nicolas Winding Refn (quello di Drive) è un altro con cui spesso realizza progetti. Da aprile fino ad agosto per esempio una loro mostra sulle connessioni tra media, chiamata Satellites, è ospitata da Prada Aoyama a Tokyo. Per fare un altro esempio, alla festa di lancio di Death Stranding a Manhattan c’erano anche attori come Helen Mirren, Robert De Niro o un regista come J. J. Abrams.
Ma Kojima trova i suoi collaboratori in tutti i paesi del mondo. A un certo punto dopo aver visto Lo chiamavano Jeeg Robot, che uscì in Giappone patrocinato dall’autore di manga Gō Nagai, creatore del personaggio Jeeg Robot, si fissò con l’attore Luca Marinelli. Dopo aver visto Martin Eden, altro film di cui Marinelli è protagonista, pubblicò la locandina sul suo account Instagram, e pochi giorni dopo un pezzo di un’intervista in cui lodava Marinelli per tutti i suoi film e sosteneva che sarebbe stato un perfetto Solid Snake (il protagonista della serie Metal Gear). Marinelli lo contattò spiegando di essere cresciuto con la serie Metal Gear, e alla fine ottenne una parte in Death Stranding 2: On the Beach.
I videogiochi di Hideo Kojima sono fatti per chiedere sempre in maniera implicita al giocatore perché stia giocando. Spesso lo fanno con i dialoghi o le tantissime cut scenes di taglio cinematografico, ma altrettante volte lo fanno costringendolo ad azioni ripetitive. In Metal Gear Solid 3 (2004), dopo una delle battaglie più intense e complicate, il giocatore deve salire una scala, e questa salita dura tre minuti durante i quali non accade niente. In un videogioco è un tempo lunghissimo passato senza fare nulla, semplicemente tenendo premuto un tasto, e in teoria completamente inutile. Ma per il momento in cui è collocato, per l’ansia creata dalla trama e dalla battaglia, è un attimo in cui il giocatore ha l’occasione di riflettere in un momento che molti hanno descritto come rivelatore.
Anche in Death Stranding accade qualcosa di simile, quando per circa due ore il giocatore deve attraversare una terra innevata. In quel caso c’è un po’ più di azione, perché bisogna fare attenzione a non cadere, ma è comunque un momento che facilmente può risultare noioso. L’obiettivo è sempre fare in modo che chi gioca si chieda: «Perché sto facendo questa cosa?».
I videogiochi di Hideo Kojima sono però anche di grande intrattenimento: hanno trame accattivanti, molti personaggi e grandissime sequenze d’azione o che coinvolgono la destrezza del giocatore. Ciò che li distingue è che comunque l’aspetto del gioco vero e proprio non è per forza centrale, preciso o appassionante come in altri videogiochi con i quali è in concorrenza. La parte narrativa invece lo è sempre. Questo nel tempo ha diviso pubblico e critica in modi netti su Kojima. E nonostante i suoi videogame siano quasi sempre accolti con grandissimo favore e attesa, sempre di più c’è chi ritiene che stia andando in una direzione poco videoludica.
Lo stesso primo capitolo di Death Stranding non fu accolto positivamente da tutti i giocatori, proprio perché non ha il grande ritmo e la grande azione dei videogiochi commerciali. I critici pensano che lo status di Kojima gli garantisca troppa libertà creativa, e che avrebbe bisogno che ogni tanto qualcuno gli dicesse di no. Altri ritengono le trame troppo complicate, e alcuni dialoghi brutti. Ogni suo nuovo titolo, comunque, vende moltissimo. Adrian Chen sul New York Times ha scritto che Kojima «riesce a esercitare sui videogiocatori quello stesso tipo di distorsione della realtà che Steve Jobs esercitava sugli appassionati di elettronica, con un’abilità quasi sovrannaturale nel persuadere le persone con idee che sarebbero considerate assurde se venissero da chiunque altro».
L’uscita di Death Stranding 2: On the Beach è stata preceduta dalla stessa grande attesa e dallo stesso livello di anticipazioni che hanno accompagnato ogni novità di Kojima. Le recensioni al momento sono molto positive, anche più di quelle del primo gioco. Chi ci ha giocato ha descritto una dinamica di gioco simile a quella del primo ma migliorata da tutti i punti di vista, e un po’ meno anticonvenzionale, cioè meno fondata sulla consegna a piedi. Chi lo ha criticato invece, come Francesco Fossetti e Marco Mottura su RoundTwo, lo ha fatto per le ragioni per cui solitamente sono criticati i giochi di Kojima, cioè la confusione della narrazione, la superficialità della scrittura e lo sbilanciamento tra gioco e racconto.



