• Mondo
  • Sabato 14 giugno 2025

Breve storia dello sciopero femminista

Il primo fu nel 1970 e, per i movimenti delle donne, diventò uno strumento di lotta in molti paesi: oggi ce n'è uno in Svizzera

di Giulia Siviero

Volantino dello sciopero delle donne del 14 giugno 1991 (Schweizerisches Sozialarchiv)
Volantino dello sciopero delle donne del 14 giugno 1991 (Schweizerisches Sozialarchiv)
Caricamento player

Il 14 giugno in Svizzera ci sarà uno sciopero generale femminista organizzato per chiedere un miglioramento delle condizioni sociali, politiche e giuridiche delle donne. Non è la prima volta che uno sciopero di questo genere viene organizzato nel paese e cadrà a più di quarant’anni dall’introduzione nella Costituzione federale di un articolo sulla parità fra uomo e donna che è stato sì un importante avanzamento ma in gran parte solo formale. Lo sciopero femminista ha delle sue peculiarità e una sua storia: oggi, per i movimenti delle donne, è uno strumento di lotta condiviso a livello globale.

Nacque negli Stati Uniti nel 1970. Il 26 agosto di quell’anno, in occasione del cinquantesimo anniversario dal riconoscimento del diritto di voto alle donne, più di cinquanta gruppi proposero, per quella giornata, di interrompere il lavoro: tutto il lavoro, quello mal pagato e quello non pagato affatto.

L’attivista Betty Friedan – che nel 1963 aveva descritto nella Mistica della femminilità la strana inquietudine di milioni di donne statunitensi rispetto alla prospettiva di occuparsi per tutta la vita solo del marito, dei figli e della casa – propose che le donne che lavoravano negli uffici come segretarie mettessero le custodie sulle loro macchine da scrivere, che le cameriere sospendessero il servizio ai tavoli, che le donne delle pulizie smettessero di pulire e che chiunque stesse svolgendo una mansione per la quale un uomo sarebbe stato pagato di più si fermassero. Oltre alla sottrazione dal lavoro retribuito, alle donne di tutto il paese fu chiesta anche l’astensione da qualsiasi incombenza domestica.

Betty Friedan, al centro, al Women’s Strike for Equality di New York, 26 agosto 1970 (AP Photo)

Lo sciopero aveva lo scopo di portare all’attenzione le limitate opportunità di lavoro per le donne, la disparità di retribuzione tra i sessi e l’ineguale distribuzione dei compiti domestici. Oltre al lavoro salariato, dunque, il lavoro come lo aveva inteso allora il femminismo, e come continua a intenderlo oggi, includeva anche quello informale, domestico e riproduttivo, quel lavoro che ha a che fare con la cura, con l’istruzione e l’educazione dei bambini e delle bambine e con l’accudimento di chi, per età o condizione fisica, non può più produrre e generare profitto. Si tratta di un lavoro che ricadeva (e ricade ancora oggi) per la gran parte sulle donne, che non vengono pagate per farlo, e che viene fatto in casa a sostegno di chi fuori casa lavora “davvero”, cioè gli uomini.

Lo sciopero femminista mostrava e mostra dunque, e innanzitutto, come il lavoro non riconosciuto non sia solo il difetto di un sistema altrimenti equo che può essere corretto, ma la condizione del suo funzionamento. Era ed è realmente uno sciopero generale: lavorativo e al tempo stesso esistenziale.

Quel 26 agosto del 1970, a New York, il corteo si muoveva e si ingrossava a mano a mano lungo il percorso. C’erano ottantenni e adolescenti senza reggiseno, donne del gruppo rivoluzionario delle Pantere Nere e centraliniste, cameriere e operaie portoricane, infermiere in uniforme e giovani madri con i bambini sulle spalle. Le manifestanti invitavano le donne che incrociavano per strada a unirsi a loro, gridando: “I am not a Barbie doll” (non sono una Barbie), “Storks fly – Why can’t mothers” (se volano le cicogne possono farlo anche le madri), “We are the 51% minority” (siamo la minoranza del 51 per cento). Ma soprattutto “Don’t iron while the strike is hot!”: “non toccare il ferro (da stiro) finché lo sciopero è caldo”, facendo il verso all’espressione “Strike while the iron is hot” (batti il ferro finché è caldo) e giocando sul doppio significato di “strike”, che significa sia battere che scioperare.

In concomitanza con l’azione di New York, gruppi di donne in quasi cento città degli Stati Uniti organizzarono cortei, comizi pubblici, volantinaggi, spettacoli teatrali di strada sugli stereotipi di genere, sit-in nei bagni pubblici degli uomini contro la disparità delle strutture, asili nido dimostrativi nei parchi pubblici. Non è chiaro quante donne abbiano realmente scioperato quel giorno, ma la marcia venne raccontata dai giornali come la più grande manifestazione femminista della storia del paese, almeno fino a quel momento. Contribuì a rendere visibile il movimento e, da lì in poi, ispirò scioperi in altri paesi del mondo.

Il 24 ottobre del 1975 a Reykjavík, la capitale dell’Islanda, si tenne per esempio il Kvennafrídagurinn, “il giorno libero delle donne”, uno sciopero generale organizzato per chiedere riforme strutturali contro le discriminazioni di genere. Circa il 90 per cento di tutte le abitanti del paese smise di lavorare e di svolgere il proprio lavoro domestico e di cura in ambito familiare. Le conseguenze furono immediate: chiusero scuole, in cui la maggior parte delle insegnanti erano donne, teatri, imprese e negozi gestiti da donne o con impiegate donne. Non uscirono i giornali perché nelle tipografie che li stampavano lavoravano soprattutto donne, e la compagnia aerea nazionale cancellò i propri voli previsti per quel giorno, per l’assenza di assistenti di volo. Le banche restarono aperte, ma i dirigenti dovettero fare anche gli impiegati agli sportelli, mansioni spesso svolte, di nuovo, da impiegate.

Un’immagine dello sciopero delle donne islandesi nel 1975, dal sito del governo dell’Islanda.

Le conseguenze furono immediate anche nel lavoro di cura: con le scuole chiuse e le donne in sciopero, molti padri “dovettero” portare i propri figli con sé al lavoro. Il racconto di quella giornata, definita un «battesimo del fuoco» per gli uomini islandesi, si compone di aneddoti molto concreti ed esemplificativi: uomini che accumulavano caramelle e matite colorate per intrattenere i gruppi di bambini sul posto di lavoro, supermercati che in pochissimo tempo esaurirono le salsicce, veloci e semplici da cucinare per uomini non abituati a preparare la cena ai propri figli.

Nel frattempo nella piazza principale di Reykjavík si tenne la manifestazione di protesta: 25mila partecipanti fu un numero significativo per un paese che all’epoca, in totale, non arrivava a 220mila abitanti in totale. L’anno successivo lo sciopero portò alla promulgazione di una legge sulla parità, che stabilì tra le altre cose che donne e uomini, a parità di mansione, dovessero essere pagati uguale.

In anni più recenti la pratica dello sciopero femminista è stata ripresa in Polonia quando il 3 ottobre del 2016 è stata proclamata una giornata contro la criminalizzazione dell’aborto: molte donne non sono andate al lavoro né all’università, hanno lasciato bambine e bambini alla cura di qualcun altro e non si sono occupate delle faccende di cui di solito si occupavano. A migliaia si sono radunate per le strade di Varsavia, Danzica e altre città più piccole del paese sventolando delle grucce e vestendosi di nero, in segno di lutto per la possibile perdita dei loro diritti e della loro libertà.

In Argentina, il 19 ottobre del 2016 il movimento femminista Ni Una Menos ha invece organizzato uno sciopero contro i femminicidi e la violenza maschile contro le donne. L’azione, in una sola settimana, si è diffusa in oltre venti nazioni, Italia compresa, e ha portato alla convocazione di uno sciopero internazionale l’8 marzo del 2017 nella Giornata della donna, che, da quel momento, in decine di paesi del mondo non viene più celebrata come un rito esausto, ma si trasforma in un momento di insorgenza.

Manifestazione femminista per il “Lunedì nero”: uno sciopero organizzato per il diritto all’aborto, Varsavia, Polonia, 3 ottobre 2016 (AP Photo/Czarek Sokolowski)

In Svizzera il primo grande sciopero femminista, a cui partecipò oltre mezzo milione di donne in un paese che contava 6,6 milioni di abitanti, si svolse il 14 giugno del 1991. Esattamente dieci anni prima nella Costituzione federale era stato introdotto l’articolo 8 sulla parità tra i sessi, grazie a un’iniziativa popolare promossa da movimenti femministi, associazioni di donne e comitati interpartitici poi approvata con oltre il 60 per cento dei voti. Quel principio, di fatto, non aveva però trovato un’applicazione concreta.

Un gruppo di lavoratrici del settore orologiero convinse dunque la sindacalista Christiane Brunner a sostenere l’idea di uno sciopero alla direzione dell’Unione sindacale svizzera (USS) che dopo molte resistenze interne, da parte maschile, decise di accettare. Oltre alle sindacaliste, vi aderirono movimenti femministi, associazioni, alcuni partiti e soprattutto donne non iscritte ad alcuna organizzazione. “Se le donne vogliono, tutto si ferma” era lo slogan.

Vignetta pubblicata in prima pagina sull’edizione del giornale svizzero Libera Stampa del 14 giugno del 1991. L’illustrazione è di Adriano Crivelli e mostra l’Elvezia, simbolo della nazione, che abbandona la moneta da due franchi per aggregarsi alla lotta delle donne per la parità (Biblioteca cantonale, Lugano, Archivio digitale Sbt dei Quotidiani e Periodici).

Le azioni di protesta scelte (raccontate e mostrate qui) furono molte: le donne sospesero il lavoro, si radunarono nei loro uffici, per le strade, nei parchi e nelle piazze, davanti alle fabbriche, ai negozi e alle aziende. Organizzarono sit-in, stand di informazione, spettacoli di teatro di strada, pause pranzo in comune, raccolte firme, pic-nic, bancarelle, giri turistici nelle città. Distribuirono volantini, suonarono e ballarono. In alcuni casi, poi, il divieto di sciopero fu aggirato ricorrendo a pause prolungate, esponendo striscioni, indossando delle spille o attuando lo sciopero dello zelo, conosciuto anche come sciopero bianco, che consiste nel causare rallentamenti e disagi sul lavoro applicando rigidamente e burocraticamente regole, direttive e orari contrattuali.

Lo sciopero del 1991 raggiunse vari obiettivi: dare visibilità al lavoro femminile spesso sottopagato o non retribuito e dare forza al movimento femminista che si manifestò nel 1993 in occasione del rinnovo del Consiglio federale. La mancata elezione di Christiane Brunner provocò una protesta così grande da spingere il candidato socialista eletto, Francis Matthey, a rinunciare alla carica. Una settimana dopo, nel governo federale, entrò la sindacalista Ruth Dreifuss. Negli anni successivi il movimento nato dallo sciopero continuò a organizzare manifestazioni ogni 14 giugno favorendo l’entrata in vigore di varie leggi, tra cui quella per la depenalizzazione dell’aborto fino a 12 settimane di gravidanza (2002) e per l’istituzionalizzazione dell’assicurazione di maternità (2005). Ma la parità salariale non venne raggiunta.

Questa e altre questioni restano dunque aperte ancora oggi e i movimenti femministi svizzeri hanno organizzato un nuovo sciopero per sabato. «Noi donne» spiegano al Post alcune donne del collettivo “Io l’8 ogni giorno” citando l’ufficio federale di statistica «guadagniamo ancora il 16,2 per cento in meno degli uomini a parità di impiego, le nostre pensioni sono del 38 per cento inferiori a quelle degli uomini e, come pensionate, subiamo maggiori rischi di cadere in povertà. Siamo la maggioranza delle persone impiegate nei settori professionali più precari, svolgiamo pressoché la totalità del lavoro di cura non riconosciuto e non retribuito, siamo il triplo degli uomini a essere impiegate a tempo parziale e il nostro congedo di maternità è il più breve d’Europa: solo 16 settimane».

Inoltre, proseguono le attiviste, «l’attuazione della Convenzione di Istanbul, sottoscritta dalla Svizzera nel 2018, è ben lungi dall’essere implementata, qui non esiste ancora un numero di emergenza per le vittime di violenza come il 1522 in Italia, non esiste un codice rosa nei pronto soccorso degli ospedali, non esiste il reato di stalking, i posti letto nelle case rifugio sono insufficienti come pure i finanziamenti, non esiste un ente federale che si occupi di raccogliere i dati sui femminicidi, la raccolta è fatta da volontarie, e i femminicidi nel 2025 sono stati finora 15». Nonostante il numero sembri basso, in proporzione alla sua popolazione di circa 9 milioni di persone la Svizzera ha un tasso di femminicidi più alto rispetto all’Italia (dove ce ne sono stati 40 nel 2025 su 59 milioni di abitanti).

Sciopero femminista, 14 giugno 2019 (Marika Brusorio)

Il collettivo “Io l’8 ogni giorno” esiste dal 2018. Sul sito ha tra le altre cose creato un sistema per generare una fattura del proprio lavoro invisibile: chiede di calcolare quante ore si dedicano quotidianamente alla cura di terze persone, al lavoro domestico e alla gestione del ménage familiare quantificandone i costi in base alle tariffe più basse presenti in Svizzera. L’invito finale, dopo aver ottenuto un numero che rende visibile il valore reale di tutto il proprio lavoro, è quello di astenersi da ogni forma di lavoro, visibile e invisibile. E di andare a manifestare.