«Chissà quante ne vedi, tu, stando là dentro»

Le domande che fareste a un giornalista parlamentare avranno risposta: arriva Montecit., la newsletter del Post sulla politica

L'aula di Montecitorio, Roma, 2020
(AP Photo/Andrew Medichini)
L'aula di Montecitorio, Roma, 2020 (AP Photo/Andrew Medichini)
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Venerdì 13 giugno inizierà Montecit., la nuova newsletter del Post sulla politica, aperta a tutte e a tutti: sarà scritta da Valerio Valentini, che per il Post segue le vicende politiche da Roma e dai palazzi delle istituzioni, tra cui appunto Montecitorio, dove si riunisce la Camera dei deputati. Montecit. uscirà ogni venerdì pomeriggio e proverà a parlare di politica in modo chiaro, semplice e possibilmente divertente, senza cercare di convincervi di qualcosa, anche perché il suo autore ha ben poche convinzioni e, dice, fatica a dare suggerimenti a sé stesso. Cercherà di convincervi soltanto questa volta, spiegando lui stesso perché vale la pena iscrivervi a Montecit.

La cosa che anzitutto mi colpì, il giorno in cui per la prima volta entrai a Montecitorio, fu la quiete. Era il maggio del 2018: si celebrava il quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro ed erano in corso concitate trattative tra i partiti dopo le elezioni politiche che si erano appena tenute.

Furono elezioni che si conclusero senza un chiaro vincitore, che portarono poi a settimane di negoziati e a momenti che potreste aver rimosso, come l’incarico di formare un governo a Carlo Cottarelli e la richiesta di impeachment del presidente Mattarella. E io, ingenuo, credevo che oltrepassato il portone che immette nel cosiddetto Transatlantico, l’ultimo lembo di terra concesso ai non-onorevoli prima dell’ingresso nell’aula della Camera, non avrei sentito parlare d’altro che di quello: del ricordo dello statista pugliese ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e dei negoziati per dare un governo all’Italia dopo settimane di incertezza e di stallo.

Passai accanto al primo gruppetto di deputati intenti a confabulare tra loro – un capannello, finalmente! Ecco dunque come era fatto, un capannello – e le prime parole che intercettai furono «Allegri» e «Higuaín»: la Juventus avrebbe giocato di lì a un paio di giorni la partita decisiva per la vittoria del campionato. Poco più avanti, nella mitica Sala Verde, quella in cui si leggono i giornali e si consultano le agenzie di stampa, un dirigente di Forza Italia stava lì, con la copia del suo quotidiano aperta sulle gambe quasi come una coperta, le braccia rilasciate lungo i fianchi, il mento incassato nelle spalle, gli occhi semichiusi e il respiro profondo: evidentemente non stava leggendo.

«Eh, ma chissà quante ne vedi, tu, stando là dentro»: è una frase che prima o poi tutti i cronisti parlamentari si sentono dire. E a dirlo di solito sono persone – amici, conoscenti, famigliari – mosse per metà da curiosità febbrile, per metà da sospetto: come se insomma anche noi giornalisti facessimo parte di quella casta di privilegiati che maneggiano notizie indicibili, che tramano nell’ombra, che combinano cose losche. Ci si immagina che entrando alla Camera o al Senato si finisca col carpire chissà quali indiscrezioni, col percepire i primi segnali di qualcosa di clamoroso che sta per verificarsi: ed era un po’ anche la mia aspettativa, all’inizio.

E invece, quasi sempre, a Montecitorio o a Palazzo Madama, dentro e fuori i ministeri e le ambasciate e nei vicoli del centro di Roma, nei ristoranti, nei bar tutt’intorno alla cittadella parlamentare tra via XX Settembre e piazza Navona, si incontra per lo più gente che ha i tuoi stessi dubbi e le tue stesse domande, e ben poche certezze per dare risposte. La conoscenza di veri o presunti segreti, o più banalmente una consapevolezza esatta di cosa davvero stia succedendo, è prerogativa di pochi: e quei pochi – parlamentari, ministri, sottosegretari – sono quasi sempre i più accorti, i meno ciarlieri, e in definitiva si guardano bene dal condividere le loro verità coi giornalisti.

Il risultato è che si sta lì, per ore, a inseguire più o meno svogliatamente questo o quell’onorevole, o appostati davanti a un portone sperando che ne esca la persona che vogliamo intercettare, oppure stravaccati sui divanetti, semplicemente, animati da un’ansia indolente di ricomporre i pochi indizi raccolti, e condividerli coi colleghi sperando che questi te ne diano altri in cambio un po’ come le figurine, nel tentativo, spesso velleitario, di dare un senso ordinato e definito al succedere degli accidenti più o meno caotico, più o meno concitato, che movimenta la politica italiana.

Un vecchio dirigente della Democrazia Cristiana, Guido Gonella, descrisse così la professione quotidiana del parlamentare: «Fatica senza lavoro, ozio senza riposo». Sintesi mirabile, e che a suo modo si applica bene anche alla professione del cronista politico. E però questa accidiosa operosità non è del tutto inutile: perché stare lì, in Transatlantico e nei suoi immediati dintorni, fiutare l’aria che tira, scrutare le facce, un incrocio di sguardi tra questo e quel ministro, orecchiare una mezza frase, raccogliere un appunto lasciato incautamente cadere, parlare con un deputato o un senatore, sbirciare una chat, aiuta non tanto a prevedere l’imminente futuro o ad alimentare il chiacchiericcio di fondo da cui genera la polemica quotidiana – non è questo, in fondo, lo scopo del nostro lavoro – ma a dare un contesto ai fatti, a trovare una spiegazione plausibile al susseguirsi apparentemente frenetico degli eventi.

A capire – solo per stare agli ultimi anni – perché non sia stato solo il mojito a convincere Salvini ad aprire la crisi di governo più pazza del mondo a Ferragosto, e perché nel giro di pochi giorni PD e Movimento 5 Stelle siano potuti passare dagli insulti reciproci a un accordo di coalizione, e come mai in un caso e nell’altro sia potuto restare Conte a guidare il carrozzone; e come abbia fatto Renzi, con uno sparuto manipolo di parlamentari e il 2 per cento dei consensi, a condizionare l’andamento di un’intera legislatura, e attraverso quali bizzarre dinamiche Berlusconi si fosse lasciato convincere che sì, davvero sarebbe potuto diventare presidente della Repubblica; e perché Meloni consideri i suoi alleati di governo dei mezzi bolliti, ma se li tenga stretti, e perché i suddetti alleati, Salvini e Tajani, la detestino amabilmente pur sapendo che devono restarle stretti, e così via.

«È un po’ come andare a teatro, e un po’ come andare allo zoo», mi catechizzò un collega più esperto, nel sapere che stavo per entrare per la prima volta a Montecitorio. E in quelle parole non c’era intento di derisione verso i parlamentari, i quali anzi spesso, a dispetto del racconto che se ne fa, hanno competenze piuttosto notevoli nelle materie di cui si occupano, nonché una grande passione per quello che fanno: c’era semmai l’avvertimento a tenere a mente che molto di quello succede lì, nei palazzi, è la rappresentazione della politica più che la politica stessa.

Però le persone che la fanno, la politica, i deputati e i senatori, i ministri e i sottosegretari, i loro collaboratori, i loro portavoce, sono persone in carne e ossa, nonostante le maschere, nonostante il loro vivere, spesso, in cattività: e solo frequentando le persone, solo provando a conoscerle, si comprendono le loro storie, i loro umori, e quindi le scelte che ne conseguono. Montecit. proverà a raccontare tutto ciò, la politica al di là della rappresentazione che se ne dà, ricordando che la vita, l’Italia, la realtà, sono anzitutto ciò che sta fuori da quei palazzi, ma che quanto succede dentro ai palazzi condiziona eccome la nostra vita, l’Italia, la realtà.