I centri per le donne che non obbediscono agli uomini, in Arabia Saudita
Vengono presentati come centri di riabilitazione per donne considerate problematiche: al loro interno le frustate, le umiliazioni e le violenze sono sistematiche

In Arabia Saudita esistono dei centri in cui vengono rinchiuse le donne che sono state bandite, per vari motivi, dalle loro famiglie o dai propri mariti: donne accusate di non avere obbedito a indicazioni impartite da altri, a volte sospettate di alcuni reati. Alcune di loro invece cercano aiuto per sottrarsi da abusi e violenza domestica, perché questi centri vengono presentati come luoghi di protezione, sebbene di fatto siano dei luoghi di detenzione.
L’esistenza di questi luoghi è nota da tempo, ma se ne è tornato a parlare dopo la pubblicazione di una dettagliata inchiesta del Guardian che negli ultimi sei mesi ha raccolto varie testimonianze di donne che sono state destinate a questi centri. Le donne ascoltate dal Guardian hanno descritto condizioni di vita «infernali», abusi, fustigazioni, nozioni religiose impartite a forza, sessioni di isolamento, ma anche problemi di malnutrizione e scarse condizioni igieniche.
Diverse organizzazioni per i diritti umani sottolineano come l’esistenza di questi centri sia in grande contraddizione con la volontà espressa negli ultimi anni dal principe ereditario Mohammed bin Salman di allentare progressivamente le enormi restrizioni a cui il regime sottopone le donne nel paese, da decenni: volontà che gli viene spesso riconosciuta anche a livello internazionale. Nel 2024 l’Arabia Saudita ha ottenuto senza alcuna opposizione la presidenza della commissione delle Nazioni Unite incaricata di promuovere l’eguaglianza tra i sessi e rafforzare i diritti delle donne nel mondo: la Commission on the Status of Women (Csw).
Nell’arabo saudita Dar al-Re’aya significa “casa di cura”: le autorità statali definiscono così questi centri. I primi sono nati negli anni Sessanta, e oggi vengono descritti dal regime come «rifugi per ragazze accusate o condannate di vari reati» che qui vengono accolte per essere «riabilitate» con l’aiuto di psichiatri e con l’obbiettivo finale di «restituirle alle loro famiglie».
Un portavoce del governo saudita ha parlato di questi luoghi anche come di rifugi specializzati che forniscono supporto a gruppi vulnerabili, come donne e bambini vittime di violenza domestica, e ha categoricamente respinto le accuse di reclusione forzata e maltrattamenti. «Non sono centri di detenzione e qualsiasi denuncia di abuso viene presa sul serio e sottoposta a un’indagine approfondita. Le donne sono libere di andarsene in qualsiasi momento, per andare a scuola, al lavoro o per altre attività personali, e possono andarsene definitivamente quando vogliono, senza bisogno dell’approvazione di un tutore o di un familiare», ha detto un funzionario del governo saudita al Guardian.
In realtà la situazione è molto diversa. I Dar al-Re’aya sono vere e proprie prigioni e sono, secondo diverse attiviste, uno degli strumenti meno conosciuti del regime per controllare e punire le donne. «Ogni ragazza che cresce in Arabia Saudita conosce questi centri e il loro orrore», ha raccontato una giovane donna che è riuscita a scapparne e che ora vive fuori dal suo paese: «Sono un inferno. Ho cercato di togliermi la vita quando ho saputo che mi avrebbero portata lì. Sapevo cosa succedeva alle donne in quesi posti e ho pensato: “Non sopravviverò”».

(AP Photo/Hasan Sarbakhshian)
Sarah al Yahia, un’attivista che attualmente vive a Londra e che ha lanciato una campagna per abolire queste “case di cura”, ha parlato con numerose donne che ci sono finite dentro: hanno descritto violenze quotidiane subite, raccontato di essere state sottoposte a perquisizioni corporali – per esempio a “test di verginità”, al loro arrivo – di essere state obbligate ad assumere dei sedativi. Ha raccontato che alle donne, al loro ingresso, viene assegnato un numero e che durante la loro permanenza è con quel numero che vengono chiamate. Quando qualcuna si presenta col proprio vero nome viene frustata. Se non prega, viene frustata. Se viene trovata sola con un’altra donna, viene frustata e accusata di essere lesbica. Le punizioni si svolgono spesso in modo collettivo.
Yahia, che ora ha 38 anni e che vive in esilio, ha raccontato che i genitori la minacciavano di rinchiuderla in un Dar al-Re’aya fin da quando aveva 13 anni: «Mio padre la usava come minaccia, se non avessi obbedito alle sue richieste sessuali», ha raccontato. Yahia spiega che le ragazze e le donne si trovano spesso di fronte al terribile problema di dover scegliere tra finire in uno di questi centri rimanere in una casa dove subiscono violenze di ogni tipo: «Se subisci degli abusi sessuali o rimani incinta di tuo fratello o di tuo padre, sei tu quella che viene mandata in un Dar al-Re’aya per proteggere la reputazione della famiglia», dice.
Un’altra donna di 25 anni che il Guardian chiama Amina per proteggerne la vera identità ha raccontato di aver cercato rifugio in una “casa di cura” di Buraydah, città dell’Arabia Saudita centrale, dopo essere stata picchiata dal padre. Ha raccontato che l’edificio era «vecchio, fatiscente», che il personale era «freddo e indisponente» e che ha sminuito quanto da lei raccontato dicendole che altre donne stavano peggio e che avrebbe dovuto ringraziare Dio che la sua situazione non fosse così grave.
Il giorno dopo il suo arrivo, il personale del centro convocò suo padre, con il quale venne spinta a negoziare e a firmare infine una sorta di accordo in cui si impegnava a rispettare i membri della famiglia, a non uscire mai di casa senza un permesso e a essere sempre accompagnata da un tutore: «Ho firmato per paura: sentivo di non avere scelta», ha detto Amina. Una volta tornata a casa, la sua situazione è rimasta la stessa e alla fine è riuscita a scappare all’estero: «Ricordo di essere stata completamente sola ed ero terrorizzata. Mi sentivo prigioniera in casa mia, senza nessuno che mi proteggesse, nessuno che mi difendesse. Mi sembrava che la mia vita non contasse, che se anche mi fosse successo qualcosa di terribile, a nessuno sarebbe importato».
Shams, anche questo un nome di fantasia, ha raccontato che quando aveva 16 anni una donna che era stata in uno di questi centri venne portata nella sua scuola per raccontare la sua storia e ammonire le studenti: «Ci ha detto che se una donna ha dei rapporti sessuali o una relazione prima o al di fuori del matrimonio diventa una “donna di poco valore”. Se sei un uomo, rimarrai per sempre un uomo, ma se diventi una di poco valore, lo sarai per tutta la vita».

(Eric Lafforgue/Art in All of Us/Corbis via Getty Images)
Altre ex detenute hanno raccontato di essere state costrette a mangiare il loro vomito dopo aver rigettato del cibo andato a male. Altre ancora hanno spiegato che in questi centri a volte vengono lasciati entrare degli uomini per picchiare le donne, che a volte anche qui subiscono molestie sessuali. In un rapporto del 2021 di ALQST, una ong saudita che si occupa di diritti umani, le donne hanno detto di essere state costrette a stare in piedi per intere giornate come punizione per i propri comportamenti.
Layla, nome di fantasia, vive ancora in Arabia Saudita e ha raccontato di essere stata portata in un Dar al-Re’aya dopo aver denunciato alla polizia che il padre e i fratelli avevano abusato di lei e l’avevano accusata di disonorare la famiglia per aver pubblicato sui social un post sui diritti delle donne. È rimasta in questo centro finché suo padre non ha acconsentito al suo rilascio, nonostante fosse proprio lui il suo aggressore.
La permanenza in questi centri può durare anni ed è solo con l’autorizzazione della famiglia o di un tutore maschio che chi è rinchiusa può uscirne. Spesso l’unica via d’uscita è invece il matrimonio: alcuni uomini anziani o ex detenuti che non hanno trovato una moglie frequentano questi istituti per “sceglierne” una.
Fawzia al Otaibi, un’attivista costretta a fuggire dal suo paese nel 2022, ha spiegato che molti uomini sauditi pensano che se una donna si trova in questi luoghi è perché se lo merita: «E nessuno osa twittare o parlare di questi centri. Nessuno chiederà di te quando ci vai. L’obiettivo è far vergognare le vittime». In effetti sembrano non esistere dati ufficiali o completi su queste strutture: nel 2016 le donne che risultavano detenute nelle sette strutture del paese erano 233. Nel 2018, il governo aveva annunciato l’intenzione di aprirne altri cinque, anche per far fronte alle violazioni del codice della strada dopo l’entrata in vigore, proprio quell’anno, dell’abolizione del divieto di guida per le donne.
ALQST ha segnalato diversi suicidi e tentati suicidi avvenuti all’interno dei centri. Qualche anno fa è circolato un video che mostra una donna sul cornicione della finestra che tenta di scappare o buttarsi. Nel 2015, una donna è stata trovata morta nella propria stanza. In un biglietto accanto a lei, si leggeva: «Ho deciso di morire per sfuggire all’inferno».
Le attiviste per i diritti delle donne saudite si battono da tempo per un cambiamento culturale e per il miglioramento della condizione delle donne nel paese, oltre che naturalmente per l’abolizione di questi centri e l’apertura di veri rifugi per vittime di violenza domestica in cui, come ha spiegato l’attivista Nadyeen Abdulaziz, «le donne vengano protette, anziché punite». Non è mai stato concesso loro il permesso di farlo e, al contrario, le responsabili di alcuni progetti alternativi e indipendenti sono state arrestate, così come molte donne che hanno osato rivendicare pubblicamente maggiori diritti e libertà.



