L’italiano che diventò un mito della musica alternativa argentina

Da noi è quasi sconosciuto, ma a Buenos Aires la casa di Luca Prodan è un luogo di pellegrinaggio

Luca Prodan (Ministerio de Cultura de la Nación Argentina)
Luca Prodan (Ministerio de Cultura de la Nación Argentina)
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Da più di trent’anni un anonimo palazzo che si trova al civico 451 di Calle Alsina, nel centro di Buenos Aires, è diventato un passaggio obbligato per gli appassionati di musica alternativa argentini: a volte lasciano davanti all’ingresso fiori o plettri per chitarra, in altri casi estraggono un pennarello dalla tasca e scrivono un messaggio sul malconcio portone in legno. Frasi brevi e celebrative come «gracias por todo» (grazie per tutto), «mal arte» (cattiva arte) e «Luca vive!».

È il palazzo in cui visse per sette anni Luca Prodan, un musicista italiano che negli anni Ottanta fu uno dei principali protagonisti del punk rock di Buenos Aires, da solo e insieme ai Sumo, il suo gruppo, uno dei più importanti di quel decennio in Argentina.

Anche se in Italia Prodan è pressoché sconosciuto, in Argentina è un musicista di enorme culto: attorno alla sua figura è stata costruita una certa mitologia, dovuta alle molte circostanze eccezionali della sua vita, alle sue abitudini eccessive e sregolate e soprattutto al ruolo fondamentale che ebbe nel diffondere i suoni, i temi e gli approcci della musica punk in un paese ai tempi culturalmente impenetrabile.

Per dare l’idea, tre dei quattro dischi pubblicati in carriera dai Sumo sono stati inseriti nella classifica dei 100 album argentini più importanti di sempre redatta dall’edizione locale di Rolling Stone, e su Spotify le canzoni più ascoltate della band hanno decine di milioni di ascolti. Le due band che si formarono in seguito alla scissione dei Sumo, i Divididos e i Pelotas, sono tuttora tra le più importanti e ascoltate del paese.

Il portone d’ingresso della casa di Luca Prodan, a Buenos Aires (Google Maps)

L’anno prossimo usciranno due produzioni dedicate alla vita di Prodan: Time Fate Love, film scritto dallo sceneggiatore argentino Armando Bó (quello di Birdman), che ha recentemente definito Prodan «un dio»; e il documentario LP, dedicato alla vita di Prodan e all’enorme considerazione di cui gode in Argentina, prodotto dalla società italiana Indyca.

Luca Lancise, il regista che lo ha scritto e diretto, racconta che sentì parlare per la prima volta di Prodan quattro anni fa, mentre si trovava in vacanza a Buenos Aires. «Mi capitava spesso di vedere sui muri delle scritte come “Luca è ancora vivo” o “Luca grazie”, spesso vicino a murales che raffiguravano un uomo senza capelli e con gli occhiali da sole. Così ho cominciato a investigare».

Dopo aver chiesto informazioni alle persone del posto, Lancise si è reso conto che «in città Prodan era un mito, il simbolo di un certo modo di intendere la vita, anarchico e libertario». Questo perché negli anni Ottanta la sua musica diventò «una sorta di colonna sonora inconsapevole del processo che, nel 1983, portò alla transizione democratica del paese», e «il suo nome, la sua musica e la sua iconografia sono associate a quel periodo di grandi trasformazioni politiche, sociali e di costume».

Un murale dedicato a Luca Prodan, Buenos Aires

Ma, forse ancor più che musicalmente, la storia di Prodan è straordinaria soprattutto «da un punto di vista strettamente biografico», spiega Lancise. I suoi genitori, il mercante d’arte italiano Mario Prodan e la scozzese Cecilia Pollock, erede della più antica compagnia tranviaria di Shanghai, si conobbero in Cina agli inizi degli anni Quaranta, prima della rivoluzione di Mao Zedong. Si trasferirono in Italia nel 1949, dopo aver trascorso un periodo di prigionia in un campo di internamento giapponese.

Prodan nacque a Roma nel maggio di quattro anni dopo. Terzo di quattro figli, trascorse un’infanzia molto agiata: suo fratello Andrea ha raccontato al Guardian che trascorrevano l’estate navigando nel mar Mediterraneo sul lussuoso yacht di famiglia.

Quando aveva 11 anni i genitori lo mandarono in Scozia per studiare alla Gordonstoun, una prestigiosa scuola scozzese della città di Elgin in cui, tra le altre cose, ebbe come compagno di studi un giovanissimo Carlo III, ai tempi ancora principe. Nelle aule di Gordonstoun conobbe Timmy McKern, un ragazzo argentino che negli anni successivi avrebbe avuto un ruolo importante nella sua vita, e cominciò a strimpellare i primi accordi alla chitarra.

Scappò da Elgin a 17 anni, dopo aver messo da parte qualche risparmio grazie alla vendita di un fucile: scomparve per 2 mesi e mezzo, prima di farsi trovare vicino alla sua casa di Roma. Nel 1976, dopo aver trascorso un breve periodo in carcere per possesso di marijuana, cominciò la leva obbligatoria nell’esercito italiano, ma la abbandonò dopo pochi giorni per raggiungere Londra, la città in cui si era trasferito il suo amico McKern. «Quando andò via aveva ancora la divisa addosso. Per questo motivo fu accusato di diserzione, un reato gravissimo», dice Lancise. Verso la metà degli anni Settanta, Londra esercitava sui musicisti un fascino con pochi eguali: «era il place to be per chiunque volesse fare musica e trovare un modo per entrare in contatto con certi ambienti».

Giunse in città nel momento di massimo splendore del punk, negli anni in cui emersero i Sex Pistols e i Clash, ma diventò dipendente dall’eroina, che occupò una parte enorme della sua vita, e nel 1979 quasi lo uccise: finì in coma per qualche mese, e al suo risveglio «ebbe come una rivelazione e decise di cambiare vita», dice Lancise.

Per farlo contattò McKern, che nel frattempo era tornato a vivere a Buenos Aires. La sua speranza era disintossicarsi, e per farlo l’Argentina era il posto ideale. «Lì l’eroina non era ancora arrivata, e Prodan concepì quel trasferimento come l’occasione per rinascere, anche se la rimpiazzò fin da subito con l’alcol».

Una volta giunto a Buenos Aires, Prodan si dedicò a tempo pieno alla musica: tirò su il primo gruppo insieme a due musicisti locali, il bassista Alejandro Sokol e il chitarrista Germán Daffunchio, e a una sua vecchia conoscenza londinese, la batterista Stephanie Nuttal, che si trasferì in Argentina su invito di Prodan.

A Buenos Aires Prodan apparve subito come un alieno. Questo perché «si concedeva il lusso di scrivere alcune delle sue canzoni in inglese nel pieno della guerra delle Falkland, quando la dittatura militare metteva al bando tutto ciò che fosse anche soltanto lontanamente britannico». Anche i temi trattati nei testi venivano percepiti come sovversivi dai giovani argentini del tempo: «parlava in una forma molto libera e schietta di temi come il sesso, le sottoculture e le droghe, senza curarsi minimamente del contesto restrittivo e di censura in cui si trovava».

I Sumo furono una band tipicamente “post-punk”, com’è chiamato l’eterogeneo insieme di esperienze musicali che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta raccolsero l’eredità del punk. Mescolarono infatti generi e tradizioni musicali diverse, dal funk alla new wave, prendendo in prestito in particolare dalla musica reggae e dallo ska e ispirandosi a band di grande successo di quegli anni come i Clash, i Joy Division, i Madness e i Police.

Il primo disco della band, Corpiños en la madrugada, uscì nel 1983 e fu distribuito in 300 cassette che vennero vendute al termine dei concerti della band, e inizialmente diventò oggetto di un culto sotterraneo. «Non erano ancora un gruppo capace di riempire i palazzetti, ma ottennero fin da subito un grande seguito nel circuito underground», dice Lancise.

La fama dei Sumo diventò nazionale grazie a La Rubia Tarada, una delle canzoni contenute in quel disco, che consentì al gruppo di abbandonare il circuito underground e farsi notare dalla CBS Records.

Da quel momento in poi la carriera dei Sumo cambiò. «Firmarono per una major: Furono una delle prime band emerse nei circuiti indipendenti di Buenos Aires a fare questo genere di salto, e acquisirono una fama enorme». Con la CBS pubblicarono quattro dischi, diventati tutti dei successi: Divididos por la felicidad (1985), Llegando los monos (1986), After Chabón (1987) e Fiebre (1989), uscito dopo la morte di Prodan, avvenuta a 34 anni.

Le circostanze della sua morte furono a lungo dibattute, anche perché non fu mai eseguita un’autopsia sul corpo. I giornali argentini parlarono fin da subito di un arresto cardiaco dovuto alle complicanze di una cirrosi epatica. Negli anni successivi si diffusero però altre teorie: il giornalista musicale argentino Enrique Symns disse per esempio che Prodan morì per un’overdose da eroina, mentre il sassofonista Roberto Pettinato, che suonò alcune parti nei dischi dei Sumo, parlò di un’overdose da metanfetamine. Entrambe le ipotesi, comunque, non sono mai state confermate.

Luca Prodan (a destra) con la prima formazione dei Sumo, 1981 (Timmy McKern/Wikimedia Commons)

Quella di Prodan è soprattutto la storia di una «grande fuga da tante cose: la scuola, la famiglia, la leva militare, le convenzioni sociali troppo strette, lo stile di vita borghese», dice Lancise. Un altro motivo di interesse della biografia di Prodan è la sua capacità di intersecare contesti diversissimi: «si è formato in paesi che stavano vivendo trasformazioni profonde, dall’Italia degli anni Settanta all’Inghilterra thatcheriana, fino all’Argentina della dittatura militare».

Secondo Lancise, il periodo argentino di Prodan fu «la sua bonus track». «A Londra la sua vita era praticamente quasi finita: l’eroina lo stava uccidendo e, anche se aveva qualche canzone da parte, non era mai riuscito a trovare una sua direzione artistica». La sua consacrazione avvenne in maniera velocissima e inaspettata proprio nel breve periodo che trascorse a Buenos Aires. «È diventato una leggenda nel giro di sette anni, e in un modo unico e imprevedibile: una parabola del genere non la vedi tutti i giorni, se ti occupi di raccontare storie».

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