Storia dei fratelli Tachè

«La piazza adesso era dedicata a Stefano Tachè, unica vittima dell’attentato alla sinagoga di Roma, compiuto da un commando terrorista palestinese l’8 ottobre del 1982. “C’erano i genitori e il fratello del bimbo che all’epoca aveva due anni”. Ho aspettato prima di leggere il resto, e c’era il nome di Gady, “sopravvissuto, ma riportando gravi ferite”».

Dopo l'attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 in cui morì Stefano Tachè Gay, di 2 anni. (ANSA)
Dopo l'attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 in cui morì Stefano Tachè Gay, di 2 anni. (ANSA)
Laura Fontana
Laura Fontana

Nata nel 1984 a Veroli (Frosinone), mamma di Raf e Fra. Si occupa di ricerca nell’ambito della sociologia digitale e dell’analisi del web. Scrive di Internet e popular culture su Rivista Studio, Link e altri magazine.

Caricamento player

Nei primi anni del Duemila frequentavo il corso di Teorie e tecniche della comunicazione politica in un’università romana di periferia. Era una classe composta da neanche trenta persone e ci conoscevamo tutti, ma un ragazzo in particolare aveva attirato la mia attenzione: si vestiva da “mod”, una sottocultura musicale nata negli anni ’60 con delle contaminazioni “indie”. Indossava jeans scuri e sneaker Onitsuka Tiger, alla moda in quel periodo per via dei film di Tarantino, e il parka con sopra appuntate delle spillette: degli Oasis, dei Beatles e il logo della RAF; si chiamava Gady e, in effetti, era il frontman di una band romana di musica alternativa.

Nella stessa classe c’era un’altra ragazza che, invece, era decisamente più del genere “rocchettara” con marcato accento romano (era di Ostia); la tipica ragazza che si poteva incontrare a Stazione Birra nella serata in cui suonava una cover band dei Queen. Spesso indossava come sciarpa una kefiah, per ripararsi dal freddo mattutino e dall’umidità che si alzava dai pratoni di Tor Vergata. Siccome all’epoca ancora non si usava comprare online questo tipo di oggettistica, noi giovani studenti universitari ci rifornivamo dallo “Zoppo”, un piccolo negozio vicino alla stazione Termini, di tutta quella roba (spillette e t-shirt di gruppi musicali, borchie, collane con ciondoli neopagani, kefiah di ogni colore) che serviva a definire la nostra estetica e le nostre identità. Di sera andavamo al Circolo degli Artisti, di giorno ci mettevamo seduti sulle panchine della facoltà di Lettere e Filosofia a parlare di musica e “scena indie” romana.

Un giorno, di punto in bianco, Gady domandò alla ragazza romana-rocchettara se avesse mai pensato al fatto che la kefiah che indossava potesse risultare irrispettosa, ferire qualcuno in qualche modo. Lei da un lato trasecolò, sgranò gli occhi stupita dalla domanda, dall’altro era contenta delle attenzioni che Gady improvvisamente le riservava. Sbattendo le ciglia, rispose che no, lei non solo non si era posta il problema, ma nel caso era quello offeso che doveva «pijarsela in der posto», perché lei indossando la kefiah sosteneva una causa nobile, appoggiata tra l’altro anche dal collettivo studentesco della facoltà. Gady, che non batté ciglio, si accese una sigaretta. La conversazione dopo questo piccolo inciampo continuò come se nulla fosse, con la ragazza che propose di andare la sera non so in quale pub ché suonava non so chi.

Un anno dopo ero a fare il mio primo stage nella neonata “redazione web” di un partito politico. Il mio lavoro consisteva nel caricare sul loro sito notizie relative al partito e interviste ai suoi esponenti, tagliando le parti che si riferivano allo schieramento opposto. La sera continuavo a frequentare il Circolo degli Artisti e andare ai concerti di band indie, tra cui quella di Gady. Visto che il suo cognome era Tachè, una volta mi ero lanciata a chiedergli «delle sue origini», anche un po’ per dissipare quell’alone di mistero che si portava dietro. Era decisamente riservato ma a volte pensavo che fosse solo un modo d’imitare l’atteggiamento di Noel Gallagher. Mi rispose che lui era «di Roma», ma forse con origini siriane.

Un giorno, però, mentre svolgevo i miei compiti di redattrice web al partito, arrivò una cartella con un po’ di articoli da caricare sul sito, tra cui la notizia di Walter Veltroni che inaugurava la nuova intestazione di una piazza romana. La piazza – lessi – adesso era dedicata a Stefano Tachè, unica vittima dell’attentato alla sinagoga di Roma compiuto da un commando terrorista palestinese l’8 ottobre del 1982. «Alla scoperta della targa c’era tanta gente, i genitori e il fratello del bimbo che all’epoca aveva due anni». Ho aspettato almeno sessanta secondi prima di leggere il resto, poi sono andata avanti e c’era il nome di Gady, appunto il fratello di Stefano, «sopravvissuto all’attentato, ma riportando gravi ferite».

Indicibile l’effetto che fa una rivelazione del genere. Certe storie ci arrivano mediate da schermi e programmi tv, ma ci sembra inverosimile che sia possibile arrivare a sfiorarle per davvero. Tra le varie cose imperscrutabili ce n’era una, laterale, ma che mi toccava in prima persona e mi lasciava interdetta: di questo attentato non sapevo niente, forse mi era arrivata una qualche eco lontana. Mi chiedevo come fosse possibile, visto che ero cresciuta in una casa piena zeppa di libri sui cosiddetti “misteri d’Italia”, ereditando la stessa passione di mio padre per cose tipo il caso Moro, la sparizione di Emanuela Orlandi, la P2.

Era ferrato su qualsiasi attentato avvenuto sul suolo italico e, infatti, gli chiesi conto di quello alla Sinagoga nell’82. Se lo ricordava ma ne sapeva poco anche lui: «Erano anni in cui succedevano tante cose ogni giorno», rispose. (Sul grande rimosso degli attentati di matrice terroristica palestinese a Roma, Pablo Trincia ci ha fatto un podcast, Sangue Loro – Il ragazzo mandato a uccidere, che però sfiora solamente l’attentato alla sinagoga al punto che il nome della vittima non viene neanche specificato. In effetti, ci sono molte parti oscure sugli attentati presi in considerazione da Trincia – l’attentato a Fiumicino e quello agli uffici della British Airways romana – su cui non si è fatto né chiarezza, né giustizia. E ancora di più ce ne sono per l’attentato alla sinagoga).

– Leggi anche: L’attacco alla sinagoga di Roma, quarant’anni fa

Ho continuato a pensare a questa storia per anni. Una storia viva all’interno della comunità ebraica ma decisamente rimossa dalla coscienza collettiva nazionale, nonché da quella romana, che in effetti neanche io conoscevo. Nel frattempo mettevo “Mi piace” ai post di Gady su Facebook, quando pubblicava il video di una sua nuova canzone o quando, intorno a quella data di ottobre, metteva news di eventi commemorativi dedicati al fratello. Poi nel 2022 pubblicò un post in cui annunciava di aver scritto un libro, Il silenzio che urla, pubblicato dalla Casa Editrice Giuntina. Il libro è il racconto in prima persona della sua esperienza di sopravvissuto a un attentato, nonché parente di una vittima, ma inizia molti anni dopo con il racconto di un altro attentato – l’attacco terroristico alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo di dieci anni fa, il 7 gennaio 2015 – e con il conseguente risveglio di un trauma mai del tutto elaborato.

È in quel momento che Gady Tachè inizia a parlare coi genitori e con altri membri della comunità ebraica, e a rileggere con un atteggiamento diverso articoli e interviste che parlano di quello che accadde. Quello che scopre è un mondo fatto di reticenza, propaganda, ragioni di Stato e accordi segreti tra governi italiani e l’OLP. Scrive:

«Per gran parte della mia vita ho creduto che fosse impossibile sapere la verità. Per quasi quarant’anni, tutte le informazioni sono rimaste chiuse negli scantinati delle amministrazioni pubbliche, coperte dal segreto di Stato».

Quando nel 2014 il presidente del Consiglio Matteo Renzi dispone la desecretazione dei documenti delle stragi comprese tra il ’69 e l’84, Gady decide di indagare lui stesso. Si presenta all’Archivio di Stato dove viene accolto con grande benevolenza, ma dove sente anche di «essere fuori luogo» mentre spulcia documenti e prende appunti:

«Cosa ci facevo io in un posto riservato solitamente ai ricercatori?»
«Perché la verità non era già stata fatta emergere da qualcun altro? Perché sono le vittime a dover indagare, come se la giustizia fosse solo una questione privata?».

Per molto tempo Gadiel Tachè non aveva voluto essere identificato come vittima o “parente della vittima”, e non è mai andato in un talk show a inveire contro lo Stato o altre istituzioni, verso cui invece ha sempre riservato rispetto. Sulla sua vicenda personale ha scritto qualche canzone, aspettando il momento giusto per scrivere un libro che si chiude con le parole del discorso di insediamento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ricevette la famiglia al Quirinale l’1 aprile di dieci anni fa:

«Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Tachè, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».

Sergio Mattarella con Gadiel Gaj Tachè e Daniela Gaj, fratello e mamma di Stefano. Palazzo del Quirinale, Roma, 1 aprile 2015

Il nome di Stefano Tachè era stato inserito nell’elenco dei cittadini italiani vittime del terrorismo soltanto nel 2012, grazie all’allora presidente Giorgio Napolitano. Il prossimo 25 luglio avrebbe compiuto 45 anni.

Stefano Tachè (archivio Gady Tachè)

Per anni ho ripensato alla figuraccia fatta da quella ragazza romana con la kefiah al collo (chissà se ha mai scoperto con chi stava parlando o se si è continuata a crogiolare nei suoi alti ideali) e per anni mi sono chiesta perché mai Gady avesse scelto l’estetica modernista per rappresentare sé stesso. Mi piace pensare che la risposta sia in quello slogan che usavano i mods negli anni ’60: «Clean living during difficult times».

– Leggi anche: Chi era Stefano Gaj Taché

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su