A Istanbul i piatti della batteria si fanno ancora a suon di martellate

È il posto del mondo da cui provengono quelli più rinomati, grazie a una tradizione vecchia secoli tramandata da alcune botteghe di artigiani

di Giuseppe Luca Scaffidi

Due operai della fabbrica di piatti Bosphorus, a Istanbul (Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)
Due operai della fabbrica di piatti Bosphorus, a Istanbul (Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)
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«La prima volta in cui maneggiai un martello avevo 11 anni: oggi ne ho quasi sessanta, e non ho ancora smesso», dice Ibrahim Yakici mostrando i calli e i duroni che costellano le sue mani. «Non cominciai per passione, ma per necessità. Dovevo aiutare la mia famiglia, portare il pane in tavola: a Istanbul ai tempi le cose funzionavano così».

Insieme ai colleghi Hasan Seker e Hasan Ozdemir, Yakici è uno dei proprietari di Bosphorus, un’azienda specializzata in una delle produzioni più antiche e rinomate della Turchia: quella dei piatti musicali, o “cimbali”, degli strumenti a percussione che hanno alle spalle una storia lunghissima, e che oggi vengono utilizzati principalmente dai batteristi.

La fabbrica di Bosphorus si trova in uno spiazzo alla fine di una lunga e ripida discesa del quartiere di Eyüpsultan, nella parte europea della città: è un piccolo edificio in cemento piuttosto spartano, e se non fosse per una rudimentale insegna blu sarebbe indistinguibile dalle tante botteghe artigiane presenti nella zona. Al suo interno lavorano 15 persone che, come Yakici sottolinea a più riprese con un tono fieramente luddista, «fanno ancora tutto quanto con le loro mani: qui dentro non ci sono macchine industriali, catene di montaggio o altre diavolerie».

Ibrahim Yakici davanti alla fabbrica della Bosphorus (Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)

All’ingresso sono disposte decine di pacchi: sono le consegne da eseguire durante la settimana. «Impacchettiamo e spediamo in tutto il mondo, è un bel lavoraccio», racconta Yakici. Le destinazioni sono diverse: Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Australia, Canada e soprattutto Stati Uniti, «che per noi sono il mercato più importante».

(Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)

I piatti fanno parte dei cosiddetti “idiofoni a suono indeterminato”, ossia strumenti a percussione che producono suoni non precisamente identificabili, come il gong, il triangolo o le nacchere. Ne esistono diversi modelli: quelli fondamentali per l’accompagnamento sono il charleston, composto da una coppia di piatti montati orizzontalmente su un supporto metallico dotato di pedale, e il “ride”, che solitamente si trova sul lato destro della batteria (o su quello sinistro, nel caso dei mancini), vicino alla mano dominante. I batteristi poi compongono i loro set con altri piatti, che hanno nomi diversi (come “crash”, “china”, “sizzle” e “splash”) e che variano in base a diametri, spessori, profili, forme, volumi e accenti.

Anche se esistono da millenni, la tradizione dei piatti del Bosforo viene fatta solitamente risalire al XVII secolo, ed è associata a un nome leggendario: quello del fabbro e alchimista armeno Avedis Zildjian, che nel 1618 cominciò a costruire piatti da destinare alle mehter, le tipiche bande musicali militari dell’Impero Ottomano.

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Nel 1623 Zildjian ottenne dal sultano Mustafa I il permesso di aprire un piccolo laboratorio nel quartiere di Psamatia, nell’allora Costantinopoli: oggi è diventato la più importante e prestigiosa azienda del settore, anche se «ormai di turco non ha più niente», sottolinea Yakici. Dal 1968, dopo un’acquisizione da parte di un erede della famiglia che aveva aperto uno stabilimento a Boston, la Zildjian è infatti un’azienda statunitense: ha sede a Norwell, nel Massachusetts, e domina il mercato assieme alla Sabian, fondata in Canada nel 1981 da Robert Zildjian, un altro membro della dinastia che decise di mettersi in proprio dopo una lunga controversia legale tra eredi.

Yakici, Seker e Ozdemir aprirono la Bosphorus nel 1996, dopo la «grande scissione» della Istanbul Cymbals, l’azienda di cimbali in cui avevano lavorato fino a quel momento, e dalla cui divisione nacquero altre due fabbriche che appassionati e addetti ai lavori conoscono bene: la Agop e la Mehmet.

Un operaio della Bosphorus lavora al tornio (Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)

I piatti di Bosphorus sono apprezzati per la loro grande qualità e per la loro manifattura ancora interamente artigianale: si inseriscono in un mercato di nicchia, e sono una merce molto richiesta soprattutto da batteristi attivi nel jazz che vogliono ottenere suoni singolari e riconoscibili. Yakici li definisce «dei pezzi unici», dato che «non ce n’è uno uguale all’altro: ciascun piatto deve avere la sua storia e il suo suono».

Musicisti provenienti da tutto il mondo spesso visitano la fabbrica per provarne qualcuno, o per vedere gli artigiani all’opera. «È sempre un piacere accogliere dei visitatori in questo posto e vedere le facce che fanno: per una realtà piccola come la nostra, il rapporto con le persone è tutto», dice Yakici. Altre fabbriche non fanno lo stesso (Mehmet ha esplicitamente rifiutato una proposta di visita del Post, Agop non ha mai risposto): secondo Yakici tendono a mantenere una certa riservatezza perché ormai sono delle industrie vere e proprie, anche se enfatizzano le caratteristiche artigianali dei loro prodotti.

Le visite in fabbrica sono guidate da Mehmet Öztürk, che oltre a tradurre dal turco all’inglese le parole di Yakici e degli altri operai della fabbrica, si occupa di curare i rapporti con la stampa e con il pubblico. «Qui produciamo tutto a mano. Utilizziamo strumenti elettrici solo per la calandratura, la pressatura della campana e ovviamente per far girare il tornio: tutto il resto viene fatto dai nostri mastri piattai. Ogni fase di questo processo è indispensabile, non esistono scorciatoie», dice.

La «magia», come la chiama Öztürk, comincia facendo fondere del rame in un grosso calderone: quando la temperatura raggiunge i 1000 gradi viene aggiunta una certa percentuale di stagno, secondo quella che l’azienda definisce una «formula segreta» (la maggior parte dei piatti sul mercato, comunque, è fatta con una lega chiamata B20, un bronzo composto per l’80 per cento di rame e per il 20 per cento di stagno), e li si mescola. Alla fine di questo processo si preleva la lega metallica in forma liquida dal calderone e la si travasa in dei pentolini più piccoli, che contengono acqua bollente: si ottengono così dei dischi solidi, che vengono appiattiti una prima volta utilizzando la calandra, una macchina utensile costituita da due o più cilindri rotanti.

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Dopo questa fase, spiega Öztürk, il piatto deve essere «temperato», ossia immerso nell’acqua fredda, fino al giorno successivo. Poi viene scaldato in una fornace a legna e subisce ulteriori passaggi in forno e alla calandra, «un processo che si ripete come minimo 12 volte per un singolo disco». La campana (la parte centrale e rialzata del piatto) viene realizzata con una pressa. A quel punto si tagliano i bordi, così da “sgrezzare” il piatto e dargli una forma più circolare, che poi viene ulteriormente definita dalla tornitura.

L’ultima fase, quella che caratterizza più di ogni altra l’attività degli artigiani dei piatti di Istanbul, è quella della martellatura, il punto più delicato di tutto il processo.

(Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)

Yakici spiega che acquisire la tecnica necessaria per una buona martellatura è molto difficile. In sintesi funziona così: una mano, quella forte, si occupa di martellare il piatto in modo regolare e costante, cambiando traiettoria a seconda delle esigenze: l’altra di spostarlo per coprire ogni zona della superficie. A seconda della dimensione del martello, del numero dei colpi inferti e della forza applicata, il piatto assume una forma particolare che determina anche le sue caratteristiche sonore, influenzando il modo in cui le vibrazioni si propagano attraverso il metallo.

Nelle aziende più grandi la martellatura è stata interamente meccanizzata: questa innovazione ha consentito di aumentare enormemente i volumi di produzione, sacrificando però la complessità del suono. «La nostra arte sta tutta nel martello e nel modo in cui lo usiamo: le fotocopie non ci piacciono, preferiamo che ogni piatto suoni in un modo tutto suo», dice Öztürk.

Oltre che con le visite guidate, Bosphorus cura i rapporti con la clientela anche attraverso un piano editoriale: pubblica periodicamente delle newsletter in diverse lingue in cui batteristi provenienti da tutto il mondo e con diversi gradi di esperienza (endorser dell’azienda, distributori, semplici appassionati) raccontano il loro lavoro e rivelano alcuni segreti del mestiere, come per esempio la composizione del loro set. Ce n’è anche una in italiano: si chiama Piatti, e viene scritta da Gianluca Gallino, l’ambasciatore del marchio per l’Italia.

(Giuseppe Luca Scaffidi/Il Post)

Yakici dice che, attualmente, Bosphorus produce dai 10mila ai 15mila piatti all’anno, ma che al di là dei risultati economici il suo obiettivo è «permettere a un’arte destinata a scomparire di sopravvivere il più a lungo possibile». Questo perché «le persone che lavorano qui dentro e nei pochi altri posti che fanno tutto a mano saranno forse l’ultima generazione a intendere questo mestiere in senso artigianale». Secondo Öztürk, continuare a trasmettere questo sapere è «fondamentale», perché si tratta di «una tradizione turca d’eccellenza», il cui punto di forza sta proprio in quella «irripetibilità» che, con una definitiva transizione industriale, andrebbe persa.

Da Bosphorus lavora anche Arda, il più giovane apprendista dell’azienda, che ha già le idee molto chiare. «Voglio migliorare la mia tecnica, diventare un maestro e produrre i migliori piatti in circolazione. Quelli della mia età interessati a questa arte sono pochissimi, e farla sopravvivere ogni giorno per me è un onore».

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