Le preoccupazioni per l’economia italiana nel 2025
Anche secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio ce ne sono, a causa di un'industria stagnante e dei dazi di Trump, tra le altre cose

Mercoledì l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), l’organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica e sulla politica economica del governo, ha pubblicato la sua nota congiunturale cosiddetta, cioè quella con cui ciclicamente aggiorna le analisi e le previsioni sull’economia italiana.
Il quadro che ne emerge nel complesso è preoccupante, e riflette stime analoghe fatte sia dal Fondo monetario internazionale (FMI) a gennaio, sia dall’ISTAT a dicembre. La crescita del prodotto interno lordo (PIL), ovvero del dato che indica la dimensione dell’economia nazionale, nel 2024 è stata un po’ più bassa del previsto, ma è soprattutto quella del 2025 a preoccupare: l’UPB prevede infatti un aumento dello 0,8 per cento, ben al di sotto dell’1,2 per cento che si prefigge il governo nel Piano strutturale di bilancio elaborato lo scorso settembre. Ma anche questa crescita, più modesta, sembra comunque a rischio per via di diversi fattori, che hanno a che fare soprattutto con le tensioni commerciali nel mondo e col possibile rincaro dei prezzi del gas.
La mancata crescita potrebbe essere un problema anche per la tenuta dei saldi di finanza pubblica. Un PIL più basso farebbe aumentare di conseguenza il deficit, cioè il disavanzo, e questo renderebbe dunque più debole il già disastrato bilancio pubblico. Il governo, finora, ha adottato politiche economiche prudenti. Sta però emergendo, in generale, l’inconsistenza delle misure adottate per facilitare gli investimenti e per sollecitare la produttività delle imprese: e questa sofferenza dell’industria manifatturiera, il settore nel complesso più in difficoltà già da mesi, potrà essere compensata solo in parte dall’effetto benefico del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei, anche perché la spesa effettiva relativa ai progetti contenuti nel Piano procede piuttosto a rilento.
La preoccupazione sull’economia per il 2025 in realtà deriva dall’andamento dell’economia del 2024. Negli ultimi due trimestri dello scorso anno c’è stata una crescita nulla del PIL, e dunque tutto lo 0,8 per cento in più previsto per il 2025 andrà costruito nel corso dell’anno, non potendo cioè contare sul cosiddetto “effetto trascinamento”. Si riparte da zero, insomma.
Se la vitalità dell’industria è piuttosto scarsa fin dal 2022, e i primi segnali rilevati a gennaio dall’UPB non legittimano grande ottimismo neanche per i prossimi mesi, anche il settore terziario, che pure era stato quello più dinamico, nella seconda parte del 2024 non è andato bene, soprattutto il commercio.
Nel complesso, i principali indici di fiducia delle imprese risentono ancora del calo registrato in autunno, e anche questo induce a un certo pessimismo. Sono indici calcolati facendo sondaggi e interviste alle imprese su come si pongono rispetto al futuro della loro attività, e sono un parametro abbastanza indicativo: se manca fiducia vuol dire che verranno fatti meno e meno investimenti, e dunque verosimilmente la produzione ne risentirà.
Un altro dato che preoccupa riguarda le esportazioni. Per tutto il 2024, con variazioni più o meno significative nei vari settori, il volume e il valore dei beni e servizi totali sono calati, per la prima volta dalla fine della pandemia di Covid. Particolarmente importante è stata la riduzione delle esportazioni verso i mercati più favorevoli per l’Italia, e cioè Germania, Stati Uniti e Cina, compensata solo in parte con l’aumento dei commerci verso la Turchia e i paesi OPEC, cioè i principali esportatori di petrolio.
L’UPB riprende le recenti inchieste condotte dall’ISTAT, che testimoniano anche in questo caso, come per le imprese, un peggioramento delle attese: gli indici economici sulle aspettative di crescita segnalano una contrazione degli ordini esteri nell’autunno del 2024 di circa 8 punti percentuali rispetto all’estate, e questo dato potrebbe influire sull’avvio del 2025.

La presidente dell’UPB Lilia Cavallari insieme al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, alla Camera, il 18 giugno 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
È proprio in questo settore che c’è l’incognita più grossa, cioè i nuovi dazi annunciati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’UPB, pur in attesa di comprendere in che misura gli annunci si concretizzeranno, prevede comunque che gli effetti avversi delle nuove politiche protezionistiche «potrebbero essere considerevoli», e riflettersi anche in Europa. L’Italia, in particolare, ha esportato circa 66 miliardi di euro di beni e servizi negli Stati Uniti nel 2024, con un surplus commerciale di oltre 40 miliardi (esportiamo più di quello che importiamo, dunque). Le perdite del settore manifatturiero, e le incertezze legate al peggioramento della situazione internazionale, avevano già prodotto una riduzione degli scambi, che nel 2025 rischiano dunque di essere ancora più evidenti.
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In una situazione così incerta, le prospettive di crescita economica per l’Italia poggiano soprattutto sui consumi interni. E da questo punto di vista, un mercato del lavoro che in questi ultimi due anni è stato abbastanza dinamico offre motivi di speranza: se la gente continua a trovare lavoro, tenderà anche a spendere di più. Anche perché, a confronto con gli altri paesi europei, l’inflazione in Italia è rimasta in questi mesi su livelli tutto sommato contenuti, intorno all’1 per cento.
Anche qui, però, c’è qualche incognita. Il mercato del lavoro negli ultimi due trimestri del 2024 ha iniziato infatti a mostrare dei rallentamenti: il numero di ore lavorate è aumentato solo nel settore dei servizi, la produttività oraria è calata, e in generale i dati a partire da settembre sono stati assai meno positivi di quelli precedenti. E le tensioni internazionali potrebbero verosimilmente riflettersi, secondo l’UPB, in un rincaro delle materie prime e del gas, con un conseguente aumento delle spese in bolletta. Un’incertezza, questa, che del resto è percepita anche dagli italiani, che mantengono un’alta propensione al risparmio (il che di solito segnala timori per il futuro, e non favorisce l’economia).
In questo contesto le ricadute del PNRR possono garantire un po’ di crescita in più, e infatti la realizzazione dei progetti legati al Piano ha risollevato un po’ il settore edilizio, che ha smesso di beneficiare degli effetti garantiti dal Superbonus (il costosissimo bonus edilizio introdotto nel 2020 e poi via via ridotto). Ma a maggior ragione, diventa ora decisiva un’attuazione efficace e tempestiva del PNRR, che invece procede un po’ a rilento. Se sul fronte delle riforme l’Italia è tra i paesi europei più virtuosi, e per certi versi il più virtuoso in assoluto, per quel che riguarda la realizzazione degli investimenti, cioè la parte che darebbe maggiore beneficio all’economia reale, ci sono difficoltà, e non è escluso che la realizzazione di alcune opere verrà rinviata dal 2025 al 2026, probabilmente anche oltre la scadenza finale del PNRR fissata per giugno 2026. Questo renderebbe meno consistenti gli effetti positivi del Piano sul PIL, nei prossimi mesi, perché verrebbero diluiti nel tempo.
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