Uno dei più famosi concerti della storia del jazz rischiò di non farsi

Quando cinquant'anni fa Keith Jarrett vide il pianoforte che gli avevano preparato all'Opera di Colonia si rifiutò di suonare: per fortuna alla fine una 18enne lo convinse

di Stefano Vizio

La copertina del Koln Concert. (ECM)
La copertina del Koln Concert. (ECM)
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È molto probabile a un certo punto della sera del 24 gennaio del 1975 la 18enne Vera Brandes abbia pensato che il quinto concerto della rassegna di jazz che stava organizzando nella sua città, Colonia, non si sarebbe tenuto. Più o meno tutto quello che poteva andare storto era effettivamente andato storto, e Keith Jarrett, uno dei più importanti pianisti al mondo, noto tanto per il talento quanto per il carattere difficile, non voleva più suonare al palazzo dell’Opera, nonostante tutti i 1.400 biglietti disponibili fossero stati venduti.

Quella sera pioveva molto forte, e questo aveva impedito di riparare a un errore madornale commesso dal personale della sala da concerto nelle ore precedenti. Jarrett infatti aveva richiesto un pianoforte a gran coda austriaco Bösendorfer 290 Imperial, ma qualcuno fece confusione e piazzò sul palco un cosiddetto codino, cioè un pianoforte sì a coda, ma significativamente più piccolo, usato raramente ai concerti, men che mai per uno di quel livello. Era pure malmesso: ci vollero diverse ore per accordarlo, e comunque anche alla fine i tasti neri nella parte centrale rimanevano un po’ incastrati, i pedali funzionavano male e il suono era piuttosto esile sulle ottave più basse e su quelle più alte della tastiera.

Quando lo vide, Jarrett fece per andarsene. Era più nervoso del solito: in quel periodo non dormiva bene per un gran mal di schiena, ed era arrivato a Colonia nel pomeriggio dopo un viaggio di diverse ore da Zurigo su una vecchia Renault 4, perché aveva deciso di non spostarsi con l’aereo come previsto. In realtà l’Imperial richiesto era effettivamente nella sala da concerto, ma nessuno sapeva dove. Era venerdì pomeriggio e il personale se n’era già andato. Lo ha raccontato anni dopo Brandes, che sarebbe stata sorprendentemente giovane anche solo per organizzare un concerto di Keith Jarrett che fosse andato tutto liscio. Invece si ritrovò a gestire un concerto di Keith Jarrett in cui mancava il pianoforte.

E si diede da fare. Si attaccò al telefono per provare a recuperare il Bösendorfer giusto finché ne trovò uno tramite il padre di un amico, e organizzò il trasferimento. Fu in quel momento che l’accordatore, che con uno sforzo prodigioso era intanto riuscito a rendere suonabile quello sbagliato, le disse che se non era disposta a rischiare 45.000 marchi, l’equivalente di circa 80mila euro di oggi, era meglio non spostare uno strumento del genere attraverso la città con quel freddo e sotto quella pioggia.

Brandes raggiunse Jarrett nel cortile del palazzo mentre lui se ne stava già andando, e in qualche modo gli fece promettere che si sarebbe presentato al concerto. Forse c’entrò la sua giovane età, forse aiutò il non capirsi bene tra inglese e tedesco, forse fu tutto il lavoro che aveva ormai fatto l’accordatore. Jarrett se ne andò controvoglia a cena, molto in ritardo rispetto alla prenotazione al ristorante. Ebbe tempo di mangiare poco e male. Nel frattempo centinaia di persone che avevano pagato l’equivalente di sette euro di oggi stavano riempiendo la sala, dopo la rappresentazione di un’opera. L’inizio del concerto era previsto per le undici e mezza. Non sapevano che stavano per assistere a uno dei concerti più leggendari della storia della musica.

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Keith Jarrett aveva solo 29 anni, ma era già molto famoso. Nei dieci anni precedenti aveva fatto parte di alcune delle formazioni jazz più importanti di sempre, prima nei Jazz Messengers di Art Blakey, poi nella band elettrica con cui Miles Davis era andato in tour dopo la svolta fusion di In a Silent WayBitches Brew. Ma suonare l’organo e il Fender Rhodes non gli piaceva, e appena possibile Jarrett era tornato al pianoforte acustico, mettendo insieme due formidabili quartetti. Uno cosiddetto “americano” con Charlie Haden e Dewey Redman, musicisti della scuola di Ornette Coleman, il sassofonista che aveva inaugurato la stagione rivoluzionaria del free jazz; e uno “europeo” con il sassofonista norvegese Jan Garbarek. Con entrambi contribuì a definire il suono e la reputazione dell’etichetta tedesca ECM, una delle più importanti istituzioni europee del jazz.

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Un paio di anni prima di Colonia, Jarrett aveva iniziato a fare dei concerti al pianoforte da solo, totalmente improvvisati. Si sedeva sul palco senza sapere cosa avrebbe suonato, e partendo da una semplice frase costruiva progressioni di accordi, arpeggi, ostinati, accompagnamenti di basso, assoli di grande virtuosismo, bordoni avvolgenti, spaziando dal jazz al blues al gospel e ispirandosi anche al pop e al rock.

A ispirarlo poteva essere qualsiasi cosa: a Colonia per esempio cominciò riproducendo le quattro note dell’annuncio con cui nella sala da concerto si invitavano gli spettatori a tornare ai propri posti, cosa che fece ridere qualcuno nel pubblico, come si sente ascoltando attentamente i primi secondi del disco.

Furono proprio le circostanze sfortunate a rendere speciale il concerto. Jarrett dovette adattarsi ai limiti del pianoforte a disposizione, suonando prevalentemente nella parte centrale della tastiera e aiutandosi con accordi vigorosi e giri di basso continui con la mano sinistra, per ingigantire il suono e sfruttare la componente percussiva dello strumento, mascherandone i difetti armonici. Per buona parte della prima mezz’ora del concerto rimase prevalentemente su due accordi, La minore e Sol, sviluppando un tema dalle sonorità blues e gospel particolarmente allegro e travolgente, che accompagnò coi suoi tipici versi di trasporto, distintamente udibili nel disco.

La seconda e la terza parte iniziano a loro volta con degli ostinati ritmati e galvanizzanti, in Re maggiore e in Fa diesis minore, mentre la quarta fu il bis, in cui reinterpretò con molte improvvisazioni un suo pezzo di qualche anno prima, “Memories of Tomorrow”.

Brandes ha raccontato che capì che le cose si erano sistemate dalle prime note di Jarrett. C’era una grande tensione, quella sera, che sparì all’istante quando cominciò a suonare, e proprio il fatto che il pianoforte fosse così sottodimensionato, secondo lei, contribuì a rendere il pubblico più attento e coinvolto. Se Jarrett fosse stato più riposato, se il pianoforte fosse stato quello giusto, se non ci fossero state tutte quelle difficoltà il risultato non sarebbe stato quel senso di sollievo che trasmette una dopo l’altra ogni nota del concerto, ha detto Brandes.

Fu un caso che un ingegnere del suono della ECM avesse piazzato attorno al pianoforte alcuni microfoni, per registrare il concerto per scopi interni. Non ce n’era motivo, viste le premesse travagliate del concerto. Ma quell’intuizione fu la fortuna dell’etichetta: The Köln Concert sarebbe diventato il disco più venduto della sua storia, con oltre 4 milioni di copie, nonché il disco jazz solista più venduto di sempre. Tuttora è uno di quei dischi di jazz che conosce anche chi non sa niente di jazz, anche grazie ai molti utilizzi celebri, come quello che ne fece Nanni Moretti in una scena di Caro diario, quella in cui va in Vespa al monumento a Pier Paolo Pasolini a Ostia.

Jarrett continuò a fare grandi concerti di musica improvvisata al pianoforte per tutta la sua carriera, molti dei quali furono registrati e pubblicati fino al 2016. Ed ebbe un grande successo anche in trio con il contrabbassista Gary Peacock e il batterista Jack DeJohnette. Oggi ha 79 anni, ma da diverso tempo non riesce più a suonare, per via di due ictus che gli hanno parzialmente paralizzato la metà sinistra del corpo.

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