Un “film concerto” che è stato realmente importante

È nei cinema “Stop Making Sense” dei Talking Heads, che grazie al carisma e all'inventiva di David Byrne e al regista Jonathan Demme viene ricordato ancora oggi a 40 anni dall'uscita

Un fotogramma da Stop Making Sense, film concerto sui Talking Heads del 1984 diretto da Jonathan Demme (A24)
Un fotogramma da Stop Making Sense, film concerto sui Talking Heads del 1984 diretto da Jonathan Demme (A24)
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Da lunedì a mercoledì diversi cinema italiani proietteranno una versione restaurata di Stop Making Sense, il celebre documentario dedicato a una serie di concerti che i Talking Heads, una delle band più influenti della musica alternativa statunitense degli Settanta e Ottanta, tennero a Los Angeles nel dicembre del 1983. Stop Making Sense, che uscì al cinema nell’ottobre di quarant’anni fa, viene spesso definito dai critici come uno dei documentari musicali (anche se molti preferiscono l’espressione «film concerto») migliori di tutti i tempi, se non il migliore di tutti i tempi.

Per dare l’idea, nel 1984 vinse il premio per il miglior documentario assegnato dalla National Society of Film Critics, una prestigiosa e rispettata associazione di critica cinematografica statunitense, e nel 2021 è stato selezionato per entrare nel National Film Registry, che raccoglie i film scelti per la conservazione nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Come successo in rari casi, per esempio con L’ultimo valzer di Martin Scorsese, fu un “film concerto” che ebbe un reale impatto e che rimase realmente nella storia della musica, a differenza del solito: le registrazioni dei concerti sono infatti note spesso per essere un genere di scarso interesse, se non per i più grandi fan delle band protagoniste.

Stop Making Sense gode di questa fama per varie ragioni, che riguardano in parte il suo aspetto più strettamente narrativo, e in parte il modo in cui fu prodotto, scritto e diretto. Racconta il periodo di massimo splendore dei Talking Heads, che negli anni precedenti si erano costruiti un’identità riconoscibilissima e originale sia dal punto di vista musicale sia da quello dell’immagine. Tra le molte band che avevano provato a discostarsi dall’eredità del punk per sperimentare approcci nuovi, aperti a contaminazioni da generi diversi e all’impiego delle nuove tecnologie, erano forse quella che aveva ottenuto i maggiori successi commerciali, pur mantenendo una grande rispettabilità tra gli amanti della musica alternativa.

Nel 1984, quando il documentario uscì al cinema, i Talking Heads erano una delle band più importanti in circolazione: l’anno prima avevano pubblicato Speaking in Tongues, il loro quinto disco in studio, che raggiunse i primi posti delle classifiche statunitensi grazie a tre singoli molto riusciti: “Burning Down the House”, “This Must Be the Place” e “Girlfriend Is Better”, dai cui versi finali il documentario prende il titolo.

Stop Making Sense fu girato in quattro differenti serate al Pantages Theatre di Hollywood, e fu il primo documentario realizzato con la tecnologia digital audio, ossia convertendo in digitale tracce originariamente registrate in analogico. Lo diresse il regista statunitense Jonathan Demme, che negli anni successivi si sarebbe occupato di altre produzioni legate alla musica, come alcuni video di Bruce Springsteen e un documentario sul musicista napoletano Enzo Avitabile, e avrebbe vinto un premio Oscar per Il silenzio degli innocenti.

Per produrre Stop Making Sense, i Talking Heads investirono più di un milione di dollari: il fatto che fosse un’opera in larga parte autofinanziata consentì alla band, e in particolare al frontman David Byrne, di esercitare un controllo creativo piuttosto esteso sulla realizzazione del documentario. Infatti, pur essendo diretto da Demme, una parte importante della qualità visiva e scenica di Stop Making Sense è dovuta a intuizioni dello stesso Byrne, che aveva un gusto formidabile per lo spettacolo.

Le trovate di Byrne conferirono a Stop Making Sense un’estetica surrealista e grottesca che lo differenziò dagli altri documentari musicali del tempo. Uno dei primi tratti distintivi fu l’abbigliamento che i Talking Heads e gli altri musicisti che parteciparono al documentario (le coriste Lynn Mabry e Ednah Holt, il tastierista Bernie Worrell, il percussionista Steve Scales e il chitarrista Alex Weir) indossarono, caratterizzato da una predominanza di colori chiari (enfatizzati dai giochi di luce di Beverly Emmons, incentrati su diverse tonalità di bianco) e da continui cambi di costume, tra cui il più famoso è il cosiddetto big suit, l’abito grigio e decisamente troppo grande che Byrne indossò durante l’esecuzione di “Girlfriend Is Better”.

Un altro elemento che connotò Stop Making Sense furono le citazioni cinematografiche: i titoli di testa, realizzati dal designer cubano Pablo Ferro, richiamano esplicitamente quelli di Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, un film di Stanley Kubrick.

Anche le scelte di regia furono piuttosto insolite: per evitare che la visione potesse essere influenzata dalle risposte degli spettatori presenti ai concerti, Byrne e Demme scelsero di inquadrare il pubblico presente al Pantages Theatre pochissime volte. Inoltre, benché già ai tempi Demme fosse conosciuto per la sua tendenza a effettuare primi piani molto stretti, Stop Making Sense è composto soprattutto da inquadrature larghe e fisse, che filmavano tutti i componenti della band contemporaneamente e davano risalto alle loro interazioni sul palco.

Fu una scelta insolita: i documentari di quegli anni indugiavano spesso su alcuni momenti ricorrenti dei concerti rock, come gli assoli dei musicisti o le espressioni facciali dei cantanti. In Stop Making Sense non c’è niente di tutto questo: per allontanarsi dai toni celebrativi e pomposi dei documentari del periodo, Byrne e Demme predilessero uno sguardo focalizzato sulla visione d’insieme. Anche il montaggio è molto poco frenetico: non ci sono cambi di scena repentini e, anzi, ci sono diversi momenti in cui i tecnici vengono filmati mentre preparano i cambi di scenografia.

Infine, Stop Making Sense è ricordato ancora oggi per le coreografie eccentriche ideate da Byrne e dagli altri membri della band: si trattava di movenze molto semplici e ostentatamente amatoriali, ma di grande impatto visivo. Per esempio, verso la fine di “This Must Be the Place” Byrne si mette a ballare in modo entusiasta con una lampada, e chiunque abbia visto il documentario non può dimenticare il suo memorabile movimento di gambe in “Life During Wartime”.

I Talking Heads si formarono a New York nel 1974 dall’incontro tra l’eclettico e carismatico leader David Byrne, la bassista Tina Weymouth e il suo compagno, il batterista Chris Frantz, ai quali qualche tempo dopo si aggiunse Jerry Harrison, già chitarrista dei Modern Lovers, una band di rock alternativo di Boston.

Tre anni dopo uscì il loro primo disco, Talking Heads: 77: ottenne sin da subito un successo di pubblico e critica enorme grazie a una proposta musicale unica per i tempi, che univa l’anarchia compositiva del punk, le linee di basso allegre e ballabili del funky, influenze ritmiche derivate da varie tradizioni musicali africane, e i ritornelli accattivanti e apparentemente privi di senso tipici dei tormentoni pop del tempo, elementi che risultano evidenti soprattutto nel caso di “Psycho Killer”, il singolo che trainò il disco.

Il suono ricercato e insolito dei Talking Heads intercettò l’interesse di critici e addetti ai lavori, e in particolare del musicista e discografico britannico Brian Eno, che negli anni successivi produsse diversi dischi dei Talking Heads. Il suo contributo alla definizione del suono della band fu così profondo che, a un certo punto, cominciò a essere considerato una sorta di quinto membro della band; in particolare, Eno stabilì un rapporto professionale e umano molto profondo con Byrne, che ha spesso descritto come uno dei musicisti più geniali che abbia mai conosciuto. Tra le altre cose, dalla loro complicità artistica nacque, nel 1981, My Life in the Bush of Ghosts, un disco particolarmente influente negli anni successivi.

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Anche se i critici musicali continuarono ad associarli ai filoni del post punk e della new wave, in realtà Eno e i Talking Heads perfezionarono una proposta sostanzialmente incatalogabile e aperta alle contaminazioni più disparate: i dischi dei Talking Heads erano infatti spesso diversissimi tra loro, dato che risentivano delle fissazioni musicali del momento, eppure qualsiasi loro canzone è riconoscibile nel giro di pochi secondi, per il suono unico delle chitarre, dello stile vocale di Byrne, e delle basi ritmiche.

Il massimo esempio del fervore creativo dei Talking Heads e di Eno fu probabilmente Remain in Light, il quarto disco della band, uscito nel 1980. In quel periodo Byrne ascoltava moltissima musica africana ed era diventato un accanito ascoltatore del musicista nigeriano Fela Kuti, l’inventore dell’afrobeat. Anche per via dell’influenza di Kuti, Remain in Light è considerato ancora oggi l’album più ambizioso ed eccentrico che i Talking Heads abbiano mai realizzato: il critico di Rolling Stone Andy Greene lo ha definito «una strana miscela di funk, hip hop, afrobeat, new wave, rock», diversa da tutta la musica che andava per la maggiore nel mercato statunitense del tempo.

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I Talking Heads si distinsero fin da subito anche sotto il profilo estetico. Byrne, Weymouth, Frantz e Harrison si vestivano in modo casual e molto colorato, discostandosi dalla classica “divisa” resa popolare dai Ramones e composta da jeans, maglietta bianca e giacche di pelle nera. Anche i loro concerti erano diversi da quelli delle altre band della scena punk del tempo, che erano spesso incentrati su un approccio violento e disinibito: i Talking Heads, al contrario, si muovevano molto poco sul palco, e le loro esibizioni erano caratterizzate da un certo senso di solennità e compostezza.

In quegli anni il dualismo tra la raffinatezza del Talking Heads e l’essenzialità dei Ramones fu ampiamente raccontato dalle riviste di settore. Questo contrasto si rese particolarmente evidente nella serie di concerti che i Ramones e i Talking Heads tennero congiuntamente nel 1977, e che il critico musicale inglese Simon Reynolds ha definito «il tour peggio assortito di sempre», evidenziando quanto le due band fossero distanti nell’approccio e nella proposta musicale. «I Ramones non credevano ai loro occhi: durante il viaggio, gli Heads leggevano libri», ha scritto Reynolds nel suo saggio Post Punk 1978 – 1984.

Un altro tratto distintivo dei Talking Heads furono i testi, che acquisivano spesso la forma di conversazioni, monologhi interiori o parti recitative in cui Byrne interpretava un determinato personaggio. «Quanto agli argomenti, le canzoni di Byrne saltavano a piè pari i temi che monopolizzavano il 96 per cento dell’attenzione del rock (amore, sesso, svariate forme di ribellione e cattiva condotta) per esplorare il vasto mondo delle altre cose di cui è fatto il mondo: burocrazia, televisione, animali, apparecchi elettrici e città», ha scritto a questo proposito Reynolds.

Nei circa quindici anni di attività, il repertorio dei Talking Heads diventò una sorta di canone della musica alternativa statunitense, amato e ascoltato ancora oggi da fan vecchi e nuovi, sia nelle sue declinazioni più pop e sofisticate – è il caso per esempio della canzone “And She Was” – sia in quelle più malinconiche e delicate – “Road to Nowhere”, tra le più celebri – sia ancora in quelle più ritmate e ballabili – “Once in a Lifetime”, per dirne una.

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