Gli spazi vuoti di “Paris, Texas”

Quarant'anni fa uscì un film di Wim Wenders citato e amato ancora oggi, fatto di deserti, silenzi e personaggi tristi

Harry Dean Stanton nella scena iniziale di Paris, Texas
Harry Dean Stanton nella scena iniziale di Paris, Texas

La scena che è rimasta di più di Paris, Texas, il decimo film del regista tedesco Wim Wenders, che uscì al cinema il 19 maggio di quarant’anni fa, è quella in cui il protagonista Travis Henderson (Harry Dean Stanton) gira per il deserto da solo, passeggiando confuso con un berretto rosso in testa e una tanica d’acqua in mano.

È una sequenza che critici e addetti ai lavori apprezzano per il suo straordinario impatto visivo, e anche perché rappresenta una delle massime espressioni di un concetto molto caro a Wenders: quello secondo cui il paesaggio e la sua osservazione contribuiscono a definire lo stato d’animo dei personaggi, al pari dei dialoghi.

La messa in scena è sempre stata una delle sue ossessioni, e in Paris, Texas questa caratteristica viene nobilitata fino all’estremo. È uno di quei film belli da guardare nel senso più ampio del termine, per la raffinatezza della composizione delle inquadrature di Wenders e per dettagli estetici come le insegne al neon dei motel e dei diner messe in risalto dai brillanti giochi di luce del direttore della fotografia Robby Müller, così come per il modo in cui sono mostrati i sobborghi meno eleganti della periferia di Los Angeles.

Quando Paris, Texas fu presentato al cinema Wenders era già un regista con una certa esperienza: aveva diretto film apprezzati dalla critica come Alice nelle città, Falso movimento e Nel corso del tempo, che compongono la cosiddetta “Trilogia della strada”, facendosi conoscere per il realismo esasperato delle sue inquadrature e per le ambientazioni volutamente cupe e desolanti. Nel 1982 aveva ottenuto anche il suo primo importante riconoscimento internazionale grazie a Lo stato delle cose, per cui fu premiato con il Leone d’oro al miglior film durante la 39esima edizione della Mostra del cinema di Venezia.

Paris, Texas uscì quindi in un periodo di grande fervore creativo per Wenders, che in quella fase della sua carriera stava provando ad affermarsi come regista di fama internazionale in grado di attirare le attenzioni delle grandi produzioni di Hollywood.

Oggi Paris, Texas è considerato uno dei suoi film più riusciti, e il migliore tra quelli ambientati negli Stati Uniti. Non viene ricordato tanto per il ritmo o per la trama, anzi: è caratterizzato da una certa lentezza e racconta una storia tutto sommato semplice.

In sostanza, si tratta di un road movie (genere che Wenders aveva già approfondito nella “Trilogia della strada”) che racconta la storia di Travis, un uomo taciturno che vaga da solo per il deserto, e di suo fratello Walt (Dean Stockwell), che a un certo punto riesce a contattarlo e lo porta a Los Angeles, dove incontrerà suo figlio Hunter (Hunter Carson), che non vedeva da 8 anni. Dopo il ricongiungimento, Travis e Hunter partono insieme per un viaggio alla ricerca di Jane, moglie del primo e madre del secondo.

Il titolo richiama una delle poche frasi che Travis pronuncia durante la prima metà del film: «Paris, Texas» per l’appunto, dal nome di una cittadina texana in cui aveva acquistato un piccolo terreno anni prima. Anche se durante due ore abbondanti di visione succedono poche cose, Paris, Texas è uno di quei classici casi in cui la trama passa in secondo piano rispetto ad altri elementi: oltre alla già citata scenografia, l’altra caratteristica distintiva del film è l’attenzione per la caratterizzazione dei personaggi, il loro sviluppo e le relazioni che li legano.

Il culmine di questo lavoro sui protagonisti arriva verso la fine del film, con il ricongiungimento tra Travis e Jane, che lavora in un locale in cui gli uomini possono parlare al telefono con delle donne dall’altra parte di un vetro.

Il critico del Guardian Peter Bradshaw ha scritto che Paris, Texas è «una storia inquietante e triste il cui significato scompare nell’orizzonte, come su un’autostrada che si dirige verso il deserto», e che la sua grandezza dipende anche dalla bravura di Wenders e dello sceneggiatore Sam Shepard che hanno costruito dei personaggi ordinari ma a loro modo memorabili, soprattutto per via di una fragilità in cui lo spettatore riesce a immedesimarsi facilmente.

Un altro elemento che a detta di molti critici rende Paris, Texas un gran film è la musica: fu composta da Ry Cooder, un chitarrista folk specializzato in “steel guitar”, una chitarra elettrica che si suona facendo scivolare sui tasti un tubo in metallo detto slide. Con il suo peculiare modo di suonare, caratterizzato dall’uso di accordature aperte (in cui cioè le corde, suonando a vuoto, riproducono un accordo completo) e da fraseggi lentissimi e molto espressivi, diede un sottofondo perfetto a un film ambientato nel deserto e incentrato sull’angoscia.

Fu il film con cui Wenders vinse la sua prima e unica Palma d’oro al Festival di Cannes, e che consentì a Harry Dean Stanton di ottenere il suo primo ruolo importante da protagonista dopo una lunghissima gavetta: ai tempi aveva già 58 anni, e fino ad allora era stato apprezzato soprattutto come caratterista (un attore che interpreta ruoli secondari, magari particolari e bizzarri, e che si fa notare anche se lo si vede per pochi minuti in un film), recitando sia in film considerati indipendenti sia in film più noti e popolari come Il padrino – Parte II.

Con Paris, Texas Stanton dimostrò di poter essere anche un formidabile protagonista, peraltro rimanendo in silenzio per una buona metà del film. E con quel film cominciò a diventare un attore di culto, accrescendo poi la sua notorietà tra cinefili grazie ai diversi film che fece con David Lynch. Parlando della sua interpretazione, il critico Roger Ebert scrisse: «Stanton ha passato molto tempo negli angoli bui del noir americano, con la sua faccia sottile e i suoi occhi affamati, e in questo film crea una triste poesia».