I lavoratori italiani sono sempre più poveri, in confronto a quelli europei

Un recente rapporto dell'ISTAT dimostra come il potere d'acquisto della popolazione italiana sia calato negli ultimi dieci anni, mentre in Francia, Germania e Spagna è salito

Foto di persone sedute al ristorante in centro a Catania
Catania, 28 luglio 2023 (Fabrizio Villa/Getty Images)
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Due amiche nel 2013 svolgevano lo stesso impiego e prendevano lo stesso stipendio. Poi nel 2014 una delle due andò a lavorare in Germania, mentre l’altra restò in Italia. Se si rivedessero oggi, scoprirebbero che quella emigrata è decisamente più ricca di quella rimasta in Italia. Se nel 2013 avessero guadagnato entrambe 1.000 euro al mese, oggi quella che sta in Germania ne guadagnerebbe 1.350, quella in Italia circa 1.150. E soprattutto il potere d’acquisto della prima sarebbe aumentato di poco meno del 6 per cento, quello della seconda sarebbe diminuito di oltre il 4 per cento: significa che rispetto a 10 anni fa, con la stessa qualifica di lavoro, una può acquistare qualcosa in più, l’altra deve rinunciare a qualcosa.

È un esempio ipotetico, che però aiuta a comprendere una media rilevata nel rapporto annuale del 2024 dell’ISTAT, pubblicato mercoledì. Il rapporto descrive come il potere d’acquisto degli italiani sia diminuito in maniera drastica nell’ultimo decennio, specie se paragonato a quello degli altri grandi paesi europei. Il potere d’acquisto ha a che fare coi cosiddetti salari reali, che sono quelli che tengono conto dell’inflazione, cioè dell’aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Aumentando l’inflazione, ovviamente, si riduce la quantità di prodotti che con lo stesso stipendio ci si può permettere. Per evitare che l’inflazione sottragga potere d’acquisto ai lavoratori, c’è bisogno che le loro retribuzioni aumentino almeno allo stesso ritmo.

Questo non è avvenuto in Italia, mentre in altri grandi paesi europei sì. Dalla metà del 2021 alla fine del 2022 l’inflazione in Italia è aumentata sensibilmente, grossomodo in linea con la media europea, anche se qui da noi a influire in maniera decisiva sull’aumento dei prezzi sono stati soprattutto gli incrementi dei costi dell’energia. Tra l’ottobre e il novembre del 2022, l’inflazione ha raggiunto il suo massimo in Italia, con un picco del 12,6 per cento. Nel complesso, secondo i dati dell’agenzia di statistica europea Eurostat, nel 2022 in Italia l’inflazione è stata dell’8,7 per cento rispetto all’anno precedente: un dato lievemente maggiore della media dei 20 paesi dell’area dell’euro, pari all’8,4 per cento. Nello stesso anno, la Germania ha avuto lo stesso tasso d’inflazione italiano (anche se per i tedeschi hanno influito molto più i rincari sui beni alimentari che non su quelli energetici); in Francia l’inflazione è stata del 5,9 per cento, in Spagna dell’8,3.

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Poi nel 2023, in Italia come altrove in Europa, il tasso d’inflazione è calato: in Italia, secondo Eurostat, è stata del 5,9 per cento, mezzo punto più alta della media dei paesi dell’area dell’euro; in Germania è stata del 6 per cento, in Francia del 5,7 per cento e in Spagna del 3,4. Nei primi mesi del 2024, in Italia l’inflazione è stata più bassa della media europea: secondo le previsioni dell’ISTAT e di Eurostat, a fine anno il tasso di aumento dei prezzi dovrebbe essere di poco meno dell’1 per cento, un terzo rispetto alla media dell’Unione Europea (2,7 per cento).

Il governo di Giorgia Meloni ha rivendicato più volte questi ultimi dati come un successo, attribuendone più o meno direttamente il merito ad alcune misure adottate dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, che in verità sono state più che altro simboliche (parliamo del cosiddetto “carrello tricolore” che imponeva prezzi bloccati a prodotti di prima necessità, o dell’obbligo di esposizione dei prezzi medi regionali alle pompe di benzina). Più banalmente, essendo legata in massima parte al rincaro dei costi dell’energia, l’inflazione in Italia sta calando più in fretta proprio in virtù del fatto che rispetto al 2022 quei costi si sono ridotti di molto a livello internazionale, in un contesto che vede comunque il tasso d’inflazione diminuire un po’ ovunque in Europa.

Il ministro delle Imprese Adolfo Urso lancia l’iniziativa del trimestre anti-inflazione a Palazzo Chigi, il 28 settembre 2023 (Filippo Attili/LaPresse)

Ma al di là delle più o meno legittime rivendicazioni sul piano politico, il solo dato dell’inflazione dice poco su come in effetti, negli ultimi anni, i lavoratori italiani si siano impoveriti in maniera sensibile rispetto a quelli europei. In termini nominali, quindi al netto dell’inflazione, tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni lorde annue in Italia sono aumentate del 16 per cento, cioè poco più della metà della media europea (30,8 per cento). In Spagna e in Francia, l’aumento è stato del 22,7 per cento, in Germania del 35 per cento.

Questa tendenza, piuttosto costante nel corso di un intero decennio, si è manifestata ancora nel 2023: lo scorso anno, l’aumento degli stipendi in Italia è stato del 2,5 per cento, in Francia del 4,4 per cento, in Spagna del 5,3 e in Germania del 6,1 per cento.

Ma il divario diventa ancora più evidente se si fa il confronto tra gli stipendi reali, cioè quelli analizzati tenendo conto del contestuale andamento dell’inflazione. L’Italia è l’unico degli Stati europei nel quale gli stipendi reali sono calati tra il 2013 e il 2023. Nel corso del decennio, il potere d’acquisto nell’Unione è aumentato in media del 3 per cento; in Francia dell’1,1 per cento, in Spagna del 3,2 e in Germania del 5,7 per cento. In Italia è calato del 4,5 per cento. È un dato che si è fatto più marcato proprio negli ultimi due anni, quando cioè l’inflazione è cresciuta di più: rispetto al 2021, i lavoratori tedeschi hanno perso il 4,1 per cento del loro potere d’acquisto, i francesi l’1,5 e gli spagnoli l’1,9 per cento. Quelli italiani il 6,4 per cento.

Solo a partire dall’ottobre del 2023 i salari italiani sono tornati a crescere più dell’inflazione, e questa tendenza positiva si conferma nel primo trimestre del 2024, secondo i dati dell’ISTAT.

Tutto ciò ha a che fare anche con la crescente precarietà del lavoro, dice il rapporto. Secondo l’ISTAT, la riduzione dei salari reali può essere «associata alla crescente diffusione di tipologie contrattuali meno tutelate e a bassa intensità lavorativa, alle quali si è aggiunta negli ultimi anni l’erosione esercitata dalla crescita dell’inflazione». Non a caso, il rapporto mostra come il rischio di povertà raddoppi se si lavora part-time, se si ha un contratto a tempo determinato o un lavoro autonomo.

In Italia non solo chi è disoccupato ma anche chi lavora è esposto al rischio di povertà molto più che in altri paesi europei. La quota di occupati a rischio di povertà, secondo l’ISTAT, in Italia è aumentata costantemente, passando dal 9,5 per cento del 2010 all’11,5 per cento nel 2022, seguendo una tendenza che ha fatto aumentare notevolmente il divario rispetto alla media dell’Unione Europea, che nel 2022 era dell’8,5 per cento. Attualmente solo in Spagna la quota di lavoratori a rischio di povertà (11,7 per cento) supera quella italiana, sia pur di poco, ma con la differenza che in Spagna quel dato è in calo rispetto all’Italia. In Francia nel 2022 i lavoratori esposti al rischio di povertà sono il 7,5 per cento, in Germania del 7,2 per cento.

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