Una periferia senza centro

Sette anni e mezzo dopo i terremoti in Centro Italia, nella cittadina marchigiana di Camerino quasi tutti i residenti e le attività sono andate fuori, e i lavori di ricostruzione vanno lentissimi

di Angelo Mastrandrea

© Angelo Mastrandrea/il Post
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Sette anni e mezzo dopo i terremoti del 2016, il centro storico di Camerino, nelle Marche, è ancora quasi tutto da ricostruire. In piazza Cavour, il palazzo Ducale che ospitava il rettorato e la Scuola di Giurisprudenza è inagibile, il Duomo e l’Arcivescovado sono avvolti da impalcature per una ristrutturazione che costerà 22 milioni di euro, il bar Centrale è chiuso e il palazzo che lo ospitava è puntellato con aste di legno e cavi d’acciaio per evitare crolli.

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L’interno della ex chiesa di San Carlo Borromeo a Camerino. © Angelo Mastrandrea/il Post

Persino la statua di papa Sisto V è fasciata da un telo per proteggere le nuove formelle in bronzo, incastonate nella base al posto delle due originali, che erano della fine del Cinquecento e che sono state rubate. Poco più avanti, attorno all’antico ghetto ebraico della Giudecca, le porte del municipio e del teatro settecentesco sono sbarrate. La chiesa seicentesca sconsacrata di San Carlo Borromeo è pericolante e all’interno è ancora piena di calcinacci, come pure la vecchia sede dell’Accademia della Musica, che è stata ricostruita fuori dal centro storico grazie ai due milioni di euro donati dalla Andrea Bocelli Foundation. Ora ospita 150 studenti.

Solo la basilica di San Venanzio, dov’è stata trasferita una tavola di Giambattista Tiepolo che rappresenta un’apparizione della Madonna con bambino, è stata riaperta, grazie a un contributo di un milione e 800mila euro della Fondazione Arvedi Buschini, finanziata dalla famiglia di industriali dell’acciaio cremonese Arvedi e dalle aziende del gruppo. Lo Stato aveva stanziato quattro milioni di euro per il restauro, ma dopo tre anni i lavori non erano ancora stati appaltati e la Chiesa aveva quindi accettato il finanziamento della Fondazione Arvedi.

In piazza Garibaldi, le vetrine dell’ex cinema Betti ospitano ancora le locandine degli spettacoli in cartellone nei giorni del terremoto. La sala, di proprietà comunale, era stata riaperta da appena un anno e mezzo. Dopo il sisma è stata abbandonata, come pure l’albergo che si trovava ai piani superiori dello stesso palazzo, costruito negli anni Sessanta.

Il sindaco di Camerino è Roberto Lucarelli, un civico candidato da Forza Italia che vinse le elezioni nel 2022 con appena 46 voti di scarto sul precedente sindaco Sandro Sborgia. Lucarelli ha ordinato di abbattere l’albergo, ma l’ordinanza non può essere eseguita perché l’edificio fu costruito su una chiesa del Cinquecento e bisogna attendere gli esiti dell’indagine archeologica avviata dalla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata. Inoltre sarà necessario trovare un accordo con i Carabinieri, che da un anno hanno riaperto una caserma a pochi metri di distanza e potrebbero essere danneggiati dall’abbattimento.

Tra il 24 agosto e il 30 ottobre del 2016 la cittadina marchigiana fu colpita da uno sciame sismico molto intenso, che l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) definì «sequenza di Amatrice-Visso-Norcia» e che durò a lungo. Il primo terremoto, alle 3:36 del 24 agosto, di magnitudo 6 della scala Richter, uccise 299 persone tra Lazio, Marche e Umbria. Ma a Camerino provocò pochi danni perché quasi tutti gli edifici erano stati rinforzati dopo un altro terremoto avvenuto nel 1997.

Il successivo, la sera del 26 ottobre, non fece morti solo perché dopo la prima scossa di magnitudo 5.4 avvenuta alle 19:11 quasi tutti gli abitanti scapparono dalle loro case. Quando alle 21:18 arrivò la seconda, di magnitudo 5.9, e un campanile crollò su una casa in cui vivevano quattro studentesse universitarie distruggendola, queste erano già fuori. La terza scossa, alle 7:40 del 30 ottobre fu la più violenta: magnitudo 6.5, fu il terremoto più forte registrato in Italia dopo quello del 1980 in Irpinia. Anche in questa occasione non ci furono morti, perché il centro storico era già stato evacuato dopo le scosse di pochi giorni prima, e perché ancora una volta ci furono molti danni ma pochissimi crolli.

Camerino fu comunque il comune più danneggiato delle Marche e il secondo, dopo Amatrice, tra i 140 paesi colpiti dai terremoti del 2016. Furono stimati danni per 1,2 miliardi di euro. Di questi, 806 milioni riguardavano abitazioni private. L’intero centro storico, un’area di 163mila metri quadrati, fu dichiarato «zona rossa», cioè non vi si poteva entrare neppure a piedi per il rischio crolli. Tutte le strade furono sbarrate o transennate. Dei 371 palazzi che lo componevano, 330 furono danneggiati, il 90 per cento di questi in maniera grave. 56 di questi erano tutelati dalla Soprintendenza per il loro valore architettonico, culturale o storico.

Dopo sette anni e mezzo, 218 edifici storici sono ancora inagibili. I negozi sono stati svuotati e trasferiti in un complesso di moduli prefabbricati in aperta campagna, dov’è stata allestita un’area commerciale chiamata Sottocorte Village, con alcune strade e una piazza. Lo stesso è accaduto a bar, pasticcerie e ristoranti, dei quali nelle vecchie sedi rimangono solo le insegne, mentre le attività sono state spostate nella zona dei negozi o in qualche prefabbricato; 1.400 studenti sono invece ospitati nelle venti residenze costruite con i fondi messi a disposizione dal Tirolo, in Austria, e dalle province di Trento e Bolzano, o negli altri studentati già attivi prima del terremoto.

In centro ha riaperto solo Noè, un’osteria che durante la settimana è frequentata soprattutto dagli operai al lavoro nei cantieri, dal centinaio di abitanti che sono riusciti a risistemare le loro case, dagli altrettanti studenti che hanno affittato alcuni appartamenti ristrutturati, dai clienti affezionati che arrivano anche dai paesi vicini e da qualche turista di passaggio. Ogni tanto ci vanno anche i 130 ragazzi che alloggiano in un vicino residence universitario, ristrutturato dalla Curia e gestito dall’Ente regionale per il diritto allo studio (ERDIS). Il proprietario di Noè, Roberto Frifrì, aveva trasferito il ristorante al Sottocorte Village, ma «lì non veniva nessuno, in tutto il mese di novembre del 2019 ho incassato appena 1.270 euro», dice. Così, visto che il suo locale non era stato danneggiato molto dal terremoto, il 26 aprile del 2021 è tornato nel centro storico.

Un’auto abbandonata nel centro di Camerino. © il Post

«Sono cambiati sei governi, cinque commissari straordinari, due amministrazioni regionali e tre sindaci, ma la situazione è sempre la stessa», dice Francesco Nobili, professore di Scienze chimiche all’università che vive in un appartamento in affitto dal 2016, fuori dal centro storico. Non sa quando potrà rientrare nella sua casa. Nel 2018 Nobili, insieme ad altri abitanti del centro storico, fondò il comitato Concentrico, che rivendica il diritto di rientrare nelle proprie case in centro. «Abbiamo deciso di associarci perché ci siamo resi conto che si parlava tanto di ricostruzione, però poi non si muoveva niente», racconta. «Per cinque anni dopo il terremoto qui non si è vista neppure una gru».

Il palazzo in cui abitava è stato puntellato solo nel 2020 e ci sono voluti altri tre anni per presentare al comune la domanda per ottenere il finanziamento pubblico per la ristrutturazione. Ora il comune ha terminato la sua analisi del progetto, che però deve ancora essere approvato dall’Ufficio speciale per le cantierizzazioni.

Prima del terremoto, Camerino aveva circa 7mila abitanti. Quasi tutti abitavano nel centro storico, insieme ad altrettanti studenti universitari fuorisede. Nel raggio di poche centinaia di metri erano concentrate tutte le attività e i servizi. Ogni mattina gli autobus portavano in centro centinaia di studenti delle scuole superiori, e universitari provenienti dai paesi vicini e da quelli sulla costa. La presenza di tanti studenti in un contesto così piccolo rendeva Camerino un paese assai vivace. «Eravamo abituati ad avere tutte le attività concentrate nel centro storico, ora invece siamo una periferia senza centro», dice Luciano Antonini, presidente del comitato Concentrico.

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Secondo lui il terremoto «ha distrutto la socialità a Camerino, perché molti hanno lasciato definitivamente la città, i giovani non restano qui e chi è rimasto non ha più punti di aggregazione o anche solo di riferimento». Ora i residenti non superano i 4.500 e quasi tutti vivono sparpagliati nelle frazioni di campagna.

Anche le scuole, il municipio e l’università sono stati ricostruiti fuori dalla città. 306 famiglie, poco più di un migliaio di persone, abitano ancora nelle cosiddette Sistemazioni abitative provvisorie (SAE), moduli abitativi a schiera di poche decine di metri quadrati ciascuno, con un piccolo terrazzo, pochi metri quadrati di verde e il posto auto lungo la strada, costruiti in 9 aree lungo i pendii che portano verso il centro storico, sulla collina. Le case provvisorie avrebbero dovuto essere demolite dopo cinque anni, ma sono ancora tutte lì.

Un villaggio SAE a Camerino. © Angelo Mastrandrea/il Post

Nel 2023 il comune ha fatto un bando per riassegnare quelle che vengono lasciate da chi le abita, con un affitto che va da 38 euro al mese per una SAE di 40 metri quadrati ai 119 euro al mese per una da 80 metri quadrati. Altre 503 famiglie, circa duemila persone, ricevono invece un contributo pubblico per l’autonoma sistemazione, cioè il comune gli paga l’affitto. Le spese sono ingenti: solo nel mese di marzo sono costati 359mila euro, quasi quattro milioni e mezzo di euro in un anno.

Il 21 luglio del 2023, per sbloccare la ricostruzione del centro storico di Camerino, il commissario straordinario alla ricostruzione Guido Castelli, senatore di Fratelli d’Italia, ha approvato un’ordinanza speciale per la «cantierizzazione» che divide il centro storico in tre fasce concentriche. Nella prima, la più esterna, le richieste per ottenere il contributo pubblico per i lavori andavano presentate entro la fine di marzo, nella seconda il termine previsto è il 30 settembre del 2026, mentre nell’ultima si va a fine settembre del 2028.

Una volta presentato il progetto la trafila burocratica si fa lunga, ed è in parte anche per questo che Camerino dà l’impressione di essere rimasta ferma ai terremoti del 2016, come se tutto fosse rimasto immobile dopo le scosse.

Prima bisogna attendere l’esito dell’analisi del comune, la cosiddetta fase istruttoria. Poi deve esserci l’approvazione dell’Ufficio speciale per le cantierizzazioni e, se si tratta di edifici tutelati, della Conferenza dei servizi regionale. La procedura può durare, in teoria, dai sei mesi a un anno. Nella migliore delle ipotesi, per i palazzi della zona più centrale di Camerino i lavori di ristrutturazione potrebbero cominciare tra cinque anni. Nobili si ritiene fortunato, perché il suo palazzo ricade nella zona 3 ma i condòmini sono riusciti a presentare il progetto pochi giorni prima dell’ordinanza del commissario, che lo avrebbe rinviato al 2028, mentre ora è “in via di approvazione”. «Se avessimo tardato di un mese, non saremmo rientrati nelle nostre case prima di un decennio», dice.

«Questi tempi sono certi solo sulla carta, ma nella realtà rischiano di allungarsi molto perché gli uffici del comune riescono a valutarne di media appena uno ogni tre giorni», spiega Stefano Caroni, un geometra ed ex tecnico comunale a Pioraco, un paesino a 15 chilometri da Camerino. «Con questo ritmo per completare la ricostruzione ci vorranno vent’anni».

Caroni illustra i dati delle richieste di finanziamento pubblico depositate al comune e quelle approvate: anche lui ha presentato un progetto per sistemare casa sua, che si trova nella prima fascia, dove i lavori dovrebbero cominciare abbastanza presto. Sono 250 metri quadrati su due piani, più una cantina scavata nella roccia su cui è stato costruito l’edificio e un piccolo giardino sulle mura medievali. L’aveva appena ristrutturata «investendo tutti i risparmi», ma «purtroppo il terremoto ha stravolto la mia vita, adesso ho settant’anni e chissà se riuscirò mai a rientrarci», dice. Ora vive in affitto con la moglie in un appartamentino di 50 metri quadrati, «come uno studente universitario».

Il rettore dell’università Graziano Leoni ritiene che a Camerino molti cittadini non abbiano presentato le richieste di finanziamento per ristrutturare le loro abitazioni perché i documenti da presentare erano tanti, e la trafila burocratica troppo lunga e complessa. Poiché molti non vivevano in città e affittavano le case agli studenti, oppure erano persone anziane, «di fronte alle lungaggini burocratiche si sono scoraggiati». Secondo il comitato Concentrico, invece, i ritardi nella ricostruzione sono provocati soprattutto dal cumulo di incarichi tra pochi progettisti, che hanno provocato forti rallentamenti nella presentazione delle richieste di contributi pubblici. Per risolvere il problema, il comune ha stabilito un limite di trenta progetti per ogni studio.

Il centro storico di Camerino. © Angelo Mastrandrea/il Post

A rallentare ancora di più la ricostruzione è stato poi il Superbonus, cioè le detrazioni fiscali fino al 110 per cento sui lavori edilizi di efficientamento energetico. Quando il secondo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle, lo ha approvato nel 2020, molte imprese fermarono i cantieri per andare a ristrutturare le facciate e i tetti dei palazzi in altri comuni non colpiti dai terremoti.

Secondo Claudio Cingolani, presidente dell’associazione Io non crollo, per riuscire a rientrare nelle proprie case i cittadini di Camerino devono mobilitarsi e farsi sentire, non basta fare affidamento sull’impresa edile e sull’amministrazione pubblica, anzi. In certi casi le persone hanno i cantieri fermi da anni, con il rischio di perdere gli aiuti economici assegnati. «Il ritorno nella propria casa dipende dai danni subiti, dalla volontà di rientrare e di insistere con gli studi tecnici per realizzare i lavori, e dalla fortuna di avere un condominio dove tutti la pensano allo stesso modo», dice. «Bisogna anche sperare di non trovarsi accanto ad altri edifici pericolanti che impediscono la ricostruzione».

La sua associazione è costituita dai volontari che si impegnarono durante l’emergenza, raccogliendo 380mila euro per costruire due case da 150 metri quadrati ciascuna vicino a uno dei villaggi SAE, per creare luoghi di incontro, dove si possano svolgere attività culturali e sociali, visto che a Camerino non ce ne sono più. Cingolani è stato tra i primi a tornare nella sua abitazione vicino alla basilica di San Venanzio, ad agosto del 2018, proprio perché non aveva subìto molti danni e «i condòmini del palazzo fin dal primo momento sono stati molto decisi nel voler rientrare nelle loro case». Ammette però che «la vera emergenza di questa città è lo spopolamento del centro storico, che è ancora tutto da ricostruire».

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Il sindaco Lucarelli dice che vorrebbe «riportare la gente in centro», eppure nel frattempo anche il municipio è stato portato fuori. Rompere il circolo vizioso per cui i cittadini non rientrano perché mancano i servizi, e le attività commerciali non riaprono perché non ci sono le persone, è complicato. Secondo il rettore Leoni potrebbe farlo l’università, che ha un migliaio di dipendenti e circa 7mila studenti. Leoni la definisce «l’unico motore economico della città». «Se riusciamo a riportare gli studenti in città, questi potrebbero invogliare i commercianti a riaprire le loro attività nel centro storico, e se tornano i negozi rientrerebbero anche i i residenti», dice. Per «provare a seminare un germe», ha deciso di riaprire il rettorato nel centro storico.

Nonostante il terremoto e la pandemia di Covid, l’ateneo non ha perso studenti grazie a una politica mirata: per un periodo ha cancellato le tasse di iscrizione, ha fatto i corsi a distanza e ha organizzato un servizio quotidiano di bus per i pendolari dai paesi vicini. Inoltre sta ristrutturando alcuni studentati e ampliando quelli esistenti, dove oggi già alloggiano 1.400 persone. Ora ha circa duemila nuovi iscritti all’anno, 500 in più di prima del terremoto, ma un tasso di abbandono del 28 per cento, più alto che nelle altre università. Il rettore Leoni lo attribuisce «alla situazione della città, che non ha un centro e vive tutta in periferia, costringendo gli studenti a vivere solo nel campus».