Perché sarà difficile immaginare un nuovo Recovery Fund

È cambiato il contesto sia politico che economico rispetto a quando nel 2020 fu approvato il grande piano europeo di investimenti pubblici: a breve cambierà anche la Commissione europea

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel 2020 (AP Photo/Pedro Rocha)
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel 2020 (AP Photo/Pedro Rocha)
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Sebbene saranno in buona parte condizionati dall’esito delle elezioni europee di giugno, all’interno delle istituzioni europee sono già iniziati i lavori sulla programmazione dei fondi europei per il prossimo ciclo, quello dal 2028 al 2034, per il quale la Commissione europea dovrà formulare una proposta formale già nel 2025. Queste discussioni sono ancora in una fase assai preliminare, ma sembra già abbastanza chiaro che non abbia alcun futuro il modello del Recovery Fund, il fondo europeo straordinario da 750 miliardi di euro che fu approvato durante la pandemia per contrastare la conseguente crisi economica.

Il cosiddetto Recovery Fund, il cui nome tecnico è Next Generation EU, fu storico e straordinario anche per come fu finanziato: per la prima volta nella storia dell’Unione gli stati membri si indebitarono insieme, facendo così cadere uno dei grossi limiti della politica economica europea. Nel 2026 i piani nazionali legati al Recovery Fund dovranno esaurirsi ma, secondo anche quanto riporta il sito Politico, non sembrerebbero esserci più i presupposti politici ed economici di allora per replicarne il modello.

La portata del Recovery Fund si ridurrebbe quindi alla sola gestione dell’emergenza pandemica, senza aver davvero rivoluzionato i meccanismi della politica economica comune. Ma quando fu approvato nel 2020 dopo difficilissimi negoziati si pensava davvero che fosse caduto una volta per tutte lo stigma del debito comune: è uno strumento che buona parte degli economisti ritiene importante per un’unione di paesi che condividono le politiche economiche e la moneta ma che storicamente è sempre stato assai osteggiato dai paesi europei meno indebitati e più prudenti nella gestione dei soldi pubblici, che non volevano farsi carico anche dei debiti dei paesi meno equilibrati nella spesa e nel debito pubblico (i quali al contrario erano molto favorevoli).

Oggi il contesto politico è molto diverso e sono più i paesi contrari di quelli favorevoli a replicare il modello del Recovery Fund nel complesso sistema dei fondi europei, che vengono attinti dal cosiddetto bilancio pluriennale dell’Unione Europea. In sostanza, sono soldi che gli stati membri versano all’Unione – circa l’1 per cento del proprio PIL – affinché le istituzioni comunitarie possano redistribuirli con criteri autonomi. Il bilancio pluriennale è valido per sette anni: quello attualmente in vigore è stato avviato nel 2021 e scadrà nel 2027.

Tra i favorevoli a includere nella proposta del prossimo bilancio un nuovo Recovery Fund ci sarebbero, secondo Politico, i paesi con debiti più alti come Italia, Francia e Spagna, preoccupati di come continuare a finanziare i grandi progetti a lungo termine avviati proprio grazie al Recovery Fund. Tra i contrari ci sarebbe il solito gruppo di paesi più rigidi e conservatori nella gestione dei soldi pubblici, tra cui Germania, Paesi Bassi e Austria.

Questa contrapposizione riflette la storica polarizzazione in materia di conti pubblici che esiste tra gli stati membri per motivi culturali e politici: da un lato ci sono i paesi conosciuti come “frugali”, tipicamente quelli del nord Europa, che credono in un intervento dello stato nell’economia tutto sommato limitato e soprattutto guidato dal principio del contenimento della spesa e del debito pubblico; dall’altro ci sono i paesi con una più alta propensione alla spesa pubblica e che hanno accumulato negli anni un cospicuo debito pubblico, tipicamente i paesi “mediterranei”, come Italia, Spagna e Grecia. Sono divisioni a grandi linee, sempre più sfumate e non sempre valide: ma sulle materie economiche si possono ancora rintracciare.

Qualsiasi decisione di carattere economico che viene presa a livello europeo, in qualsiasi istituzione, è il risultato di un compromesso tra queste posizioni e sensibilità: dalla gestione dei fondi europei da parte della Commissione europea alle negoziazioni sulla riforma delle regole europee sui bilanci pubblici nel Consiglio europeo, dalla decisione della Banca Centrale Europea se aumentare o abbassare i tassi di interesse di riferimento alla politica agricola comune.

In questo caso però tra le file dei contrari, secondo alcuni funzionari sentiti da Politico, ci sarebbe anche la Commissione europea, che invece in occasione del Recovery Fund assunse un ruolo assai propositivo. La sua posizione è particolarmente dirimente su questi temi perché è l’istituzione responsabile del monitoraggio delle spese sui fondi europei, e che si occupa anche di elaborare le proposte che poi rappresentano la base per la ripartizione dei fondi stessi. La Commissione sta cominciando a pensare alla versione che dovrebbe iniziare nel 2028, per cui dovrà presentare una proposta formale nel 2025, da cui partiranno negoziati politici che porteranno a un’approvazione finale del bilancio europeo entro il 2027.

La contrarietà della Commissione europea ha però un significato più politico che concreto: con le elezioni europee per il rinnovo del Parlamento europeo cambierà anche la Commissione europea, la cui composizione è frutto di un accordo politico tra i gruppi parlamentari che ottengono più voti alle elezioni.

Il prossimo bilancio sarà dunque proposto da una Commissione che potrà anche essere molto diversa da quella attuale. Per esempio se guadagnassero consensi i partiti di destra – solitamente meno propensi a una maggiore integrazione europea, come quelli dei gruppi parlamentari del Partito Popolare Europeo (il PPE, di centrodestra, di cui fanno parte i parlamentari europei di Forza Italia) e dei Conservatori e Riformisti europei (ECR, di destra, di cui fanno parte quelli di Fratelli d’Italia) – è probabile che la nuova Commissione sarebbe a sua volta meno propensa ad avallare un modello simile a quello del Recovery Fund.

La posizione della Commissione attuale è però il segnale inequivocabile che rispetto al 2020 è profondamente cambiato anche il contesto economico, e che potrebbe essere finito il periodo storico di grande spesa e investimenti pubblici.

Tra i motivi economici per cui sarà abbastanza improbabile che, in mancanza di altri eventi eccezionali, ci sarà un nuovo Recovery Fund c’è il fatto che le grandi iniziative di spesa pubblica sono incluse tra le cause dell’inflazione degli ultimi due anni, l’aumento dei prezzi che ha prodotto conseguenze significative in tutte le economie avanzate. Oltre che per la crisi energetica e per alcune conseguenze della pandemia – come la crisi dei commerci internazionali e la mancanza di materie prime e semilavorati – un ruolo lo avrebbero avuto anche i governi, che hanno immesso nell’economia una quantità di risorse davvero straordinarie. Come le centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund.

Per capire il nesso tra questi programmi eccezionali di investimento e spesa pubblica e l’aumento dei prezzi basta fare l’esempio dei bonus edilizi italiani e del Superbonus, il costosissimo sgravio fiscale per rimborsare i lavori di ristrutturazione degli edifici che ne migliorano l’efficienza energetica: in quasi quattro anni sono state mobilitate risorse per oltre 200 miliardi di euro, tantissimi soldi concentrati in un periodo limitato. Questi sgravi hanno sì contribuito a rilanciare il settore edilizio, ma hanno provocato anche grosse distorsioni, come il rincaro dei materiali e della manodopera perché non ce n’erano abbastanza per soddisfare le richieste di lavori in un lasso temporale così breve.

Per questo da tempo la Banca Centrale Europea chiede ai governi di smettere di “drogare” l’economia con misure assai espansive e di limitare gli interventi a quelli strettamente essenziali. In questo contesto un nuovo Recovery Fund con misure anche solo paragonabili al Superbonus sarebbe dunque controproducente.

Sarebbe anche più costoso del passato. Rispetto agli anni della pandemia, i tassi di interesse sono parecchio più alti: in due anni la Banca Centrale Europea li ha aumentati di 4 punti percentuali per contrastare l’inflazione, rendendo più caro prendere soldi a prestito. Così come nel caso dei mutui per comprare casa, anche per i governi e per la Commissione europea contrarre debiti per finanziare un nuovo Recovery Fund comporterebbe il pagamento di interessi molto onerosi.

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