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  • Mercoledì 24 aprile 2024

Scovare una notizia, e poi “ucciderla”

Quella del "catch and kill" è una pratica giornalistica molto controversa talvolta impiegata dalle riviste scandalistiche statunitensi: se ne parla per via del processo a Donald Trump

Una copertina del National Enquirer nel 2017 (AP Photo/Mary Altaffer, File)
Una copertina del National Enquirer nel 2017 (AP Photo/Mary Altaffer, File)
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Nell’agosto del 2015 Donald Trump, che allora era principalmente un imprenditore newyorkese che si era fatto una certa fama anche grazie al programma tv The Apprentice, andò a un appuntamento alla Trump Tower, la più famosa tra le sue proprietà immobiliari, col suo avvocato personale Michael Cohen e David Pecker. Pecker era da tempo amico di Trump, e dal 1999 era l’editore di American Media, un conglomerato che pubblica decine di riviste dedicate al mondo dello sport e del bodybuilding, ma anche vari settimanali e giornali scandalistici tra cui un tabloid chiamato National Enquirer.

Secondo la recente testimonianza di Pecker, che in questi giorni ha raccontato quanto accaduto al tribunale di Manhattan durante il primo processo penale contro Trump, la riunione alla Trump Tower serviva a capire «cosa lui e le sue riviste potessero fare per aiutare con la campagna elettorale». Ne uscì un accordo in base a cui Pecker si impegnava a usare l’Enquirer per essere «le orecchie e gli occhi di Trump». Nella pratica, questo voleva dire pubblicare articoli negativi sui suoi sfidanti e positivi su di lui, ma anche avvisarlo nel caso avesse sentito circolare storie che avrebbero potuto metterlo in difficoltà. Pecker era un editore ideale da coinvolgere in questo piano anche perché era già noto per la sua tendenza a ricorrere a una pratica giornalistica considerata molto controversa: quella di pagare una fonte per avere l’esclusiva su una storia, farle firmare un accordo vincolante di non divulgazione e poi non pubblicarla, evitando così la diffusione di notizie potenzialmente dannose per una specifica persona in cambio di qualcosa.

La pratica si chiama in inglese catch and kill, che vuol dire più o meno “cattura e uccidi”, ed è piuttosto rara anche nel settore dei tabloid statunitensi, che sono però soliti pagare molti soldi per l’esclusiva su storie che poi effettivamente pubblicano. L’obiettivo è quello di proteggere la reputazione di un politico o di una celebrità a cui un giornalista o un editore è legato, in cambio di soldi o favori. In questo caso non è chiarissimo cosa guadagnò Pecker dall’accordo con Trump: sapeva però che molti dei suoi lettori avrebbero visto favorevolmente una candidatura di Trump alla presidenza e sostenerla, dal suo punto di vista, voleva dire scommettere che le sue riviste avrebbero venduto ancora di più, oltre a investire su tutti i vantaggi che una stretta amicizia con il futuro presidente degli Stati Uniti gli avrebbe portato.

In passato il National Enquirer aveva usato il “catch and kill” in accordo con personaggi come il comico Bill Cosby, accusato ripetutamente di violenze sessuali, e l’attore e politico Arnold Schwarzenegger. Ma in questi giorni se ne parla molto soprattutto perché l’accordo stretto con Pecker è al centro del processo contro Trump relativo a un presunto pagamento di 130mila dollari all’attrice di film porno Stormy Daniels che Trump avrebbe fatto nel 2016 per comprare il silenzio dell’attrice su un rapporto sessuale avuto con lui una decina di anni prima.

Nel caso di Daniels non si può parlare di “catch and kill”: nell’ottobre del 2016 la donna ricevette 130mila dollari direttamente da Cohen, l’avvocato di Trump, perché il direttore dell’Inquirer Dylan Howard aveva già da poco pagato molti soldi per “uccidere” una storia simile e pensava che la somma richiesta fosse eccessiva. La testimonianza di Pecker, che è apparso in tribunale lunedì e martedì, serve però ai procuratori per cercare di provare un’accusa specifica: quella secondo cui il pagamento a Daniels si inserirebbe in un più ampio tentativo di influenzare le elezioni presidenziali del 2016.

La difesa dice che Trump voleva tenere nascosta la storia di Daniels per motivi di privacy e per evitare i disagi e i dispiaceri che avrebbero toccato la sua famiglia in caso la storia del rapporto tra lui e Daniels – che Trump comunque nega sia mai avvenuto – fosse stata resa pubblica. Il procuratore Michael Colangelo ritiene invece che «ci sia stata una cospirazione pianificata e di lungo periodo per influenzare le elezioni del 2016 e aiutare Donald Trump a essere eletto attraverso spese illegali volte a silenziare persone che avevano cose negative da raccontare sul suo comportamento».

In questo contesto, Colangelo ha citato due casi conclamati di “catch and kill” in cui sarebbero stati coinvolti Pecker e Trump. Il primo è quello che ha coinvolto Dino Sajudin, che nel 2015 lavorava come portinaio in un edificio appartenente a Trump a Manhattan. Sajudin aveva contattato l’Enquirer per cercare di vendergli una storia che diceva di aver sentito mentre era di turno, secondo cui Trump avrebbe avuto un figlio illegittimo con una donna che lavorava per lui. I giornalisti della rivista gli promisero che gli avrebbero dato 30mila dollari se, dopo qualche verifica, la storia si fosse rivelata credibile. Anche se sembrava non esserlo, decisero comunque di dargli quella somma a prescindere, facendogli però firmare un accordo di non divulgazione che l’avrebbe costretto a pagare un milione di dollari ad American Media in caso avesse provato a raccontare la storia a qualcun altro. L’accordo fu sciolto soltanto dopo l’elezione di Trump.

Nel giugno del 2016 un’ex modella di Playboy, Karen McDougal, contattò l’Enquirer per cercare di vendere la storia di una sua relazione con Trump durata dieci mesi, a partire dal 2006, quando lui era da poco sposato con Melania. Dopo qualche esitazione al riguardo, il New York Times racconta che Trump avrebbe telefonato personalmente a Pecker per chiedergli di assicurarsi che McDougal non condividesse la storia con nessun altro. American Media le offrì 150mila dollari in cambio dell’esclusiva della storia: per giustificare una spesa tanto alta per una storia che non avrebbero mai pubblicato, le offrirono anche di comparire sulla copertina di due delle loro riviste dedicate al fitness.

Se quelli che girano attorno a Trump sono i più famosi tra i casi di “catch and kill” discussi negli Stati Uniti negli ultimi anni, non sono gli unici ad aver fatto notizia: il New York Times dice che Pecker era considerato «un maestro di questa tecnica» tra le persone del settore. I primi casi che lo coinvolgono risalgono al 2003: all’epoca Pecker ordinò ai suoi giornalisti di individuare, comprare ed evitare di pubblicare qualsiasi storia negativa giungesse loro sull’attore e culturista Arnold Schwarzenegger, da poco candidato a governatore della California, per «proteggere i propri investimenti», dato che American Media aveva da poco comprato varie riviste dedicate al bodybuilding su cui lui appariva spesso e volentieri. Finirono per dare 20mila dollari a un’ex amante di Schwarzenegger per evitare che raccontasse la storia della loro relazione a qualcun altro; mille dollari a un’amica della donna che conosceva tutta la storia; duemila dollari a un uomo che voleva vendere un video in cui si vedeva Schwarzenegger ballare in modo imbarazzante a Rio de Janeiro vent’anni prima.

In altri casi Pecker sfruttò le informazioni in proprio possesso per ottenere qualcosa da parte delle celebrità. Nel 2005, secondo un’inchiesta del Daily Beast, una donna contattò l’Enquirer per raccontare di essere stata drogata e violentata dall’attore comico Bill Cosby: il giornale le promise 7500 dollari per un’intervista e passò le prove fornite loro dalla donna a Cosby stesso. Lei finì per non essere mai pagata. Nel 2007 l’Inquirer avrebbe poi “ucciso” una storia sul giocatore di golf professionista Tiger Woods in cambio di un’intervista esclusiva alla rivista Men’s Fitness, sempre di proprietà di American Media. E nel 2019 il giornalista Ronan Farrow pubblicò un intero libro intitolato Catch and kill in cui raccontava tra le altre cose che Harvey Weinstein, celebre produttore accusato di molestie sessuali da moltissime donne e condannato a decine di anni di carcere per questo motivo, aveva chiesto a sua volta al National Enquirer di cercare storie che lo aiutassero a screditare alcune delle donne che temeva l’avrebbero potuto accusare di violenze. In quel caso Dylan Howard, il direttore della rivista, spiegò di averlo fatto perché l’azienda stava lavorando con Weinstein alla produzione di un programma televisivo e quindi «aveva l’obbligo di proteggere gli interessi di American Media».

Ancora prima che Pecker comprasse l’Enquirer, poi, la rivista era già stata usata in casi simili: un ex dipendente, Tony Brenna, nel 2023 aveva raccontato che l’ex editore Gene Pope Jr aveva più volte fatto ricorso al “catch and kill” per proteggere la reputazione del comico Bob Hope, che aveva la fama di essere un traditore seriale.

Il Codice etico della Società dei giornalisti professionisti, la più antica organizzazione che riunisce e rappresenta i giornalisti degli Stati Uniti, sottolinea che pratiche come il “catch and kill” sono molto problematiche perché minano l’indipendenza e l’integrità giornalistica, oltre a gettare dubbi sull’accuratezza delle informazioni che vengono acquistate.

«In Italia è esistito un sistema simile, molto attivo soprattutto tra gli anni Novanta e gli anni Duemila: succedeva piuttosto spesso che qualcuno raccogliesse notizie, dossier fotografici o altri documenti e poi cercasse di venderle al diretto interessato, che acquistando quel materiale ne evitava la pubblicazione», spiega Alessandra Gavazzi, giornalista che lavora da anni nel settimanale Gente. Il caso più noto è senza dubbio quello di Fabrizio Corona, che fu per questo accusato e in alcuni casi condannato per estorsione. Gavazzi racconta però anche che sarebbe considerato veramente strano se un giornale – settimanale o quotidiano che sia – decidesse apertamente di pagare qualcuno per “ucciderne” la storia, anche perché «soprattutto in un momento di crisi come questo, sarebbe quantomeno antieconomico».