Sarà dura per il governo riuscire a rinnovare il taglio del cuneo fiscale

È una misura popolare perché ha fatto aumentare gli stipendi, ma secondo Banca d'Italia rifinanziarla o renderla strutturale è una pessima idea

(David Ramos/Getty Images)
(David Ramos/Getty Images)
Caricamento player

Lunedì si sono tenute una serie di audizioni in parlamento sul Documento di Economia e Finanza (DEF) presentato dal governo a inizio aprile, con cui il governo indica a grandi linee quali saranno le tendenze economiche per gli anni successivi. È stato un momento in cui le varie istituzioni indipendenti, come Banca d’Italia, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il CNEL e l’Istat, e anche le associazioni datoriali e i sindacati, potevano dire la loro sul contenuto del DEF. Una questione emersa nella maggior parte degli interventi riguarda cosa ne sarà il prossimo anno del cosiddetto taglio del cuneo fiscale, lo sconto sui contributi garantito ai lavoratori dipendenti entro i 35mila euro di reddito, che negli ultimi due anni ha contribuito ad aumentare gli stipendi per compensare almeno in parte l’aumento del costo della vita.

Il governo ha sempre fatto capire che intende rinnovarlo anche per l’anno prossimo, anche se non ha mai detto come finanzierà i circa 11 miliardi di euro che servirebbero. Secondo buona parte delle audizioni la misura ha però un costo sproporzionato rispetto ai suoi potenziali effetti positivi sull’economia, e a seconda di come sarà finanziata potrebbe persino fare danni. La decisione è dunque per lo più politica, perché non rifinanziare il taglio del cuneo fiscale farebbe aumentare le tasse per chi ha stipendi medio bassi, di fatto riducendoli. È una mossa che potrebbe costare molto al governo in termini di popolarità.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Il tema è molto concreto e ha conseguenze assai pratiche sulle aziende e sugli stipendi dei lavoratori (che in Italia sono storicamente bassi). In breve, il cuneo fiscale è la differenza tra quanto le aziende spendono per un dipendente e quanto effettivamente poi gli viene pagato come stipendio. È formato da imposte e contributi a carico sia dell’azienda che del lavoratore, e si discute da anni di ridurlo perché in Italia è molto alto: il 45,9 per cento del costo complessivo del lavoro, uno dei più alti tra quelli dei paesi europei. Questo significa che se il costo complessivo del lavoro è di 100 euro, il dipendente italiano percepisce come retribuzione netta solo 54,1 euro. Il resto – che corrisponde al cuneo fiscale – è a carico di dipendente e datore di lavoro: l’azienda paga 24,3 euro e il lavoratore 21,6.

Il taglio del cuneo fiscale attualmente in vigore fino alla fine dell’anno prevede uno sconto del 7 per cento sui contributi a carico del lavoratore per i redditi sotto i 25mila euro e del 6 per cento per quelli tra i 25 e i 35mila: la misura produce effetti immediatamente visibili sulle buste paga dei dipendenti, il cui stipendio netto è aumentato di conseguenza. Di contro si sono ridotti i contributi pagati da questi lavoratori dipendenti agli istituti di previdenza e assistenza, l’INPS e l’INAIL, la cui differenza viene coperta dallo Stato.

Il provvedimento fu introdotto in origine dal governo di Mario Draghi nell’estate del 2022, e fu poi confermato e potenziato dal governo di Giorgia Meloni per il 2023 e il 2024. È sempre stata definita una misura temporanea e straordinaria per compensare la riduzione del potere d’acquisto derivante dall’inflazione. La sua temporaneità ha permesso di finanziarla in deficit, gravando sul debito pubblico. E questo perché, per legge, tagli strutturali e permanenti delle tasse devono essere sempre finanziati con riduzioni altrettanto strutturali e permanenti della spesa pubblica. Questo vincolo, tuttavia, non vale nei casi di riduzioni temporanee.

– Leggi anche: Cosa sono le coperture di bilancio

Lunedì i sindacati e le principali associazioni datoriali (cioè dei datori di lavoro) nelle loro audizioni hanno chiesto non solo certezza sul rinnovo della misura per il prossimo anno, ma anche la possibilità che questa misura diventi strutturale: i sindacati hanno interesse a mantenere più alti gli stipendi, mentre le associazioni dei datori di lavoro ad abbassare il costo complessivo del lavoro.

Sono state critiche invece le istituzioni indipendenti. Secondo Banca d’Italia prorogare ancora temporaneamente lo sgravio sarebbe dannoso per il bilancio pubblico: il governo potrebbe finanziarlo con maggiore debito, in un momento in cui l’Italia è già tra i paesi europei col più alto rapporto sul PIL di debito pubblico e deficit (la differenza tra entrate e uscite totali dello Stato) rispetto al PIL. Sarebbe dunque non solo dannoso, ma anche difficile da attuare visto che quest’anno tornano in vigore le regole europee sui conti pubblici, il cosiddetto Patto di stabilità e crescita che prevede una serie di vincoli per evitare che gli Stati europei si indebitino troppo: già senza fare niente l’Italia sfora tutti i parametri su debito e deficit, dunque ha poco spazio per nuove misure che li aumenterebbero.

Secondo Banca d’Italia ci sarebbero problemi anche se la misura fosse resa strutturale, perché il governo dovrebbe trovare il modo di pagare in modo permanente quello che i lavoratori non verserebbero più, in modo da non gravare sul bilancio di INPS e INAIL. I contributi finanziano le pensioni e le molte tutele di cui beneficiano tutti i lavoratori e le lavoratrici, come i congedi per malattia e quelli parentali, la maternità e la paternità, la disoccupazione, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Lo Stato deve quindi trovare un’alternativa per continuare a erogare questi servizi, altrimenti c’è il rischio di doverli ridurre.

L’Istat ha poi fatto notare che a fronte di un costo di alcuni miliardi per lo Stato gli effetti sull’economia del taglio del cuneo fiscale sarebbero tutto sommato limitati: secondo le sue simulazioni se venisse finanziato totalmente a debito, potrebbe esserci un impatto positivo sui consumi e infine sul prodotto interno lordo (PIL) di soli 0,2 punti percentuali; se fosse finanziato attraverso tagli di spesa, allora gli effetti sul PIL sarebbero addirittura negativi.

Il taglio del cuneo però incide direttamente e visibilmente sugli stipendi delle persone, e quindi ha un discreto ritorno nei consensi: non rifinanziarlo ridurrebbe gli stipendi e avrebbe dunque lo stesso effetto di aumentare le tasse. Per questo il governo ha fatto sempre intendere che troverà il modo di rinnovarlo, anche se non è chiaro come. Il DEF non dà risposte, perché a differenza degli scorsi anni è stato presentato in forma un po’ anomala: contiene solo le previsioni tendenziali dell’economia italiana e non include, cioè, l’effetto che le misure volute dal governo (approvate o rinnovate) possono produrre sulla crescita dell’economia.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nella conferenza stampa di presentazione del DEF ha detto che confermare il taglio del cuneo fiscale anche nel 2025 è «la priorità numero uno» e che «quando si farà la legge di bilancio e il programma strutturale a settembre sicuramente si troveranno le forme». In breve ha detto che si vedrà tra qualche mese. E lo ha confermato anche lunedì sera in occasione della sua audizione sul DEF. Ha anche aggiunto però che nelle previsioni del governo, che escludono per il momento il rinnovo della misura, l’economia cresce anche per l’effetto dell’aumento generale degli stipendi dovuto alla contrattazione tra sindacati e imprese per il recupero del potere di acquisto perso in questi anni di inflazione, che non deve essere «affidato solamente alla leva fiscale in capo al governo, ma anche a una ragionevole dinamica della contrattazione tra le parti».

– Leggi anche: Quanto ci ha impoverito l’inflazione?